La verità è che, tolti i nerd fissati con Oxygène e con un certo tipo di sintetizzatori e di musica sci-fi anni ’70, per molti Jean-Michel Jarre è solo una manifestazione della grandeur francese più classica: quella cosa insomma di cui i cugini d’oltralpe si pascono un po’ tronfi e tutti gli altri, boh, osservano con un misto di cauto rispetto e ridacchiante scetticismo. Non che lo si sminuisca tout court, Jarre, perché comunque ha dei numeri dalla sua parte e degli eventi nel curriculum vitae talmente giganteschi che non puoi in nessun modo considerarlo una mezza tacca, un bluff; ma per molti il musicista francese è quella cosa rispettabile sì ma appunto un po’ tronfia e sorpassata, che poteva e può piacere giusto ai propri genitori ed agli zii. Uno che nella preistoria dell’elettronica ha imbroccato l’album giusto al momento giusto (ma sempre meno giusto dei ben più interessanti e taglienti Kraftwerk, sia chiaro); da lì poi ha vissuto di rendita e celebrando il culto di se stesso con eventi gigantisti in giro per il mondo.
Ora: se è vero che gli eventi gigantisti effettivamente ci sono stati, ci sono e ci saranno, leggi concerti faraonici di fronte alle Piramidi o cose così, e se è vero che i francesi sanno spesso vendere benissimo se stessi montando la retorica e la magniloquenza del sé meglio della panna, è però altrettanto vero che a descrivere così Jarre, soprattutto lo Jarre degli ultimi anni, si tocca solo una minima parte della verità. Anzi, detto più direttamente: si prende una cantonata vera e propria. E per capirlo, non serve troppo. Basta ad esempio ascoltare l’Oxymore appena uscito. Detto senza tanti fronzoli: uno dei dischi di musica elettronica più vivi, coraggiosi e complessi degli ultimi tempi. Un disco che se lo faceva uno Oneohtrix Point Never – cocco della critica intelligente – ci sarebbe stata la gara a tesserne le lodi e la sublime visionarietà; l’ha fatto Jarre, passerà relativamente sotto silenzio, soprattutto tra le nuove generazioni.
Certo, lui stesso non si aiuta. E gliel’abbiamo pure detto, durante un’amabilissima chiacchierata. Oxymore come titolo sembra l’ennesima strizzata d’occhio all’album-totem Oxygène, e pure le varie declinazioni in chiave Metaverso e VR – ovvero la futura creazione della città virtuale Oxyville – paiono seguire lo stesso pattern. Tanto per rinfocolare insomma i pregiudizi negativi su Jarre, sul suo vivere nel passato, sul suo marciare su glorie e retoriche passate, declinate originariamente decenni e decenni fa. Col fatto che già ci siamo incontrati un po’ di volte e c’è un po’ di confidenza, tutto questo glielo diciamo. «Ma no, il concetto di ossimoro è davvero fondamentale per l’identità artistica di questo lavoro. Mi rendo conto che Oxymore sembri un richiamo ad Oxygène e sì, non nascondo che Oxyville lo sia, lì c’è proprio un riferimento; ma per quanto riguarda questo album ho davvero lavorato tanto sull’unione di elementi contrapposti, di rumore e musica, di tecnologia e strumenti tradizionali. Eccolo, l’ossimoro. Percorre tutto il disco. Ed è, ovviamente, mutuato dagli insegnamenti di Pierre Henry».
Già: Pierre Henry, uno dei padri della coltissima e sperimentale musique concrète, ma anche uno capace di mescolarsi col pop (il suo brano Psyché Rock, composto in combutta con Michel Colombier, è la sigla di Futurama, tanto per intenderci). Di Henry, Jean-Michel Jarre è stato devoto allievo e a Henry – deceduto quasi novantenne nel 2017 – è dedicato l’intero Oxymore. Di più: Henry doveva essere presente anche in una delle installazioni del progetto jarriano Electronica sviluppatosi a partire dal 2015, non ha purtroppo fatto in tempo, la morte lo ha colto prima. La vedova però ha girato a Jarre un po’ di materiale sonoro che era stato preparato in previsione di questa collaborazione, e proprio da lì si è partiti per creare Oxymore. «L’ossimoro è anche nascondere le melodie negli interstizi del rumore. Farle insinuare lì. Farle intuire, per poi dissolverle subito. Perché se è vero che io, da bravo latino, come siete latini voi italiani, non posso che avere un forte legame con la melodia, in questo disco era tuttavia troppo bella e sentita la sfida di mettere il suono al primo posto».
