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Jared Leto – Sorridi, il mondo sta per finire

Ama citare Andy Warhol che per ridimensionare le difficoltà della vita ripeteva a se stesso: «so what?», «e allora?». È un’idea evocata anche nel titolo del nuovo album dei Thirty Seconds to Mars ‘It’s the End of the World But It’s a Beautiful Day’. Jared Leto lo racconta in questa intervista: il carattere insaziabile e giocoso, l’importanza di perdere il controllo, l’energia quasi maniacale investita nel presente. «Se vuoi conoscermi davvero vieni a vedermi in concerto»

Negli anni 2000 ero solito indossare una camicia di Prada con stampa Sixties di Holliday & Brown. A Milano era diventata una delle mie tute mimetiche estive, fatto inspiegabile, dato che nessuno dei miei concittadini ne coglieva gli intricati riferimenti culturali. Del resto, di che mi lamento? Miuccia Prada, sacerdotessa dell’estetica, ha detto più volte che per la gente è più facile comprendere l’arte contemporanea che la moda.

Un bel giorno, però, mentre passeggiavo per le vie di Mayfair, un’antropologa londinese – una giovane donna dai capelli (serve dirlo?) ossigenati, non una semplice accademica con la piega meneghina – fermò la mia camicia e il gorilla che la indossava e prese note per il suo futuro: sono questi studiosi sul campo che decidono la fortuna dei musicisti, come all’epoca fecero Lester Bangs o, ancora meglio, Lisa Robinson.

Il ricordo di quella camicia risuona nella mia mente ancora oggi, mentre aspetto di incontrare il bel Jared Leto per parlare del nuovo disco dei Thirty Seconds to Mars. Nonostante abbia solo qualche mese più di me, rispetto ai suoi colleghi attori e musicisti il suo vissuto personale gli conferisce un qualcosa di inaspettato. Anche se ha una pelle che sembra mio figlio, Jared Leto è un uomo di una maturità inafferrabile. Quando pensi di averlo inquadrato, ti spiazza con degli aneddoti su Andy Warhol e con degli sprazzi di filosofia con i quali stende un velo di realismo sulla sua apparente giocosità. Un’ambivalenza che emerge anche nel titolo del suo ultimo LP.

In questo nuovo disco, It’s the End of the World But It’s a Beautiful Day, le canzoni sono più brevi rispetto ai precedenti album. Negli anni ’90 c’erano delle band come le Elastica che, facendo un omaggio alle band post-punk, riportarono in auge la canzone breve, con un messaggio molto forte e compresso. Credo che anche nel vostro disco abbiate fatto qualcosa di simile, soprattutto nelle canzoni che lo aprono.
È vero, ci hai preso. Adoro quelle canzoni fin da quando ero un bambino. Pezzi da 45 secondi, pura energia punk. C’è una band che mi piace molto, The Locust, che ha un sacco di pezzi estremamente brevi e duri, che dal vivo funzionano benissimo. E per una band come la nostra, che porta in giro le sue canzoni da molti anni, è bello poter creare la setlist alternando dei brani più brevi – per esempio, quelli di America, il nostro disco precedente – a brani più lunghi, avvolgenti e riflessivi, come quelli presenti negli altri album, dove avevamo pezzi da sei, sette, anche otto minuti. Durante i live, un pezzo breve è una boccata d’aria fresca. E poi, se ci pensi, la gente è già piena di cose da fare (ride), abbiamo tutti bisogno di un attimo di respiro.

Certo, la pensavano così anche i Residents, che nel 1980 hanno fatto Commercial Album, un disco con 40 canzoni da un minuto ciascuna, per riprendere l’idea dei jingle pubblicitari (sempre molto brevi) e prendere in giro la classifica Top 40, che è l’apoteosi del mainstream pop americano. In una canzone così breve è impossibile non cogliere il messaggio.
Ed è una cosa che ritrovi anche in TikTok, che al momento è molto probabilmente la piattaforma più influente per la musica, la cultura e molti altri generi di contenuti. I suoi utenti sono abituati a sentire 15 secondi di una canzone, quindi la questione si presenta come le due facce della stessa medaglia. Da una parte, se pensi al musicista, c’è il lato che ti spezza il cuore: uno dedica anni e anni alla propria musica, ma la gente si dimostra interessata solo a quei 15 secondi. Dall’altro c’è il fatto che bastano 15 secondi per far girare la tua musica. Quindici secondi che magari qualcuno ha velocizzato o rallentato, per rendere quel pezzo più comico o sinistro, e trasformarlo in una hit virale.

