Jenny Sorrenti è stata la prima donna in Italia a fare canzoni d’avanguardia in ambito pop, quando il pop si chiamava progressive. Non solo, è l’unica voce femminile dell’originario Neapolitan Power. Di origini gallesi da parte di madre, nata e cresciuta nel fermento della Napoli anni ’60-’70, Jenny si imbarca fin dall’adolescenza in avventure musicali oltre gli steccati stilistici, dal prog onirico dei Saint Just fino ai dischi solisti, che tra altre cose sono stati palestra per uno come Pino Daniele.
Autrice di un pop contaminato da svariate influenze (avanguardia, prog, folk, classica, celtica) e totalmente disinteressata alle logiche commerciali, dopo una pausa durata due decenni Sorrenti ha messo a frutto il suo ampio carnet di ispirazioni in opere in cui spazia in una miriade di suggestioni. Fino a un nuovo cambio: l’elettronica sperimentale testimoniata dal recente disco a nome Néos Saint Just e realizzato in coppia con Tullio Angelini.
Come ti sei avvicinata alla musica?
Da adolescente ero come pervasa da una devastante fragilità che mi portava a chiudermi nella mia stanza ad ascoltare le musiche più insolite. Uno dei primi dischi che ho acquistato è stato Blue di Joni Mitchell, poi ci sono stati i dischi di gruppi come Fairport Convention, o Pentangle. Amavo anche la Third Ear Band e ovviamente tutta la West Coast americana. Oggi invece i miei ascolti si sono spostati in altri territori: cantanti come Cathy Berberian, Meredith Monk, Maggie Nicols. Adoro Luciano Berio, Arvo Pärt e tutto ciò che possa infondermi saggezza, grazia e arte.
Se non sbaglio tu e tuo fratello Alan avete origini gallesi.
Esatto. Nostra madre, Gwendalin Thomas, era di Aberystwyth, un paesino del Galles. Faceva parte di un coro che cantava motivi della tradizione celtica. Mio padre, Francesco Sorrenti, era un pittore e cantante napoletano. In tempo di guerra, durante la sua prigionia in Tunisia, cantava per i soldati inglesi. Lì conobbe Gwen, ausiliaria dell’esercito britannico. La nostra infanzia si è svolta tra Napoli e Aberystwyth, dove mia madre si recava tutte le volte che poteva.
Cosa ti ha spinto a buttarti nella musica?
Sempre dentro la mia stanza, a 16 anni, ho cominciato a suonare la chitarra e il piano. A un certo punto ho capito che era giunto il momento di avere una band, poiché era di me che volevo raccontare, delle mie esperienze e del mio vivere. Abitavo al Vomero, lì c’erano tanti ragazzi che suonavano nei garage o nei piccoli locali dove era possibile farlo. Proponevano musica nuova, diversa da quella che si ascoltava alla radio. Prendevano spunto dai dischi che arrivavano dall’Inghilterra e dall’America.
Da lì si arriva ai Saint Just.
Sì, il nome del gruppo lo avevamo preso da un personaggio della Rivoluzione francese. Ho dovuto aspettare di compiere 18 anni per firmare il contratto discografico con la EMI per l’album d’esordio. Quando è stato pubblicato, un giornalista ha scritto che ero nata in Galles. Non mi sono preoccupata troppo di puntualizzare. Per me è sempre stato naturale unire il folk anglo-celtico a quello mediterraneo, valorizzando una certa melodia che appartiene anche alla canzone tradizionale napoletana.
Che ricordi hai dei due dischi che i Saint Just hanno realizzato negli anni ’70?
Mi sono accostata a quei lavori, come sempre, con un atteggiamento sincero nel rispetto della musica. Senza vacillare, d’istinto, esortandomi ed accettando di mostrarmi per quella che ero, affinché le cose che sentivo – quelle invisibili – diventassero suoni e visioni. È stata un’esperienza molto interessante, magica. Correvo, perseverando, verso l’obiettivo che avevo davanti, tenendo sempre fisso lo sguardo su un suono libero, che potesse scuotere finalmente quella musica italiana che giaceva in un sonno profondo. Il secondo album, La casa del Lago, ha rappresentato la mia prima ed unica esperienza di vita musicale in una comune. È stato composto in parte in quella casa e in parte nello studio di registrazione. Era come stare in un accampamento dal quale uscire poi fuori nel mondo a portare il frutto di ciò che avevamo imparato durante quelle numerose serate musicali. Ma c’erano anche risvolti non del tutto positivi: pochi anni prima, in America, c’era stata la strage condotta da Charles Manson e dei suoi adepti. Anche noi, vivendo in un posto isolatissimo, una sera siamo stati circondati da un nugolo di individui alquanto inquietanti che probabilmente volevano entrare in casa. È stato un momento davvero brutto e per molto tempo siamo stati scossi da quell’episodio. L’esperienza della comune si è poi conclusa ed è stata seguita dalla registrazione dell’album in studio e tanti concerti. Dopodiché i Saint Just sono sciolti.
