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Japanese Breakfast: famolo strano (il pop)

Il nuovo album di Michelle Zauner 
‘Jubilee’ parla di gioia: come arrivarci, come proteggerla. «Mi ispiro a Björk e Kate Bush che fanno musica per un pubblico di massa restando incredibilmente strambe»

Foto: Griffin Lotz per Rolling Stone US

Quando Michelle Zauner pensa al suo ultimo disco come Japanese Breakfast, pensa ai cachi. «Sono presenti in varie culture asiatiche, si usano come regali», dice al telefono dalla sua casa di Brooklyn. «Avevo visto un’immagine di alcuni cachi lasciati a seccare durante l’inverno per farne frutta secca dolce. Mi piaceva l’idea di un frutto amaro e duro che con il tempo matura, diventa più dolce e lascia che l’ambiente lo cambi. Una metafora perfetta per la mia storia».

Jubilee, uscito il 4 giugno, arriva subito dopo Crying in H Mart, il libro commovente che Zauner ha scritto sulla madre scomparsa e le ricette che le legavano. Tuttavia, anche se i primi due album di Japanese Breakfast – Psychopomp del 2016 e Soft Sounds from Another Planet del 2017 – trattavano il tema della perdita, Jubilee ha a che fare con la gioia. «È un disco estivo», dice Zauner. «Volevo che il terzo album fosse il più drammatico e potente, volevo tirare fuori i muscoli, usare tutti gli attrezzi a disposizione. Col terzo disco devi dimostrare chi sei davvero e cosa vuoi fare come artista. E io volevo dare tutto».

Il primo singolo Be Sweet è più pop rispetto all’indie per cui sei conosciuta. Com’è nato? 


Avevo paura che si sarebbero arrabbiati tutti per questa svolta pop, ma a quanto pare è piaciuto molto. Anche i fan dicono cose come: «Fa sempre così, il singolo non suona mai come il resto del disco» (ride). Credo di essermi conquistata la loro fiducia. Be Sweet è ovviamente il pezzo più pop della nostra carriera. Sicuramente è il più radiofonico. Ha un ritornello, mentre il resto del disco è più strambo e folle.

Mi piace il pop che non segue formule precise, che ha una profondità. È una cosa di cui ero consapevole mentre scrivevo il disco. Quando una band indie diventa più grossa è facile che guardi al pop, perché si chiede: «Come facciamo a crescere ancora?». Io invece volevo scrivere la mia musica con l’intenzione giusta. Avevo paura di fare un disco troppo pop.

Ci sono artisti che ti hanno ispirato a scrivere musica più pop, senza snaturarti del tutto? 


Sono influenzata da artiste come Björk e Kate Bush, donne che fanno musica per un pubblico di massa restando incredibilmente strane. Volevo riprodurre il fascino surreale dei loro dischi, che è la cosa che li rende così unici. Alex G è un altro esempio di come si scrive pop con uno stile unico. Ed è questo che lo rende così affascinante. Io volevo trovare uno stile simile per questo disco.

Alex G ha dato un contributo diretto, così come Jack Tatum dei Wild Nothing e altri. Cosa hanno portato al disco queste collaborazioni?
Beh, avevano tutti un loro pezzo. C’è anche Craig Hendrix, con cui ho lavorato molto. È un batterista da tour, ha co-prodotto Soft Sounds from Another Planet e ora quest’album. All’epoca ero terrorizzata, temevo che Psychopomp fosse un colpo di fortuna e che avrei sofferto della crisi del secondo disco, così ho creato una sorta di comunità che mi lasciasse libera di sperimentare. Per l’album nuovo, invece, volevo persone nuove, con l’idea che poi io e lui avremmo unito i pezzi. Cerco di prendere il meglio dai collaboratori, metterli in mostra nel disco.

Paprika è una apertura trionfale. Come mai hai scelto di iniziare proprio con quel pezzo? 

Doveva essere quel pezzo. Ho litigato con l’etichetta perché non volevo farlo uscire come singolo. Suona come la dichiarazione d’intenti del disco. Dentro ci abbiamo messo tutto: gli archi, i fiati… tutto quello che volevo. Parla di dedicarsi alla musica, di convincersi di avere qualcosa da dire e di fare di tutto affinché diventi reale. Parla di quanto meritiamo di essere qui. Non doveva essere un singolo, l’idea che la gente la ascolti per la prima volta insieme al disco mi entusiasma.