Eppure dietro a quei pochi secondi c’è un lavoro spesso straziante. Penso a tutte le volte che Tina Turner ha dovuto ricantare River Deep Mountain High prima che Phil Spector fosse soddisfatto. A quanto pare Tina era talmente sfinita che dovette togliersi la maglia perché era zuppa di sudore. Gli ultimi take li dovette cantare in reggiseno.
La fase di registrazione può essere splendida e brutale, ma credo nel lavoro duro, perché la maggior parte delle cose che hanno un valore sono piuttosto difficili da ottenere. Certo, alcune cose sembrano nascere senza fatica, perché ai nostri occhi risultano così semplici. Pensa al cielo: quanta fatica ci costa apprezzare un tramonto? Assolutamente nulla, è una delle cose più semplici del mondo. Ma se cominci a pensare quanta energia l’universo deve impiegare per rendere possibile un tramonto, a quanti complessi meccanismi devono mettersi in moto per arrivare a quel momento di bellezza apparentemente spontaneo… allora ti rendi conto che la semplicità di una cosa bella non è altro che il risultato di tanto lavoro nascosto. I tramonti non sono gratis.

Molti psicologi credono che tutte le sensazioni positive che derivano da un’istantanea botta di dopamina siano molto dannose, perché ti illudono che non serva impegnarsi per ottenere delle soddisfazioni.
La penso alla stessa maniera. Quelle sensazioni positive di cui parli vanno guadagnate con molta pazienza e dedizione.

Foto: Giulia Bersani per Rolling Stone Italia. Total look Prada

Ma tornando al lavoro duro, dopo la registrazione c’è anche il tour. E un artista come te, che fa sempre il tutto esaurito in grandi venue, sa bene che il tour non è una cosa semplice. Per esempio, PJ Harvey è appena uscita con un nuovo disco dopo sette anni, una lunga pausa durante la quale si è dedicata alla poesia. Si era dovuta fermare, perché la fatica dei tour non le permetteva di scrivere nuova musica. Tu dove la trovi tutta questa energia?
Sono insaziabile. Pur di creare qualcosa di nuovo sono pronto a superare ogni incertezza. Non ho bisogno di chiedermi perché lo faccio o di darmi una particolare ragione per fare le cose. E lo stesso discorso vale per questa intervista: non c’è neanche una piccola parte di me che vorrebbe essere altrove in questo momento, inclusa quella piccola parte di me che avrebbe bisogno di recuperare qualche ora di sonno… E poi c’è l’elemento della riconoscenza. Non so tu, ma io più cresco e più mi sento riconoscente, perché ho la fortuna di fare quel che faccio. È un sentimento costante nella mia vita come in quella di mio fratello. Ancora oggi ci sembra incredibile aver fatto sei dischi insieme, come ci sembra incredibile aver portato la nostra musica in Italia un sacco di volte. Credimi, ogni volta ero convinto che avremmo venduto cinque biglietti e invece… è semplicemente irreale. E più divento grande, più mi rendo conto di quanto ogni cosa sia fragile e fugace: ed è proprio questa consapevolezza a permettermi di apprezzare ancora di più i momenti in cui mi è data la possibilità di dedicarmi a quello che amo.

