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Jake La Furia: «Non conta il numero di streaming, ma il talento»

Un tamarrissimo ritorno alle origini. Così il rapper definisce il nuovo album 'Ferro del mestiere'. Il suo scopo è sempre lo stesso: «Essere il più bravo, non il più ricco»

Foto: Mattia Guolo

Jake La Furia è forse il più fine aforista della sua generazione, ed è un dato incontestabile. Fin dai tempi di “Noi, generazione di BR figli della bomba / Voi, generazione di PR figli della bamba” (da Cronache di resistenza, traccia inclusa in Mi Fist dei Club Dogo, 2003) sforna rime che restano scolpite nella memoria degli ascoltatori in maniera indelebile, rendendolo di diritto uno dei rapper più rispettati di sempre. Allo stesso tempo, però, ha fatto della versatilità il suo punto di forza, il che a volte ha generato qualche perplessità nei fan di vecchia data: i pezzi estivi e il reggaeton, le comparsate televisive più folkloristiche che di sostanza, i testi scritti per altri artisti ben più pop di lui.

Neanche i più oltranzisti e intransigenti, però, possono contestare le sue ultime fatiche discografiche: 17, l’album congiunto con Emis Killa uscito nel 2020, ha riportato al centro della narrazione il rap fatto per chi ascolta rap, quello che non ammicca al mercato generalista e che se ne frega di piacere a tutti. Ferro del mestiere – il suo nuovo lavoro solista uscito oggi con featuring di nuovissime leve come 8blevrai e Yung Snapp, giovani promesse come Paky, leggende come Inoki e Noyz Narcos, eterne certezze come Lazza, l’amico di sempre Emis Killa, e perfino la wild card Ana Mena – prosegue sulla stessa linea. Il che, visti anche gli ottimi risultati di 17, ad oggi certificato doppio disco di platino, è un’ottima notizia per tutti, anche se questa mia affermazione viene accompagnata da gesti apotropaici da parte del diretto interessato («Mani sulle palle, che non si sa mai!»).

Ferro del mestiere mi è sembrato un po’ un ritorno alle origini.
Beh, era quello che voleva essere.

In passato, a volte la tua produzione sembrava non rispecchiare del tutto il tipo di musica che ascolti davvero, o comunque quella per cui ti sei fatto inizialmente un nome. Ferro del mestiere, invece, ti somiglia in tutto e per tutto.
Esattamente. È un disco figlio di 17, che mi ha caricato a molla: mi è tornata la voglia di fare le cose fatte per bene, ma senza pensarci troppo, buttandomi su quello che amo, cioè il rap. Poi se c’è la domanda per un disco del genere, bene; altrimenti amen, cazzi della discografica (ride).

Beh, 17 è andato molto bene.
Certo, però analizzando la situazione con amici e colleghi ormai concordiamo sul fatto che è difficile predire cosa funzionerà e cosa no: da un momento all’altro tutto cambia, in due mesi sembrano passati 10 anni. Quando ho chiuso l’album, il mondo della musica sembrava già completamente diverso rispetto a quando ho iniziato a lavorarci. Ma nonostante questo me ne sono sbattuto delle logiche da classifica. Spero semplicemente che, come 17, piaccia agli appassionati di musica rap.

Anche nel numero delle tracce è un album abbastanza controcorrente: sono solo 11.
Credo che in questo momento sia difficile riuscire a fare dei dischi lunghi: se ci provi finisci per fare un sacco di pezzi che si assomigliano, o senz’anima. E poi ovviamente c’è anche la questione logistica: tra tempistiche che non si riescono a incastrare e manager che non si mettono d’accordo, è complicato. Alla fine, per non rinviare oltre, siamo usciti con quelle che ci sembravano già pronte, e il resto uscirà in un secondo momento. Ferro del mestiere è il primo di due capitoli: non so ancora quando, ma probabilmente entro l’anno uscirà anche la seconda parte.

Nella prima traccia, 20 primavere, dici “Ho passato 20 primavere a fare musica per prevalere”. Anche se magari hai avuto meno successo a livello di grande pubblico, tra gli altri rapper sei sempre stato considerato l’uomo da battere. Cosa significa quindi l’espressione “prevalere”, per te?
Non prevalere sul mercato, appunto, ma prevalere sugli altri. Volevo semplicemente essere il più bravo, non me ne fregava niente di essere il più ricco. Però è proprio così, per me la competizione del rap è tutta interna, e tolto qualche caso credo di essere davvero riuscito a diventarlo, più bravo degli altri, quindi mi considero soddisfatto (ride).