È stato traumatico?
No, è successo in modo del tutto naturale. Sentivo l’esigenza di un discorso mio.
In quel momento stava nascendo il Neapolitan Power. Come mai secondo te c’era tutto quel fermento?
A Napoli negli anni ’70 potevi suonare ovunque, e se volevi ascoltare musica nuova bastava sintonizzarsi sulle cosiddette radio libere. In quel periodo era sufficiente aprire gli occhi e si osservava quella grande rivoluzione musicale e umana che avanzava dirompente nelle strade, nei teatri, nelle cantine, nei garage, nelle scuole e nei locali. Un’esperienza forte ma a volte anche dolorosa a causa delle lotte adolescenziali così difficili da sostenere, che però ci hanno aiutato a raccontare musicalmente cose incredibili, artisticamente potenti, tanto da lasciare increduli persino noi stessi. A metà degli anni ’70 c’era Lino Vairetti con gli Osanna, Toni Esposito lavorava al suo primo disco solista, c’era la Nuova Compagnia di Canto Popolare. E poi Alan, che aveva fatto Aria e si stava avvicinando alla canzone tradizionale napoletana con la sua versione di Dicitencello vuje. Inoltre promoter e giornalisti ci seguivano e ci facevano conoscere anche al pubblico che non andava ai concerti. Molti di quei giornalisti muovevano con noi i primi passi. Uno di essi era Michelangelo Romano, che di fatto ha prodotto il mio primo disco solista, Suspiro.
Eri l’unica artista donna di quel movimento.
A quei tempi non era normale che una donna fosse leader di un gruppo, per questo dovevo dimostrare di valere davvero. Poi però la gente ha capito quel mio modo di cantare e di stare sul palco e credo di aver insegnato ad altri del nostro giro, nel canto e nella musica, diverse cose molto interessanti.
La tua carriera solista inizia nel 1976. Come valuti, col senno di poi, Suspiro?
Tutte le cose sono destinate a passare, ma l’estro rimane, rimane il desiderio di volersi esprimere e io ho continuato ad arricchire la mia visione, anno dopo anno fino a quando, con un certo timore, ma anche rispetto nei confronti della musica e di me stessa, ho realizzato Suspiro. Il disco ha delle perle sul piano compositivo e delle canzoni d’impatto che mi piacciono tuttora tantissimo. Come fonico c’era Peter Kaukonen, fratello di Jorma dei Jefferson Airplane, che ha portato il sole della California a Roma e che in Suspiro ha suonato i mandolini. Ricordo che all’improvviso si alzava e si metteva a suonare, nello stesso tempo lavorava sui volumi, equalizzava strumenti e sistemava i microfoni. E faceva tutto benissimo. Sono andata a Londra per reclutare dei musicisti. Ho provato con Michael Giles, che era stato il batterista dei primi King Crimson e che per il periodo di registrazione non era disponibile, e con Peter Banks degli Yes. Cercavo un chitarrista in Inghilterra, e invece, da Napoli, arrivò Pino Daniele.
Suspiro è il primo disco importante al quale Pino Daniele ha dato il suo apporto.
Lo avevo conosciuto attraverso un’inserzione su un giornale. L’ho chiamato, l’ho ospitato nella mia casa di Roma per alcuni mesi e successivamente abbiamo fatto molti concerti in duo, viaggiando in terza classe per ore ed ore, parlando dell’esistenza, della musica e di ciò che volevamo fare. Tirando fuori il meglio da ogni cosa e soprattutto ascoltandoci vicendevolmente. Pino è stato un ottimo amico. Ricordo una domenica quando, contemplando il mare, mi ha detto: «Jenny, un musicista non è mai apprezzato nella sua terra. Continuiamo a portare avanti ciò in cui crediamo, il messaggio musicale che vogliamo arrivi alle persone, e non aspettiamoci nulla perché tanto poi sicuramente qualcosa verrà».
Nel 1979 esce Jenny Sorrenti, con un cambio di etichetta, dalla EMI alla RCA.
Sono passata alla RCA e ho avuto al mio fianco un validissimo produttore come Lilli Greco, che credeva tantissimo in me, anche nel modo in cui suonavo la chitarra. Sul finire degli anni ’70 la RCA era identificata come la casa discografica dei cantautori, e questo mi piaceva. Peccato che l’industria del disco stesse mutando drasticamente, i discografici avevano cominciato a entrare in maniera sostanziale nella produzione, a imporre scelte che, per quanto mi riguardava, non trovavo coerenti con il mio discorso musicale. Detto questo, la RCA promosse ottimamente il disco per radio.
Tra gli ospiti c’è Francesco De Gregori, puoi raccontarmi qualcosa di questo incontro?
