In un anno scandito da uscite a sorpresa, James Blake si è piazzato sotto i riflettori del mondo del pop. Nelle ultime settimane, il cantante ha scioccato internet per due volte, prima contribuendo a due tracce tratte da Lemonade di Beyoncé e poi pubblicando il suo terzo lavoro, The Colour in Anything, con soltanto qualche ora di preavviso. Questi sono solo gli ultimi sviluppi di una girandola di eventi degli ultimi tre anni che hanno visto il cantante ricevere il supporto di Drake e di Kanye West prima per poi collaborare al secondo album, ancora in lavorazione, di Frank Ocean.
È pomeriggio, nella lobby di un hotel elegante di Manhattan, e Blake lascia cadere la sua lunga figura su un divano piccolissimo. Si è esibito in un concerto sold-out alla Webster Hall la notte prima, ma è reattivo e divertente, parla con energia e coglie l’opportunità per raccontare qualche aneddoto legato alla registrazione dell’album. Si diverte a prendere in giro se stesso, dicendo che The Colour in Anything – un album che porta il concetto di piano-ballad alla sua essenza più minimale – è più lungo di qualsiasi altro disco e prende in giro anche i poveri plebei che non hanno ancora sentito i nuovi pezzi di Frank Ocean.
Blake ha iniziato a lavorare su The Colour in Anything poco dopo l’uscita di Overgrown nel 2013, ma presto ha capito che il suo nuovo ruolo di piccola celebrità gli stava creando qualche problema psicologico. «Mi sentivo come se stessi vivendo una doppia vita», ha detto. «C’era il me stesso che andava ai festival, in TV e che incontrava Pharrell. E poi c’era l’altro me stesso che usciva con i suoi amici di scuola: la persona che si faceva trascinare nella routine, la persona che poteva facilmente spegnere tutto e non vedere nessuno per molto tempo».
In quel periodo lavorava in solitaria, cosa che ha esasperato la sua sofferenza. «Per quattro anni della mia vita ho lavorato esclusivamente sulla mia musica», continua Blake. «Preferirei non ripensarci. Mi piace. Mi piace la musica che è uscita da quelle sessioni, ma non voglio più lavorare in una situazione stressante come quella. Ti fa uscire un po’ di testa». E quell’ambiente soffocante gli ha impedito di affrontare i veri problemi che si stavano creando. «Mentre ero ossessionato da alcuni piccoli dettagli, cose che la gente non avrebbe mai notato, non mi concentravo sulle cose davvero importanti», dichiara. «Sarei potuto stare anche una giornata intera su Instagram».
Nei primi momenti di creazione di The Colour in Anything, lo studio casalingo di Blake è iniziato a essere claustrofobico. Il suo letto è appena sotto lo studio, quindi il suo lavoro lo soffocava fisicamente ogni sera, piombandogli dall’alto. «Non riuscivo a dormire la notte perché avevo addosso questa pressione, questa aspettativa», ha spiegato. «Mi ricordo che avevo questo pensiero fisso, vedevo che le persone stavano aspettando».
Dal canto suo, Blake ha cercato di affrontare lo stress usando metodi affidabili: «non fare niente e fumare erba» con i suoi due coinquilini. Un nuovo amore l’ha aiutato a uscire da questo problema. «Ho incontrato una donna meravigliosa che mi ha insegnato a tirar fuori il meglio di me», oltre a fargli realizzare una cosa importante: «Mi servono altre persone con me adesso. Ho bisogno della libertà, di non dover realizzare da solo ogni singola parte».
«Sono felice di stare nello studio a parlare con altre persone», afferma il cantante. «Avere altri artisti attorno a me ed essere trascinato in un mondo di creatività dove stai seduto di fronte al mixer con degli strumenti e cerchi di mettere insieme ogni singolo pezzo». Ma c’è ancora qualche limite allo spirito collaborativo di Blake: «Non voglio diventare come Diplo», scherza.
Non riuscivo a dormire la notte perché avevo addosso questa pressione
L’armata di Blake non è più solo lui. Si è allargata, visto che i crediti di The Colour in Anything contengono diversi nomi, inclusi Rick Rubin e Frank Ocean. Blake ha incontrato Rubin al Coachella dopo la release del suo secondo album. «Non sapevo chi fosse», ricorda il cantante. «Era di fianco al palco e la prima cosa che ho pensato è stata, “Wow, che barba fantastica!”». Blake mima poi una reazione a scoppio ritardato: «Poi ho guardato meglio, “Oh, wow, non ha neanche le scarpe. È eccezionale”».