Se parliamo della situazione odierna ti piace vincere facile, però. Il livello tecnico attuale non brilla per qualità.
Non mi sento di appartenere a quest’epoca, anche perché i parametri sono cambiati e non posso mettermi a fare a gara con i ventenni. Se si parla di bravura, oggi come la misuriamo? In termini di streaming, che è un metro abbastanza taroccabile? L’unico metro non taroccabile è il talento, e in quell’ambito mi sento abbastanza forte. Al di là di tutto, però, io ho sempre fatto musica perché volevo fare il musicista. Non volevo fare un lavoro d’ufficio, ma neanche fare l’influencer, e oggi per essere il numero uno devi fare tutta una serie di cose che con la musica non c’entrano un cazzo.

Però anche tu fai tante cose che non c’entrano molto con la musica, ad esempio in tv.
Sì, ma non mi metto lì a montarmi i video per i social. Ci tengo molto a farmi i cazzi miei e a tutelare la mia privacy, c’è il mio personaggio e la mia persona, e non ce la faccio a girare con uno che mi filma mentre vado in bagno. Considerando quello che è richiesto per arrivare oggi al top, non ho quella spinta imprenditoriale che può farmici arrivare davvero. Uno dei miei mentori nella vita, J-Ax – che ha un approccio completamente diverso dal mio, specie su questo argomento – una volta disse «A me non interessa essere il numero uno per un anno, mi interessa essere il numero 10 per trent’anni». Secondo me non è una filosofia sbagliata. Preferisco restare dove sono, guadagnare il giusto, essere tranquillo e fare bella musica, ma vivermela bene. Se avessi dovuto basare la mia esistenza sugli algoritmi, anziché farmi le canne avrei continuato a studiare e sarei diventato un genio della tecnologia. Invece voglio fare il rapper.

A un primo ascolto, Ferro del mestiere mi è sembrato un disco in un certo senso molto riflessivo. È effettivamente così?
Non so, a me sembra un disco tamarrissimo, ma non sei la prima che me lo dice. Lo prendo come un complimento. Probabilmente le mie tamarrate sono ricche di profondità (ride). La musica triste mi è sempre piaciuta, in generale mi sento più bravo a fare quello che roba allegra, ma sono contento anche di tutte le altre sfaccettature del disco: uno dei miei pezzi preferiti ad esempio è Jumpman, che è tutto tranne che riflessivo.

Anche nei pezzi apparentemente più zarri ci sono più livelli di lettura, però. Come I soldi e la droga: a un ascolto superficiale sembra un’esaltazione di quel vivere sempre al limite, ma il senso potrebbe essere completamente ribaltato dal contrasto con il beat, stonato e preso male, quasi tossico.
I soldi e la droga – miglior titolo del mondo, tra l’altro – riflette quella che è un po’ una mia specialità: sfornare pezzi che potrebbero essere delle hit, ma poi non lo diventano perché nel testo dico delle cose tremende e quindi non possono girare nei circuiti giusti. Questa cosa mi riempie d’orgoglio (ride). Il beat inizialmente viaggiava su un sample famosissimo, ma abbiamo dovuto cambiarlo perché il gruppo, quando gli abbiamo mandato il brano per liberare il campione e ha sentito il testo, non voleva avere nulla a che fare con tutto ciò. Se ci pensi anche quella è una piccola vittoria, un po’ come essere rifiutati a Sanremo.

Cosa che ti è già capitata, per caso?
No, mai. Io a Sanremo non andrò mai, neanche se mi ci trascinano in catene! Ci potrei andare solo come autore o come presentatore.

Non ti sei mai fatto problemi a scrivere per altri, e a dirlo: una cosa piuttosto rara tra i rapper italiani. Come mai?
Non lo faccio spessissimo, ma solo se mi capita. Ripeto, per me scrivere è un lavoro: quando lo fai per altri è diverso, ovviamente, perché devi immedesimarti negli altri, è un lavoro di fantasia.

In Indiani e cowboy dici “In giro sono rispettato / perché il mondo si è rispecchiato / in cose che ho scritto di getto tutto fatto e non mi sono mai impegnato”.
Quelle barre sono le preferite di tutti. È un po’ la storia della mia vita. Fin dagli esordi, i miei pezzi più belli li ho scritti in 10 minuti: con Mi Fist avrò scritto tutto il disco in mezz’ora a dir tanto. So che può suonare un paragone un po’ pompato, ma anche Maradona era un genio del calcio pur senza allenarsi e impegnarsi mai. Per me è la stessa cosa, e diffido da chi prende la faccenda troppo seriamente, mi sembrano un po’ degli invasati. Ancora adesso è così: fortunatamente sono riuscito a sviluppare una capacità poco romantica, che però mi aiuta molto, ovvero quella di trasformare la scrittura in un lavoro. Riesco a scrivere qualunque cosa, in qualsiasi momento, per chiunque. Non è che io abbia studiato per farlo: al massimo ho passato tantissimo tempo ad ascoltare musica. Evidentemente sono riuscito a trovare la mia strada, a capire ciò che mi veniva bene e mi divertiva senza bisogno di troppi sforzi. Quando dico che non mi sono mai impegnato, intendo quello.

