Dopo aver registrato il folle Boarding House Reach (2018), Jack White ha deciso che era arrivato il momento di togliersi di dosso un po’ di pressione, e ha rimesso insieme i Raconteurs, la band che ha fondato nel 2006, poco prima dello scioglimento dei White Stripes, con alcuni musicisti di Detroit, tra cui il co-frontman Brendan Benson. I primi due album del gruppo sono tra i preferiti dei fan di White; il terzo, Help Us Strangers, è un gradito ritorno alla leggerezza garage e al mix perfetto tra la voce aggressiva del chitarrista e quella più “dal suono più dolce” di Benson. «Lui è un vero cantante», dice White. «Io no».
Questa volta White ha deciso di mettersi alla prova: ha cantato i brani più sentimentali, mentre Benson si è dedicato a quelli più rock. «Non è una competizione, per questo è una figata», dice. «Ci ispiriamo a vicenda per uscire dalle rispettive comfort zone, e continueremo a farlo». L’esperimento ha funzionato e l’album ha già ottenuto buoni risultati in classifica.
Cosa è cambiato nella tua vita dall’ultimo album dei Raconteurs (uscito nel 2008, ndr)?
È curioso pensarci. All’epoca ero io quello sposato e con figli, adesso invece sono l’unico della band a non esserlo più. Siamo tutti più vecchi di 10 anni, e suoniamo da 25. Ricordo quando lavoravo in un negozio di tappezzeria: suonavo saltuariamente con una band, amavo la musica e mi dicevo che avrei fatto di tutto per fare solo quello. Ma pensavo: “Non è possibile, scordatelo”. È incredibile pensare che qualcuno riesca a fare l’artista a tempo pieno per un giorno – figuriamoci un decennio – e passarla liscia. Mi sembra di aver fregato tutti.
Com’è la tua giornata tipo a Nashville?
Be’, ora che il tour è iniziato devo sfruttare al massimo il tempo passato a casa. Io lo impiego quasi tutto per stare con i miei figli. Cerco sempre di inventare qualcosa di nuovo da fare insieme. Sto lavorando a un progetto di tappezzeria, che mi aspetta a casa ogni volta che parto. E ho sempre il lavoro con Third Man, sai. Adesso stampiamo vinili a Detroit. Abbiamo lavorato duramente per preparare il materiale dei Racounteurs – il sette pollici, i dischi per gli abbonati e le edizioni limitate per i negozi. Davvero, qui c’è creatività ovunque e in qualsiasi momento. Potrei andare nell’art department di Third Man e passare 18 ore lì, potrei farlo ogni giorno. Abbiamo messo in piedi un posto molto bello, dove c’è sempre qualcosa in ballo. Mi fa sentire bene.
Hai appena ricevuto un dottorato onorario alla Wayne State University, dove studiavi prima di fondare i White Stripes. Come ti sei sentito?
Se avessi potuto scegliere un ateneo dove ricevere un premio del genere, una qualsiasi università del mondo, avrei scelto Wayne State. È stato un vero onore. Il solo fatto che riconoscano la mia esistenza mi ha fatto grande piacere. Ricevere un premio del genere mi ha fatto riflettere, mette le cose in prospettiva. All’epoca dell’università potevo permettermi di andare all’università solo per un semestre. Seguivo le lezioni di cinema e mangiavo il pranzo alla mensa. I White Stripes hanno suonato in quella stessa stanza un paio d’anni dopo. Mi ricordo che il club audiovisivo aveva microfonato il palco puntando sei microfoni verso la nostra attrezzatura: non avevano mai fatto qualcosa di simile. Mi torna in testa continuamente. Mi fa davvero ridere, è troppo bizzarro pensare che qualcuno abbia detto: “Sì, ecco come microfoneremo tutto. Mettiamo sei microfoni in fila e li puntiamo verso gli strumenti”. Dovrei fare un disco così e vedere che succede.
Ascoltare i dischi dei White Stripes ti rende nostalgico?
È sempre una catarsi. Sono stato molto fortunato. Se qualcuno mi avesse chiesto di mettere le tastiere in un brano, o di vestirmi in un certo modo, adesso mi guarderei indietro e direi: “Non sono molto orgoglioso di quella roba”. Ma io sono cresciuto in un’epoca diversa. Tutto quello che abbiamo registrato era frutto di una nostra decisione. Certo, a volte ascolto le registrazioni dei nostri concerti e penso: “Oh Dio, abbiamo suonato quel brano troppo veloce, eravamo troppo eccitati dal set e abbiamo dato tutto”. A volte sento la stessa cosa sui dischi di Jimi Hendrix, brani troppo veloci e chitarre scordate, ed è grandioso perché è libero. Contava solo lo stile.
Che consiglio daresti a un giovane musicista che vuole entrare in Third Man?
So solo che sentire gli artisti che si lamentano non mi impressiona granché. Essere un artista significa lavorare più duramente di tutti gli altri. È una responsabilità, 24 ore su 24. Ci penso tutto il giorno. Se non ce l’hai già dentro di te, se non è una forza incontrollabile, allora non so che dire.
Ci sono nuove band o artisti che ti danno speranza?
Tutti gli album rock usciti quest’anno. Gli Hives, i Black Keys… e sono felice che la gente apprezzi band che scrivono musica come quella dei Vampire Weekend o dei Twenty One Pilots. È musica scritta meravigliosamente.