Discende da questo anche la ferma volontà di mixarlo esplicitamente per una fruizione che si esalti al massimo attraverso la spazialità audio del sistema Dolby Atmos (se per via digitale volete arrivare ai file più vicini al ricreare tutto ciò passate per Apple Music, anche se in generale in tutte le piattaforme si avverte che c’è l’esplicita volontà di andare oltre alle tradizionali soluzioni di mixaggio destra/sinistra). Tra l’altro, questa ambizione porta a un vicolo cieco, o meglio, ad un bivio: «Io amo quando la mia musica è ascoltata da gente in piedi: così ci si può muovere, ballare, spostarsi, toccarsi. Ma in un periodo come questo, in cui siamo bombardati da immagini e in cui appunto Metaverso e realtà virtuale sono sempre più una presenza incombente, mi piaceva l’idea di eliminare completamente la parte video – quella è destinata al progetto Oxyville – e di obbligare tutti a concentrarsi sul suono. Per riuscirci, la cosa migliore è ascoltare ad occhi chiusi. Ma come fai ad essere in piedi e ad avere gli occhi chiusi? Devi fare sederle, le persone, per tenere tutto in ragionevole sicurezza. Il risultato concreto è che non so ancora se sia meglio eseguire dal vivo Oxymore avendo davanti al gente seduta o meno. Mi sa che farò un po’ e un po’, sì dai».
Ecco, se in questa dissertazione avete sentito a un certo punto qualche vena di critica o almeno di prudenza verso il futuro-che-verrà, alias Metaverso e realtà virtuale, le cose stanno in realtà così: «Ma no, ma che critica, ma che prudenza. Io non vedo l’ora che arrivi il futuro. Lo so: è nel DNA dell’essere umano esserne spaventato. Ad ogni generazione. quante volte senti dire “Eh, prima sì che era meglio”? Quante?». Una pausa, per poi riprendere con ancora più convinzione: «Quando fu introdotta la ferrovia a vapore, si diceva che era meglio evitarla perché andando a più di 50 chilometri all’ora il cuore umano rischiava letteralmente di esplodere. Capisci? Quando invece è nata la televisione, erano in tanto a sostenere che le sue radiazioni ti avrebbero danneggiato irrimediabilmente sia gli occhi che la pelle. Il punto è che ogni momento di grande cambiamento legato a una innovazione tecnologica sarà sempre fonte di enormi preoccupazioni, sempre. D’altro canto quando Gutenberg inventò la stampa, il Vaticano era indignato, convinto com’era che l’idea di portare conoscenza e cultura alle persone, a tutte le persone, non fosse per nulla una buona idea – avrebbe portato al caos. È sempre sbagliato scagliarsi contro una innovazione tecnologica, perché esse sono sempre neutrali. A non essere neutrale è il modo in cui le useremo. Ma questo non è un buon motivo per rifiutarle a priori. Specificatamente riguardo al Metaverso e alla realtà virtuale, ti posso dire che sono una fantastica opportunità per sviluppare nuove forme d’arte e di comunicazione, esplorando terreni mai prima attraversati. A me sembra una bellissima prospettiva».
Qui arriva una pausa. Quando riprende a parlare, pesa con molte attenzione le parole: «Oggi più che mai, penso che essere ottimisti verso il futuro e lo sviluppo tecnologico sia un atto sovversivo bellissimo. È la cosa più facile, rifugiarsi nelle narrazioni distopiche. Perché avere una visione scura e cupa del futuro è il modo più semplice e naturale per fare pace col pensiero che noi, in questo futuro, non ci saremo più. Sai a cosa serve la creatività? A combattere tutto questo. A combattere questa paura del non esserci, questa paura di ciò che sarà quando noi non ci saremo più. Essere ottimisti, insomma, è un modo per ingannare la morte».
