C’era un’epoca, sembra vicina ma son passati quasi vent’anni (spoiler: non sei giovane come credi), in cui andavano forte i ventenni con la passione per il passato. C’era Michael Bublé con le cover dei crooner, c’era Amy Winehouse con Frank, ma c’era pure Jamie Cullum, con un pianoforte su cui pestava forte e i capelli arruffati mai pettinati. Jamie aveva poco più di vent’anni, e faceva quasi strano vedere i suoi video passare in sequenza tra quelli di gente come J.Lo e Shakira. C’erano i fan, che lo amavano, e c’erano i puristi, che non lo sopportavano in quanto mainstream. In mezzo lui, musicista da sempre, che il primo disco l’ha pubblicato senza avere un’etichetta e con un budget di 500 sterline.
Era il 1999, l’album era Heard It All Before, e da lì a poco le cose sarebbero cambiate parecchio: un super contratto con una major e, qualche anno dopo, Twentysomething, tutt’ora uno dei dischi jazz più venduti di sempre. Sono passati vent’anni, dicevamo prima, e di cose ne sono successe. Tanti altri album, un live alla Casa Bianca per gli Obama, l’amicizia con Clint Eastwood. E ora la vita di Jamie è tutta diversa: marito della modella Sophie Dahl, padre di due figli, gli è venuta la voglia di incidere un disco di Natale. Zero cover, brutte notizie se cercate Sleigh Ride, ma dieci brani registrati con big band agli Abbey Road Studios.
Alla fine hai timbrato anche tu il cartellino del disco delle feste.
Eh sì… Volevo farlo da un po’, ma ho aspettato i 40. Pubblicare un disco di Natale a vent’anni sarebbe stato un po’ smielato. L’idea però c’era. Diciamo che, diventando vecchio, dai un altro valore alla musica, che può non essere necessariamente cool. Le canzoni natalizie hanno una funzione importante.
Quando l’hai capito?
Da quando ho una famiglia, dei figli. Ci sono dei rituali: mettersi vicino all’albero, preparare insieme il pranzo, guardare Mamma, ho perso l’aereo. Ho sempre amato le feste, possono essere molto belle se non sei una persona sola o triste, come molti purtroppo sono. Per me Natale è bello.
Anche se chiudi il disco con Christmas Caught Me Crying. Non proprio un pezzo su cui farsi due risate.
Sono felice che tu abbia colto questa sfumatura. È inevitabile essere anche un po’ malinconici. A Natale penso spesso agli amici che non ci sono più, ai miei nonni. Ci sono sempre anche le lacrime, almeno in casa mia. È un equilibrio tra luce e ombre.
A quali dischi ti sei ispirato?
Quello di Sufjan Stevens mi ha aperto la mente. È riuscito a parlare del Natale con senso dell’umorismo, senza essere cinico. Un disco profondo, e non c’entra la religiosità, ma la spiritualità. Lo stare insieme. Quel disco mi ha fatto impazzire.
E invece quando eri piccolo che ascoltavi?
Nat King Cole, tantissimo.
Lo nomini anche nella title track.
Sì, infatti. Poi ascoltavo Ray Charles, Phil Spector, Donny Hathaway, Andy Williams, Tony Bennett. Ma pure Alvin and the Chipmunks.
Mi spiace per Mariah…
Di quella ho fatto una cover!
Ne hai fatte un bel po’, hai iniziato vent’anni fa. Cosa ti ricordi del tuo boom iniziale? Come si affronta il successo a quell’età?
Mi sono recentemente rivisto in un documentario dell’epoca, che ridere. Mi mettevano sempre a metà tra la popstar e il musicista jazz. La verità è che mi chiedevo se fossi meritevole di tutto quel successo. Mi sentivo in colpa per quelli più bravi di me. Ero umile, troppo, e non ero sicuro di me. L’umiltà va sempre bene, ma sentirsi in colpa un po’ meno. Le cose sono andate velocemente. I dischi vendevano benissimo, ero giovane, credo di aver raccolto quella fetta di pubblico giovane che voleva ascoltare quel tipo di musica ma fatta da facce nuove. Tipo Norah Jones, Amy Winehouse, Katie Melua.
Cosa diresti al te di vent’anni fa?
Di fregarsene un po’ di più. Gli direi: «Ehi, sei giovane, hai un disco che sta andando bene. Vivitela un po’ meglio».
Non facile, immagino, se per tutti sei l’enfant prodige.
Mi ha sempre messo pressione questa cosa. Sono cresciuto ascoltando jazz, so bene quanto un pianista o un cantante possano essere bravi. Tecnicamente non sono al livello di tantissimi là fuori, e lo so bene. Non ero un prodigio, ero nella media. Mi ha aiutato il mio carisma, probabilmente. Ho sempre pensato a fare quello che sapevo fare, scrivere le canzoni. In quello mi identifico. Volevo scrivere e suonare, fine. Sapevo che, se non fosse andata bene, potevo continuare a farlo, come lo facevo prima di avere un contratto. E ho cercato di evolvere.
Come?
Non facendo continuamente lo stesso disco. Avrei potuto, e forse avrei mantenuto un livello di vendite più alto. La mia etichetta voleva che continuassi così, ovviamente, ma mi piace fare cose nuove.
All’epoca cercavano continuamente di classificarti. Per alcuni non eri jazz, per altri sì.
Eccome. Ora però le cose son cambiate, merito dello streaming che ha mescolato carte e generi. Le persone sono più aperte, se ci ripenso ora fa ridere.
Quanto ti manca suonare?
Troppo, e ci aspetta un periodo ancora duro. Parlo da musicista e da persona che va ai concerti. Mi manca la connessione con la mia band, con le persone. Non voglio star seduto due posti più in là rispetto agli altri. Mi manca tutto.
Come avete registrato il disco?
L’ho scritto a casa, da solo, con i musicisti ci siamo preparati a distanza e, appena è finito il primo lockdown, ci siamo catapultati ad Abbey Road per una settimana. Plexiglass e tutte quelle storie lì. Io sono uno che, anche nelle registrazioni, ama fare casino. Mi piace il suono sporco, tutti insieme. Invece questa volta abbiamo registrato a sezioni. Per quest’anno va bene così.