J Lord è il nome caldo del rap italiano e, non a caso, l’avevamo segnalato tra le promesse di quest’anno in Classe 2022. Dopo aver sfornato una serie di singoli di fuoco con la collaborazione del producer Dat Boi Dee, il rapper napoletano di origini ghanesi nell’ultimo paio d’anni ha inanellato una serie di collaborazioni con i principali esponenti della scena (Massimo Pericolo, Ghali, Guè, Mace, Emis Killa, Liberato), mettendo il suo nome sulla mappa del panorama italiano. Tutti lo vogliono, e fanno bene.
J Lord ha portato una ventata di aria fresca sulla scena. Nonostante la giovanissima età (parliamo di un ragazzo che compirà 19 anni ad agosto), i suoi testi hanno qualcosa che non si trova spesso, una certa realness, una crudezza inedita che trova una sua eccezionale particolarità nell’uso del dialetto napoletano mischiato all’italiano e all’inglese americano a cui l’artista fa riferimento. La tradizione italiana, quella del dialetto napoletano, con l’attitudine, il fuoco e la voglia di riscrivere il futuro delle seconde generazioni, il contrasto tra la sfacciata gioventù e un passato difficile, la vita a Napoli e il sogno americano. J Lord contiene in sé una serie di contrasti che rendono il suo rap differente, fresco, internazionale. Nuovo.
Il suo primo album No Money More Love è uscito oggi e noi lo abbiamo chiamato il giorno prima dell’uscita per sapere le sue sensazioni prima del suo primo disco.
Ciao J, Come stai vivendo la vigilia dell’uscita del tuo primo disco?
Sto da paura, bro. Non vedo l’ora. Stanotte festeggiamo un po’. Ora però sono in studio con Night Skinny, sto continuando a fare musica su musica.
Cosa significa per te questo disco? Ha ancora un senso l’idea di disco per quelli della tua generazione?
Sì, assolutamente. Per me questo disco è molto significativo perché qui dentro ci sono due anni di me, due anni di esperienze. È emozionante vedere – per la prima volta – l’uscita di un mio disco, con la mia faccia sopra; due anni fa sarebbe stato impensabile. Sono soddisfatto di aver raggiunto questo primo obiettivo, ma ora devo continuare in questa direzione, con quest’attitudine. Non mi accontento.
Avresti pensato di arrivare a questo livello in così poco tempo?
No, non avrei mai pensato di trovarmi qui, ma ho lavorato sodo per arrivarci. Non mi fisso obiettivi, cerco di vivere senza darmi limiti. Voglio raggiungere più cose possibili.
Se avessi l’occasione di poter parlare con il te di qualche anno fa, quando hai iniziato da adolescente, cosa gli diresti?
Gli direi bravo, bravo di aver creduto in questo sogno perché attorno ci sono state persone che dicevano che non ce l’avrei mai fatta, che non sarei mai stato in grado di realizzarlo. Ma sono contento che quel ragazzo ci ha creduto e che ha continuato per la sua strada mettendoci tutto l’amore del mondo. Che per me è l’unica cosa che conta.
C’è stata una grande attenzione attorno a te in questi ultimi anni e molti rapper importanti ti hanno chiamato a collaborare. Secondo te cosa ha spinto questi artisti e il pubblico a credere in te? Qual è la tua peculiarità?
Il mio punto di forza è la capacità di essere libero di sfogarmi sul foglio e raccontare tutto. Io sono uscito raccontando il mio passato, le mie storie, le mie esperienze, senza immedesimarmi in un personaggio e senza tentare di dare un’immagine di una cosa che non sono. Questo è un progetto che deve crescere con cura e coerenza. E penso che le persone abbiano notato questa sincerità, capiscono che sono vero; questo è arrivato. I big della scena mi hanno scritto perché hanno capito che sono real. Questo mi ha dato ancora più carica nell’andare avanti.
Il concetto di realness è un perno della cultura hip hop, soprattutto di quella old school. Cosa significa realness per te? Che valore gli dai a questo termine?
La realness nel rap è tutto. Quando una persona è vera, bro, si vede. Non c’è bisogno di spiegare altro. Il concetto di realness è qualcosa che fa parte della tua vita, o no.
Quando si parla di te si mette sempre l’enfasi su questa realness e sulla tua precoce maturità. Ti ci ritrovi in questo?
Sai, da piccoli qua abbiamo vissuto cose che non dovevamo vivere per l’età che avevamo. Però le abbiamo vissute e superate. Siamo cresciuti imparando a sopravvivere tra le situazioni disagiate, traendone il meglio. Quando ero minorenne ho vissuto situazioni che nessun bambino dovrebbe vivere. Ma qui non c’è un’età per sta roba, capì? Conosco gente più piccola di me che ha problemi ancora più pesanti. Sono cose che ti segnano.
Com’è il tuo rapporto con Napoli oggi? È cambiato qualcosa con l’avanzare della tua carriera?