L’ho incontrato negli studi RCA. Stava mixando il suo album dal vivo con Dalla, gli ho chiesto di venire a cantare nel mio disco per una doppia voce. Credo che, accettando, vinse anche una sorta di timore di non essere poi così bravo come cantante. Io invece gli dissi che aveva una voce molto bella, perché era vero. Così è nato il duetto nel brano Lampo.
Jenny Sorrenti è stato il tuo ultimo disco per molti anni.
Prima della mia uscita dalle scene sono stata ospite, con altri artisti della RCA, del progetto Alice, del Perigeo Special. Ho anche partecipato a una trasmissione della Rai con Lucio Dalla, Francesco De Gregori, Ron e Renzo Zenobi. In quel periodo mi sono resta conto come lavorare per una major significava fare dei compromessi che mi frenavano sul piano espressivo. Allora ho deciso di fermarmi.
Durante gli anni ’80 e ’90 hai fatto perdere le tue tracce.
Ho studiato musica lirica e canto medievale e mi sono allontanata da quel mondo discografico che mi opprimeva. La cosa bella è che più studiavo e più mi appassionavo all’opera e alla musica classica e medievale. Se fossi rimasta alla EMI o alla RCA probabilmente non avrei mai avuto la possibilità di ascoltare le musiche di Antonín Dvořák, Rimskij-Korsakov, di Camille Saint-Saëns o le chansons dei trovatori e dei trovieri del 1200 che così tanto mi appassionavano e che poi ho riproposto, con rinnovati arrangiamenti, nel mio disco Medieval Zone del 2001. Tutto ciò mi ha offerto l’occasione e la possibilità di comprendere meglio e più in profondità la musica e il canto, e dove c’è la consapevolezza credo ci sia anche la sincerità. In questa nuova via mi sono accostata piano piano anche al teatro d’avanguardia componendo musiche per diverse performance. In seguito mi sono dedicata all’insegnamento del canto. Noi riceviamo in eredità quello che i nostri genitori ci trasmettono, io ho fatto tesoro di questo patrimonio accostandomi per un periodo alle musiche di quei popoli indoeuropei che anticamente stanziarono nell’Europa occidentale, forse come segno di rispetto o come per voler fare un dono a mia madre. Ho così cantato, oltre che in sefardito e andaluso, in galiziano, portoghese antico, latino e anche in gaelico.
Tullio Angelini. Foto: Luca d’Agostino/Phocus
Quand’è nato il nuovo album?
Quando ho conosciuto Tullio Angelini, musicista e produttore discografico indipendente. In quel frangente ho iniziato ad approcciarmi in modo più sistematico e articolato a un tipo di musica di tendenza sperimentale, in quanto Tullio aveva organizzato, per molti anni, “All Frontiers. Indagini sulle musiche d’arte contemporanee”, una rassegna dove si esplorano le frontiere del suono. Il festival ha avuto importanti presenze internazionali, come John Zorn, Marc Ribot, Scanner, Keiji Haino, Gavin Bryars, Zena Parkins e tanti altri. Sollecitata dal suo entusiasmo e conoscenza delle avanguardie sonore, ho cominciato a comporre nuovi brani sui quali abbiamo lavorato insieme per circa due anni. Da lì è nato il progetto Néos Saint Just.
È la prima volta, se non sbaglio, che ti interfacci con certa avanguardia elettronica.
Credo sinceramente di aver percepito e interpretato il “nuovo” con il giusto fervore e ho cantato cercando di entrare profondamente in quello che per me è il canto e cioè “il santuario dell’anima”. Tullio ha curato, con me, l’intero progetto e ha avuto un ruolo decisivo indicando quella direzione e quell’imprinting necessario alla svolta di questo nuovo percorso. Lui stesso, nel disco, utilizza elettronica e campionamenti. Sia le parti vocali che le strutture musicali propongono uno spostamento nell’onirico e una connessione con atmosfere rituali e vissuti esistenziali.
Come mai il disco esce a nome Néos Saint Just?
Néos in greco vuol dire nuovo, recente, moderno. È una parola viva, efficace, tagliente, determina un cambiamento importante e nel mentre rimane ancora il vigore e l’importanza dell’originale progetto Saint Just, creato nel ’72. Néos Saint Just è uno scatto in avanti che associa l’antico con la contemporaneità.
In quali territori si sposteranno le tue esplorazioni future?
Io e Tullio continueremo a promuovere nei prossimi mesi, in Italia e all’estero, l’album Néos Saint Just, ma senza dubbio non ci fermeremo nell’ispirazione e nella creazione di materiale per nuovi brani. È l’unica cosa da fare in questo viaggio musicale così affascinante, che ha decretato un importante cambio di rotta. La musica e la società sono all’interno di un mutamento epocale e in questo momento storico anche noi siamo in evoluzione come parte del tutto. Inoltre, desidererei completare un libro dedicato alla voce: Laddove il Canto, strumento meraviglioso, è fondato sulla consapevolezza di ciò che si è.