Nelle prime due canzoni del nuovo disco parli di fantasmi del passato. Mi hanno fatto pensare al folklore e al cinema thailandese, come Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, al fatto che in quella cultura ti insegnano a convivere con degli “spettri” che non sono i fantasmi della tradizione occidentale, ma più che altro memorie di momenti belli o eventi traumatici, ricordi di persone che non ci sono più… Il fantasma occidentale è un personaggio da film horror, un mostro spaventoso, qualcosa da cui scappare, una minaccia dal passato. In queste canzoni, invece, parli di questi fantasmi come di realtà presenti, cose di cui non dobbiamo aver paura.
Verissimo, anche per me la parola “fantasma” ha un’accezione positiva. Tra l’altro, è anche una splendida parola da cantare. Non saprei spiegarti perché, ma è così. A proposito delle culture del Sudest asiatico, mi hai fatto venire in mente un aneddoto di Andy Warhol. Stava facendo un viaggio in giro per il mondo in compagnia di un ragazzo di cui si era innamorato, ma che non ricambiava minimamente le sue attenzioni. Una sera, a Bali, tornato in albergo, lo trovò a letto con un marinaio del posto. Persa ogni speranza e con il cuore spezzato, si incamminò sulla spiaggia. In lontananza, Warhol vide un falò e un gruppo di gente tutta intorno, sentì canti, risate, allegria. Era convinto che fosse una festa ma, quando fu più vicino a quelle persone, si accorse che si trattava di un funerale. E si chiese: «Se queste persone riescono a ridere davanti alla tragedia, perché io dovrei aver diritto di buttarmi giù per una simile sciocchezza?». E da quel momento ha fondato il resto dei suoi giorni su una filosofia riassumibile in «so what?», «e allora?», un modo di vedere le cose in cui tutto è relativo, che lo ha aiutato a proteggersi dal presente e da esperienze traumatiche del suo passato. Quella filosofia gli ha salvato la vita, ma non avrebbe mai avuto quel momento di illuminazione se non si fosse imbattuto in un allegro funerale balinese.

Incredibile, salvato da un funerale. Warhol sapeva essere paradossale. Come quella volta che, davanti a un pittore che gli stava raccontando della morte di un loro amico comune, rispose: «È morto? Ma era così ricco!».
(Ridono entrambi) Che genio, aveva sempre la battuta pronta. Passerei una giornata intera ad ascoltare le sue interviste.

E invece quando eri ragazzino passavi le giornate ad ascoltare…
Be’, quando ero più piccolo mia madre era la dj di casa, quindi era lei a scegliere la musica che ascoltavamo. Joni Mitchell, Cat Stevens, Jimi Hendrix… Poi, via via che crescevo, aggiungeva un po’ di classic rock come i Led Zeppelin o i Pink Floyd, fino a quando non ho formato i miei gusti e ho cominciato ad ascoltare Cure, Joy Division, Depeche Mode…

Quindi ti ritrovavi più nella scena inglese.
Sì, ma inconsapevolmente. Non avevo la minima idea che si trattasse di band inglesi. E avrei giurato che i Led Zeppelin fossero americani, viste tutte le loro influenze blues. Insomma, ascoltavo cose molto diverse, lasciandomi guidare dal gusto, non dalla voglia di seguire una particolare scena. Per esempio, pur avendo un’inconsapevole preferenza per la musica inglese, da ragazzino non amavo i Beatles: ho imparato ad apprezzarli crescendo, quando ho riscoperto le loro cose più psichedeliche. Ma alla base di tutto c’è mia madre: è lei che ha dato l’imprinting ai miei interessi musicali. Sempre grazie a lei ho sentito We Will Rock You dei Queen alla radio. E non perché fosse un revival, ma semplicemente perché era una di quelle hit che un po’ tutte le emittenti continuavano a trasmettere: non c’era nessun effetto nostalgia, non era considerato un pezzo classic rock, era semplicemente una canzone che la gente adorava e che i dj continuavano a mandare in onda.