È curioso che tu abbia citato proprio i Twenty One Pilots…
Amo quello che fanno. La prima volta che li ho visti erano ospiti del Saturday Night Live. Ho pensato: “Oh, grande. Ecco un altro duo che riesce a suonare roba potente”. Mi piaceva tutto: il piano e il basso, la voce solista. Era intenso. Mi piacciono anche i Royal Blood, un altro duo molto fico.
Quanto tempo ci è voluto per scrivere e registrare il nuovo album dei Raconteurs?
Nessuno ha mai detto “Ehi, facciamo un nuovo album e partiamo in tour”. Abbiamo solo pensato: “Incontriamoci e lavoriamo su un pezzo, forse due, e vediamo che succede”. Tutti erano pieni di energia, è stato davvero stimolante. Insomma, alla fine ci siamo ritrovati a lavorare su 30 canzoni, a dire: “Ok, dobbiamo sceglierne una dozzina, altrimenti continueremo a scrivere”. Non so quanto tempo c’è voluto. Forse qualche settimana. Non ricordo.
Uno dei tuoi versi più belli è in Don’t Bother Me: “You fake punk jacket-liar”.
In effetti è divertente. È come se avessi trasformato un sostantivo in un verbo, o qualcosa del genere.
Di cosa parla quel brano?
È pura aggressività. Volevo scrivere di un personaggio capace di incarnare la rabbia. Alcuni autori vogliono scrivere solo di se stessi. A me piace lavorare con i personaggi. Certo, a volte prendi qualcosa della tua vita e cerchi di farla funzionare. Ricordo di aver scritto un brano molto aggressivo per i White Stripes, come diavolo si chiama (pausa)… There’s No Home for You Here. Parlava di un ragazzo della scena di Detroit, ma nella canzone l’ho trasformato in una ragazza. Se scrivi così… vuoi assicurarti che il resto della tua vita stia fuori, non vuoi pensare costantemente a qualcosa che ti è capitato davvero.
Cosa pensi dei Greta Van Fleet? Sono molto criticati per la loro somiglianza con vecchie band rock…
Sono tre fratelli polacchi di Frankenmuth, Michigan. Quando me l’hanno detto la prima volta pensavo fosse una battuta! È eccitante scoprire che i giovani suonano ancora il rock & roll, non ci sono dubbi su questo. E quel tizio ha una voce molto fica. Se riuscirà a renderla più sua, ancora meglio. Quando ho iniziato a suonare molti mi dicevano “Quello lì somiglia a Robert Plant”. Se continui a fare le tue cose, quella merda alla fine sparisce.
Prima hai citato i Black Keys. La tua etichetta si è congratulata su Twitter per il loro ultimo singolo, una sorpresa visto il vostro passato piuttosto teso. Cosa è cambiato?
Rispetto tutti i rocker. Credo che il litigio sia nato per colpa di alcuni avvocati che volevano fottermi e togliere le cose dal loro contesto. Patrick Carney è passato a salutarci durante le registrazioni del disco dei Raconteurs, mi ha prestato un microfono. È stato gentile da parte sua.
Com’è averlo come amico? Di cosa parlate?
Lui viene da una zona da dove arrivano molte band garage rock. Ci piacciono gli stessi dischi. Ci sediamo e parliamo per un po’ di Captain Beefheart. È un bravo ragazzo. Di solito incontro musicisti ai festival. Mi manca molto andare a concerti quattro sere a settimana. Lo facevo di continuo, e lo farei ancora se non avessi gente che mi interrompe in ogni momento. È per questo che ritengo così importante avere un vero negozio di dischi, fatto di calce e mattoni. È lì che avvengono tutte le conversazioni più importanti, dove nascono le amicizie e dove si lega davvero. Quante band sono nate in un negozio di dischi? Se trovi qualcuno con lo stesso rispetto per un certo tipo di musica, è probabile che finirete per suonare insieme. Sarebbe davvero un peccato veder sparire posti così.
La canzone più famosa in America è Old Town Road di Lil Nas X. Che cosa ne pensi?
È bellissima. Dura solo un minuto e 47 secondi, qualcosa del genere, più o meno quanto durava Fell in Love With a Girl. Qualcuno diceva: “non la suoneranno mai in radio”, ma ha funzionato. Ed è bellissimo che sia successo ancora.
I Raconteurs dovevano suonare a Woodstock 50. Siete ancora a bordo?
Non capisco cosa sia successo. Qualcuno mi ha detto che non avevano il permesso giusto, ma non ho capito. Quello che so è che ogni volta che sento parlare di eventi del genere, penso: “Sono così felice di non produrre questo festival, sembra un incubo”. E tutte le volte che ci vado mi ripeto: “Wow, non voglio saperne niente dell’organizzazione”. Credo che anche organizzare i servizi igienici sia complicatissimo.
Tu e Bob Dylan vi conoscete bene, e ora aprirà una distilleria a Nashville. C’è qualcosa che ti ha detto che ti ha colpito particolarmente?
Sì, succede tutte le volte. È stato un mentore incredibile, e anche un buon amico. Mi sentirei fortunato anche se ci avessi parlato solo una volta. Tutto il resto è stata come la ciliegina sulla torta.
C’è un lato di Dylan che il pubblico non vede?
È un uomo molto complicato. La maggior parte della gente che vive il successo, anche piccolo, passa attraverso esperienze che nessun essere umano dovrebbe affrontare. Mi è capitato di entrare in una stanza e rendermi conto che tutti si sentivano intimiditi dalla mia presenza. Quando succede non sai come comportarti. Credo che personaggi come Dylan cerchino di evitare situazioni come quella.
Avete mai scritto un brano insieme?
Non posso rispondere. Vorrei dire qualcosa, ma non posso.