Questa frase è detta con talmente tanta intensità che, occhio e croce, si tratta di ragionamenti a cui Jarre è arrivato dopo un reale travaglio interiore, non per posa. Proviamo a dirglielo. «Vero. È assolutamente così». Gli chiediamo di approfondire, e non si nega: «Lo vedi: non sono uno che vive nella nostalgia, per quanto in passato possa aver fatto cose che per molte persone sembra siano state importanti. Ma non vivo nella nostalgia, davvero: quello che è stato fatto, è stato fatto. Ora più che mai sono interessato al presente. Vedi, la vita è una sinusoide: circa dieci, quindici anni fa mi ero ritrovato davvero vuoto, prosciugato, non riuscivo a fare più nulla. Sì: ero depresso. Niente idee, niente energie. Fino a qual momento, non mi era mai successa una cosa del genere. Ero atterrito. A salvarmi è stato il progetto Electronica, grazie a cui ho aperto il mio studio a tantissimi altri musicisti, molti della nuova generazione, e altrettanti sono andato a visitare. È stata la mia rinascita. Non immediata, sia chiaro, perché c’ho messo qualche anno, ma grazie all’idea di confronto con chi era rilevante nel presente della musica elettronica, che fosse mainstream o nicchia, ho ritrovato una energia fortissima: risultato, non ho mai lavorato così tanto come in questo ultimo periodo. Mai».
«Electronica è stata davvero una svolta, per me. Ho deciso di lavorare alla creazione della città virtuale di Oxyville nel Metaverso anche per sdebitarmi con loro, con vecchi e nuovi musicisti di talento della musica elettronica, dando loro una futura piattaforma in più dove ritrovarsi, esprimersi, far circolare le proprie idee. In passato ho ascoltato tanta classica e anche tanto jazz, ma ora mi sento rapito da tutto ciò che è elettronica, da tutto ciò che comunque ha in sé l’idea di nuovo, l’idea di futuro».
Non resistiamo, e gli facciamo notare – tornando un po’ sulla querelle iniziale – quanto sia paradossale e forse pure spiacevole, vista la sua sincera attitudine contemporaneista, il fatto che in realtà lui sia ancora legato nell’immaginario collettivo ai fasti di Oxygène. Risposta: «Ma no. È nell’ordine delle cose. Lo accetto serenamente. Non puoi lamentartene. Ogni artista, anche il migliore, sarà sempre ricordato dal grande pubblico più o meno per una cosa sola. Ci sarà sempre il Dark Side of the Moon, il Sgt. Pepper, il Pulp Fiction, La dolce vita: qualsiasi cosa tu faccia prima e dopo, sarà sempre oscurata da un’opera-simbolo. Ma quello che gli artisti devono capire è che il successo o il fallimento sono delle condizioni che scaturiscono prima di tutto dal caso: ciò che sta in mezzo, e che conta veramente, è la tua vita e la tua voglia di essere creativo. Invece spesso succede che quando raggiungi un picco pensi che questo sia lo standard che ti meriti o a cui comunque è giusto che tu ambisca, e allora pieghi tutte le tue azioni e le tue forze al desiderio di mantenerlo, questo standard. Ma è una falsa pista. Io mi sento un privilegiato: sono riuscito a guadagnarmi da vivere grazie a ciò che è la mia passione, ovvero la musica. Io sono sinceramente convinto che Oxymore sia una delle cose più belle che abbia mai fatto. Vedremo se lo penserà anche il pubblico. Ma già essere qui a Milano, incontrare persone che sono interessate ad ascoltarmi e addirittura registrano le mie parole manco fossi una persona importante, come stai facendo tu adesso, è un privilegio».
Se sta fingendo, nel dire tutto questo, Jarre sta fingendo maledettamente bene. Altro che grandeur. Quella la lasciamo a (certo) rock’n’roll, a (certo) pop. La musica elettronica, effettivamente, dovrebbe agire più su queste coordinate; e tornare a sfornare dischi imperfetti ma densi e coraggiosi come Oxymore. Chi l’avrebbe mai detto, da quel vecchio trombone amatissimo dagli odiosi cugini francesi che continua a citare il suo Oxygène a ogni pie’ e gioco di parole sospinto. Chi l’avrebbe mai detto. E invece.