Foto: Giulia Bersani per Rolling Stone Italia. Total look Balmain

Dopo i paradossi di Warhol, mi hai fatto venire in mente quello dei Queen: nonostante Freddie Mercury avesse dei look molto sgargianti, i suoi fan erano soprattutto uomini virili, maschi che difficilmente avresti incontrato a un concerto di David Bowie o Kate Bush. Faccio questi due nomi non a caso, ma perché entrambi devono molto della propria capacità di stare sul palco alla stessa persona: Lindsay Kemp, un artista, coreografo e mimo che influenzò molto la loro presenza scenica. Kemp, che ha vissuto a lungo in Italia (è morto a Livorno nel 2018), diceva che un vero artista non è altro che un pagliaccio: non dovrebbe mai vergognarsi di cascare davanti al pubblico e fare una figura da scemo. Sei d’accordo?
In pieno. Il più delle volte, il momento in cui troviamo il coraggio di cascare davanti al pubblico è proprio l’istante che dà senso allo spettacolo. Il pubblico non è un avversario e noi che siamo sul palco dobbiamo imparare a trovare il coraggio di cadere davanti ai suoi occhi, perché è proprio in quel momento che inizia lo spettacolo vero e proprio: l’imprevisto è sempre la parte migliore dello show. Ed è per questo che mi piace far salire il pubblico sul palco: non voglio avere sempre tutto sotto controllo, non voglio sempre sapere cosa sta per succedere. Voglio essere sorpreso, voglio che la gente prenda il microfono e dica cose inaspettate. E non importa se sono divertenti o tristi, tenere o confuse, perché in ogni caso daranno energia allo show. E poi può capitare che io dimentichi un verso o sbagli un movimento sul palco o che ci sia un disguido tecnico. Uno può considerarli dei difetti, ma per me sono le caratteristiche che rendono unico un concerto. Per esempio, una volta è saltata la corrente nel bel mezzo della serata. A quel punto, che fai? Puoi fare la superstar che si offende e se ne va via, rovinando la serata a tanta gente che aveva prenotato i biglietti mesi prima. Oppure fai come noi: metti giù la chitarra elettrica, prendi degli strumenti acustici e chiedi al pubblico di fare un po’ di silenzio, perché gli amplificatori non funzionano. Questi non sono problemi, queste sono delle fortune impreviste.

Imprevisti in cui inciampiamo quando siamo disposti a giocare.
Certo! Perché se ti fai prendere dal ritmo del gioco, tutto quello che ne esce sarà autentico. E la componente del gioco è presente anche nella mia vita di attore, ma in quella da musicista si esprime al suo massimo. Infatti, come amo ripetere, se vuoi conoscermi davvero, non puoi limitarti a guardare i miei film. Devi vedermi in concerto con i Thirty Seconds to Mars, perché durante un concerto mi metto a nudo, mi rivelo per quello che sono. Sul set, invece, devo calarmi in un personaggio, memorizzare parole che sono state scritte da qualcun altro e immergermi in una storia che in certi casi è ispirata a quella di una persona reale… Con la musica, invece, ho l’occasione di permettere al pubblico di scoprire una parte di me, di condividerla con loro. A volte mi sono detto: «Sarebbe divertente inventarsi un personaggio per i live», qualcosa come Ziggy Stardust. Ma alla fine mi rispondo sempre alla stessa maniera: «E chi ce l’ha il tempo…».

Già, il tempo… Quello sì che è un problema.
Ne parlava già Seneca nel De brevitate vitae, un libro di quasi duemila anni fa che sembra scritto ieri, perché parla delle stesse cose che ci ossessionano oggi. Secondo lui la vita non è affatto breve, ma siamo noi a usare male il tempo che ci è concesso. Siamo così avari con il nostro tempo, pensiamo che dedicarlo agli altri sia uno spreco e non capiamo che quella forma di egoismo è la causa principale per cui perdiamo tempo. È un libro fondamentale, ribadisce dei concetti che non è facile accettare, perché ci fa capire che il vero problema siamo noi e non gli altri. E siccome tutti tendiamo a dimenticare questa verità, io stesso devo rileggere quel libro almeno una volta ogni due anni: è come un farmaco che va assunto regolarmente, soprattutto quando si arriva a una certa età e si comincia a temere di non avere più tempo a disposizione. È una paura che abbiamo tutti.

Credi che la musica e la recitazione ti abbiano aiutato a superare questa paura?
Recitare mi ha insegnato la disciplina. Quando sei sul set di un film devi seguire una tabella di marcia molto rigorosa: devi arrivare in tempo ed essere pronto quando serve, perché ci sono un sacco di persone che contano su di te. Se non sei disposto a collaborare, il cinema non fa per te. Devi essere gentile, disponibile e, a meno che tu non sia un sociopatico, ci metti poco a renderti conto di quanto siano cruciali quelle qualità. È un lavoro duro, ma se fai il tuo dovere i risultati si vedono. La musica non è da meno, ma è un’esperienza che condivido con mio fratello, e stare con le persone a cui vuoi bene è il modo migliore di passare il tempo.