Viceversa, ti è mai capitato di impegnarti tantissimo per qualcosa che poi non è stata capita dagli altri?
Sono molto competitivo, quando faccio qualcosa devo farla al meglio: per cui non mi è mai capitato che qualcosa non mi sia proprio riuscita al punto da non essere capita del tutto. Però certo, ci sono state cose che sono state capite meno. Per esempio Fuori da qui, il mio precedente album, che per me era una bomba, ma evidentemente era un po’ troppo diverso rispetto alle cose che avevo fatto prima.

Nell’album c’è molta vita di strada, un immaginario che nel rap italiano era stato lanciato dai Club Dogo, ma che nei tuoi album solisti avevi un po’ lasciato da parte. Come mai questo tuffo nel passato, soprattutto in un momento in cui la strada che viene raccontata dal rap italiano è molto più cruda e squallida di quella che storicamente narravi tu?
Negli ultimi anni sono tornato a frequentare molto la gente di strada. Le mie amicizie sono quelle da sempre, ma avendo vissuto tanto l’ambiente della musica e dello spettacolo, in cui il più pulito ha veramente la lebbra, ho capito che è molto meglio tornare a casa dalle persone che ti vogliono veramente bene. Ovviamente ora la strada la osservo da una prospettiva del tutto diversa, perché ormai sono un signore borghese (ride). Ho dei figli, delle responsabilità, eccetera eccetera. Forse, smettendo di viverla dal punto di vista rocambolesco, ho trovato un modo di raccontarla per come la vedo da fuori, anche con tutto il suo squallore, che comunque è affascinante. Sul fatto che oggi il quadro sia molto più crudo e squallido, comunque, c’è da dire che andiamo sempre peggio, in tutto. Negli ultimi anni abbiamo tutti più fame, siamo tutti più cattivi, e a maggior ragione vale per il mondo della strada.

Ti immaginavi lo scenario distopico che stiamo vivendo in questi ultimi due anni?
Un po’ sì, perché io tendo sempre a pensare al peggio, cosa che si riflette anche nella mia musica. L’uomo non è davvero un animale sociale, pensa per sé e per chi è nella sua cerchia ristretta: vale per tutti gli altri come vale per me. Era logico che da una situazione come quella del Covid non ne saremmo usciti migliori. Abbiamo sperimentato, forse per la prima volta nella nostra generazione, una forte limitazione della nostra libertà che sapeva tanto di esperimento sociale, sul genere «Vediamo fino a dove possiamo spingerci». Non voglio entrare nel merito della polemica vax/no vax, sia chiaro: per quanto mi riguarda mi sono fatto tutte le vaccinazioni del caso, anche perché con tutto quello che ho fatto nella vita ho pensato che non sarebbe certo stato un vaccino a uccidermi. Il punto è che come società abbiamo capito per la prima volta che cosa può comportare la fame. Lo dico da una posizione di privilegio, ma per chi monta palchi, ha un ristorante, guida un taxi, la situazione è stata tragica. Se la situazione fosse durata ancora un po’, a volte penso che la gente avrebbe cominciato a mangiarsi.

Niente rivoluzione ma cannibalismo, quindi?
Dopo sei mesi di Covid pensavo sinceramente che sarebbe arrivata la rivoluzione, l’ho anche auspicata più volte e l’avrei fatta volentieri in prima linea, se avessi potuto rovesciare davvero qualcuno dei piani alti. Ma alla fine non è successo niente. In altri Paesi hanno spaccato tutto, ma la narrazione dei nostri telegiornali parlava solo di no vax, anche quando i motivi della protesta erano ben altri, legati a questioni economiche e sociali e non ai vaccini. Insomma, non potevamo che uscirne peggio, e ne siamo usciti molto peggio. E ora c’è la guerra, da cui usciremo ancora peggio.

Arrivando alla conclusione della nostra chiacchierata, e anche all’ultima traccia dell’album: Un altro weekend riprende una storica canzone degli 883, forse una delle più prese a male, Weekend. Come ti è venuta l’idea?
Weekend è uno dei miei brani preferiti degli 883. Ricollegandoci al Covid, in un periodo in cui quasi tutti avevano deciso di non suonare e riprogrammare le date per via delle limitazioni di capienze, Max Pezzali doveva fare un concerto da 50 mila persone e siccome non gliel’hanno fatto fare, ne ha fatti 50 da 1000. Siccome quell’estate non c’era niente da fare, mi è capitato di andare a quattro, cinque date di quella tranche, e quella canzone era sempre in scaletta. Parla di noia esistenziale, e siccome era un momento di noia mortale per me, mi è venuto in mente di provare a rifarla, ma a modo mio, parlando di come l’assenza di stimoli e motivazioni spesso genera abusi di droga e delinquenza. È uno dei pezzi più tristi e profondi. E quindi, come dicevamo prima, uno dei più belli.

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