Hai parlato dei fiati e degli archi. Sono ovunque nel disco. Come mai hanno un ruolo tanto importante?
Perché sono molto più sicura di me stessa ora. Un tempo non mi sarei mai sognata di scrivere così. Parte del meritoè di Craig, che mi ha incoraggiato a sperimentare. In più, negli ultimi tre anni ho incontrato e suonato con un sacco di musicisti fantastici, come Adam Schatz, che suona il sassofono con noi, e Molly Germer, che suona il violino. Conoscerli mi ha aiutata a non sentirmi intimidita. Per un sacco di tempo scrivere arrangiamenti per archi e fiati mi sembrava una cosa misteriosa e riservata ai compositori classici. Oggi invece farlo è più semplice, basta una tastiera. Se hai un network di musicisti di cui ti fidi, farlo è molto più semplice.

La gioia è il tema centrale del disco? 

Ho scelto il titolo Jubilee molto tempo fa. Il tema centrale è la gioia, sì, ma ovviamente non tutte le canzoni parlano di essere felici. Parlano dei modi con cui interagiamo con la gioia: la fatica di provarla, cosa bisogna fare per tenerla viva, come trovare la forza di lasciare qualcuno o qualcosa per ritrovarla. Per me il tema del disco è questo.

Ci sono anche momenti più cupi, soprattutto nella seconda parte…
Tendo a mettere i banger in cima alla scaletta, poi continuo con i brani più lenti, come in un mixtape. Faccio lo stesso quando creo una playlist. I brani più tristi, come Tactis, parlano di quello che devi fare per proteggere la tua gioia. A volte si tratta di lasciare un ambiente, altre di prendere una decisione difficile e negoziare la tua gioia con quella degli altri.

In alcuni brani sperimenti una prospettiva diversa, come Savage Good Boy e Kokomo, IN.
Tutti i brani parlano di me, e allo stesso tempo non parlano di me. Savage Good Boy è nata dal verso “un bunker miliardario per due”. Viene da una storia che ho letto sul giornale, parlava di miliardari che compravano bunker: mi ha ispirato a scrivere un brano dalla prospettiva di uno di loro, un miliardario che cerca di convincere una ragazza a vivere con lui nel bunker, a nascondersi dalla fine del mondo. Mi interessava capire come ragionano questi miliardari, come arrivano a pensare alla sopravvivenza. Abbiamo tutti un po’ d’avidità dentro di noi, tutti possiamo razionalizzare certi comportamenti negativi. Ma mi affascina chi arriva a quei livelli, chi è capace di fare una cosa del genere.

Kokomo, IN, invece parla della nostalgia che provano i ragazzi e che io non sento più, mi sembrava interessante scriverci una canzone. Volevo mettermi nei panni di un diciottenne col cuore spezzato. Ma racconto questa storia con uno sguardo più maturo, parla di un giovane ragazzo che dice addio alla fidanzata che parte per studiare in Australia. È una canzone molto dolce. È come se dicesse: «Sarebbe egoista trattenerti in questa piccola città, e tu stai per mostrare al mondo tutte le cose per cui mi sono innamorato di te. È una cosa che mi rende triste, ma il mondo ti merita più di me».

L’anno scorso hai collaborato con Ryan Galloway dei Crying per un EP, che avete pubblicato col nome Bumper. Lui appare anche in Jubilee. C’è un collegamento tra questi due progetti? 


Quell’EP è un matrimonio tra gli interessi di Ryan e i miei. È stato scritto velocemente, tutto via internet. Ma ha la stessa tendenza alla melodia, la stessa sensibilità che ho cercato in questo disco.

Jubilee arriva subito dopo Crying in H Mart. Diventare una scrittrice di successo ha cambiato il tuo modo di comporre? 

(Ride) Non credo mi abbia cambiato granché. Cerco di dare il meglio di me stessa in entrambe le cose. Cerco anche di non pensare ai complimenti e le conferme che ho ricevuto, voglio concentrarmi su quello che mi piace e dare il massimo. Sedersi sugli allori può essere molto pericoloso.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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