Napoli è casa mia, per sempre. Napoli mi ha cresciuto, e mi trovo a bene a Napoli. Ti posso dire che non è cambiato nulla. Anzi, l’unica cosa che è cambiata è che quando ho iniziato attorno a me c’era chi credeva in me e chi no. Il rapporto con chi credeva in me non è cambiato, sono sempre me stesso. Chi invece non credeva in me, chi mi diceva che non ce l’avrei fatta, ora è tornato indietro e mi dice «stai spaccando». È cambiato il loro approccio verso di me, non il contrario. Io sono sempre stato real, mi sono sempre posto per quello sono. Ma onestamente non mi interessa di chi non ha creduto in me; sono contento di averci creduto io stesso.
Con Young Miles e Shari sei stato colonna sonora di Gomorra con Testamento. Immagino che in città sia stato un evento.
A Napoli sono tutti appassionati di Gomorra, io in primis. Quindi far parte di quel progetto è stato un privilegio. In quei giorni a Napoli mi fermavano e mi chiedevano, «ma davvero l’hai scritto tu il pezzo?».
Ti capita spesso che ti chiedano se hai davvero scritto tu i tuoi brani?
Quando la gente non sa le cose, viaggia un sacco con la testa e non pensa mai che tu possa fare cose grandi.
E ti mette pressione l’opinione della gente?
No, non sento le pressioni. Ho un modo di lavorare con la musica che va in un’altra direzione, è un rapporto molto emotivo
Cosa significa per te fare musica?
Fare musica è raccontare. E per me questo significa condividere una storia, un’esperienza, bella o brutta che sia, in modo che possa essere d’aiuto per qualcun altro. Per me far musica è questo. Ogni giorno buttare giù l’emozione che ti senti dentro. Che tu stia male o bene.
Mi sembra che tu abbia un rapporto molto viscerale con le parole.
Le parole mi hanno salvato la vita e ancora oggi mi danno la forza di fare tutto questo. Mi aiutano molto a comunicare. Quando scrivo penso solo a seguire le mie intenzioni e il messaggio che voglio comunicare. Scrivere è istinto, è solo un fatto di attitudine.
Nella tua musica mischi napoletano, italiano, inglese americano. Pensi mai che questo miscuglio possa diventare una barriera per gli ascoltatori che non conoscono il napoletano?
No, non penso che l’uso del napoletano allontani. Ma ad ogni modo ho dimostrato che posso anche fare cose tutte in italiano che funzionano.
La tua generazione sembra la prima in grado di poter portare il rap fuori dai confini nazionali. Ci sono rapper che – come te – stanno innovando il linguaggio che ora ha acquistato una musicalità tutta nuova. Pensi che sia il momento in cui saremo in grado di esportare il nostro rap?
Il rap italiano uscirà dall’Italia solo continuando a fare, continuando a spingere. Non penso sia più un problema di lingua o di nazionalità. Pensa a noi italiani; quando andiamo a scoprire qualcosa, ci interessiamo esclusivamente al suono e all’immagine. Se un pezzo dice cazzate, ma il sound funziona, ci entri dentro. È questo ciò che davvero viene preso in considerazione. La lingua non è più un limite.
Tu hai quest’ambizione verso l’estero?
Sì. E penso che la mia roba possa funzionare all’estero.
Oltretutto tu hai un immaginario, e un suono, che ricorda una certa old school americana.
Lo tengo nel sangue bro.
Quando ti sei innamorato di rap?
Amo la musica perché non ti fa pensare ai problemi. Inizialmente mi sono appassionato a Biggie, a 50 Cent. Poi ascoltando, scoprendo, trovando nuovi suoni e nuovi artisti, mi è venuta voglia di provare. Volevo provare a vivere quel tipo di emozioni. Volevo scendere in campo e sfogarmi.
Il tuo disco è molto vario. C’è la strada e il pop, Napoli e New York.
Tutti i pezzi del disco sono differenti da loro, è una caratteristica forte. Volevo avere sound differenti che funzionano e si amalgamano tra loro. Sono curioso di vedere come le persone reagiranno. È arrivato il mio momento bro.
Non hai paura che fare pezzi più pop possano minare la tua realness?
Quando faccio la mia roba sono al 100% me stesso, non mi faccio paranoie. Non mi metto limiti di lingua o di genere; se il sound ci sta, vai.
In questo album ci sono featuring con Massimo Pericolo, Bresh, Vettosi, Vale Pain e Digital Astro. Oltre che la direzione artistica del producer Dat Boi Dee. Come sono nate queste collaborazioni? Che ruolo ha avuto Dat Boi Dee?
Sono tutte persone che ho conosciuto in questo percorso e che spontaneamente sono entrate in questo disco. Persone stupende dentro e fuori la musica. Una parola a parte va per Dat Boi Dee. Davide è un fratello maggiore. Mi è stato molto vicino in questi due anni; ci siamo sfidati e confrontati, abbiamo sperimentato e ascoltato. Davide per me è importantissimo, Davide è Davide, come altro posso dire? È 50% di me.
Chiudiamo con il titolo del disco, No Money More Love, una sequenza di parole molto evocative. In un genere – e in una società – in cui il denaro ha più fascino dell’amore, quel concetto di more love è affascinante. Cosa significa questo titolo per te?
No Money è il mio passato. More Love è la mia voglia di andare avanti e cambiare le cose.