Parlando con Rubin dopo lo show, Blake è rimasto colpito dalle opinioni del leggendario produttore. «Stava parlando di vecchia musica gospel, di cui sono appassionato», ricorda il cantante. «E poi è passato a Band of Gypsys, il mio album preferito di Jimi Hendrix». Blake commenta che il suo live show è più «simile a Band of Gypsys che ai Kraftwerk o a ogni altro show di musica elettronica». «Voglio essere così», dice. «Vuol dire essere liberi».
Rubin e Blake sembrano una strana coppia a prima vista: Rubin è noto per i suoni estremi, con cui ha fatto anche alcuni dei suoi lavori migliori, che siano i primi pezzi hip hop della Def Jam o i violenti album degli Slayer. «Dobbiamo essere onesti», dice Blake. «Ha lavorato su pezzi che, per la maggior parte, non sono c’entrano niente con me, ed è figo». Ma in qualche modo, la determinazione di Blake a spingere il concetto di piano ballad al punto più estremo è la prova che lui e Rubin condividono gli stessi istinti.
In passato, Blake ha composto canzoni improvvisando dei suoni attorno a un tema per poi tagliuzzare le parti migliori. Con Rubin ha messo a punto un metodo nuovo. «Facevo questa improvvisazione di 45 minuti per poi riuscire a sedermi e calmarmi». Blake veste per un attimo i panni del suo nuovo se stesso, soddisfatto, sospira forte e si abbandona sul divano, trionfante. Poi racconta il lavoro di Rubin in studio, che consisteva nel sdraiarsi a terra e analizzare le registrazioni, senza mai smettere di accarezzarsi la barba. Poi, un tecnico segnalava le parti che conquistavano il favore di Rubin. Molti di quei frammenti poi sono stati trasformati in canzoni.
Ocean anche ha dato il suo contributo su una traccia, ma Blake dice che il suo impatto è molto più ampio rispetto a quello che riportano i crediti dell’album. «La sua musica è stata di grande influenza mentre scrivevo l’album, soprattutto le melodie». Ma non è stata l’uscita di Channel Orange ad attirare l’attenzione di Blake. «Sono diventato suo fan quando ho sentito le cose nuove», nota Blake. «È meglio. Cresci, migliori, aggiungi un nuovo tipo di messaggio all’insieme. Ha avuto tempo per maturare. È davvero bello».
Nonostante si sia avvicinato a nuovi collaboratori e ci sia una certa sensazione di apertura che circonda l’album, la musica di Blake è ancora legata a descrizioni malinconiche e a vari cambiamenti meteorologici, che riguardano nuvole e precipitazioni. «I Radiohead avevano questo problema», si lamenta. «Quando è uscita Creep, tanti manager cretini e mediocri dicevano, “ma questo è così deprimente”».
Si rivolge direttamente a quei cretini: «Zitti! È grandioso. Solo perché non lo capite non vuol dire che è deprimente!» . E difende il suo lavoro da chi lo accusa di essere cupo, a un primo ascolto: «È difficile capire se un certo tipo di musica può essere oggettivamente deprimente o triste. Non penso sia possibile».
In realtà, Blake crede che abbia trovato il modo di tornare a un certo spirito di entusiasmo che provava mentre scriveva i suoi primi pezzi: «Quando ho iniziato, ero eccitato dal fatto di poter scuotere la gente, di poter interagire. Con il tempo, facendo sempre più parte dell’industria musicale e vivendo come una sorta di avatar, l’ho trovato molto difficile. E la mia musica rifletteva quel mood».
«Sono arrivato al mio primo quarto di secolo in un momento molto difficile e l’ho superato», continua il cantante. «Mi sono riguardato indietro e ho pensato che questo album mi ha dimostrato quanto posso essere forte. Penso che quello spirito entusiasmante e carico stia ribollendo e voglia tornare».
«Always è la mia traccia di saluto sull’album», aggiunge Blake. «Da quel punto in poi, guardo al futuro».