Ma è anche un modo piuttosto insolito di passare il tempo, perché siete sempre in giro per il mondo. Tra i tanti Paesi che avete visitato durante i vostri tour, ce ne sono alcuni in cui ti sei sentito più a casa? Io, per esempio, mi sento bene se sono in Iran, a Napoli o a San Francisco.
Ah, l’Iran… ho sempre voluto andarci. Uno dei miei più cari amici d’infanzia era iraniano… Non ci crederai, ma in Iran abbiamo una fanbase molto agguerrita, un pubblico che sentiamo più che altro attraverso i social media, perché non ci è possibile andare lì a esibirci. Ma se c’è un posto dove mi sento a casa è proprio l’Italia, per un’infinità di ragioni. Quando sono qui posso apprezzare il calore delle persone, ma anche ritrovare tanti cari amici, come Alessandro Michele, e poi qui si mangia benissimo, soprattutto se come me ami mangiare cose semplici, piatti in cui la vera protagonista è la qualità degli ingredienti e non la sofisticatezza della preparazione. E poi adoro il mare dell’Argentario, la Sardegna, la Sicilia, la Puglia, l’anno scorso ero all’Isola d’Elba… Ma amo anche girare sul lago di Como, fare escursioni sulle Alpi… Chissà, forse sono italiano senza saperlo.

Foto: Giulia Bersani per Rolling Stone Italia. Total look Maison Margiela

Negli Stati Uniti la costume designer Arianne Phillips ha contribuito al successo di molti grandi nomi della musica: Lenny Kravitz, Madonna, Sonic Youth, R.E.M., Breeders… Visto che sei amico di Alessandro Michele, mi viene spontaneo chiederti se secondo te quello tra immagine e musica sia un connubio indissolubile.
Assolutamente no. Secondo me ci sono alcuni artisti che hanno qualcosa di speciale a prescindere da quello che indossano. Prendi Janis Joplin: aveva un look tutto suo, ma dubito che avesse uno stylist personale. E la stessa cosa puoi dirla dei Grateful Dead. Secondo me ci sono persone che hanno una personalità talmente forte e originale che possono rendere iconico anche l’abito più semplice. Pensa a Bruce Springsteen, un paio di jeans e una T-shirt; o al senso per lo stile di Kurt Cobain, che indossava quasi solo roba un po’ lisa, di seconda mano, alternandola con dettagli giocosi… Ecco, io amo essere giocoso.

Come nel titolo del vostro ultimo album, It’s the End of the World But It’s a Beautiful Day. Io la vedo come un’affermazione ottimista: una volta che hai capito che il mondo sta finendo, puoi serenamente capire tutto quello che ti circonda e smettere di essere vittima di quel “doppio vincolo” di cui parlava Bateson che ti costringe a credere nelle promesse.
Sono sicuro di una cosa, e cioè che non riuscirei mai a dirlo meglio di come l’hai appena detto tu. Anzi, se metti quella frase nell’intervista, sappi che la ruberò e la spaccerò per mia. Sei la versione umana di Chat GPT! (Risate) Scherzi a parte, sono pienamente d’accordo con te. Anche per me il titolo di questo album contiene un messaggio positivo. La fine del mondo sarà un tramonto. E i tramonti sono una cosa bellissima.

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Foto: Giulia Bersani
Art Director: Alex Calcatelli per LeftLoft
Fashion Editor: Francesca Piovano
RS Producer: Maria Rosaria Cautilli
Production Coordinator: Nicole Casale
Make-Up Artist: Maddalena Brando per Making Beauty
Stylist Assistant: Micaela Tana
Photo Assistant: Noemi Sorze
Location: Mandarin Oriental, Milano

Mandarin Oriental

Situato nel cuore della città, Mandarin Oriental, Milan offre un affascinante mix di stile italiano e design milanese. Al suo interno, oltre alle eleganti camere e suite, ospiti e milanesi trovano un’eclettica scelta di cucina contemporanea firmata dall’Executive Chef Antonio Guida, sia al ristorante Seta, due stelle Michelin, sia al Mandarin Garden, bar e ristorante con una lussureggiante corte esterna. La Spa è un’oasi di benessere olistico ed è l’unica in Italia a proporre la linea completa di trattamenti Subtle Energies, brand aromaterapico, cruelty-free e basato sui principi dell’Ayurveda.

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