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Jimmy Page: «Sapevo fin dall’inizio come sarebbero stati tutti i dischi degli Zeppelin»

Il chitarrista spiega come sono nati i classici del gruppo, racconta perché John Bonham era unico e che cosa lo affascina dell'hip hop: «Combina cose diverse in una forma d’arte nuova, come gli Zep»

Foto: Larry Hulst/Michael Ochs Archives/Getty Images

La prima domanda la fa Jimmy Page: «Tu suoni la chitarra?». La risposta giusta è ovviamente sì. «È utile», dice.

È l’inizio di ottobre, Page chiama dalla casa poco fuori Londra dov’è in quarantena da marzo con la compagna. «Abbiamo un giardino, non ci sentiamo agli arresti domiciliari. Ma stiamo molto, molto attenti a chi vediamo. Negli ultimi sei o sette mesi abbiamo incontrato solo una manciata di persone».

Page, 76 anni, ha passato la Grande Pausa a riorganizzare libri e dischi. Ha anche preso una nuova abitudine: suona la chitarra subito dopo colazione. «Appena è iniziato il lockdown mi sono detto: non voglio guardarmi indietro, quando finirà, e accorgermi di non aver fatto abbastanza. Mi sono dato una mossa». Negli ultimi tempi ha spesso dato a intendere di essere al lavoro su un disco solista. Ama fare il misterioso, ma in questa intervista dice finalmente in modo chiaro che sta scrivendo nuova musica.

Un decennio fa, Page aveva offerto una riflessione sulla sua vita nella forma di Jimmy Page by Jimmy Page, un’estesa autobiografia fotografica. Ora ha riesaminato i suoi successi – dalle session con Who, Kinks e Rolling Stones fino al periodo negli Yardbirds e ovviamente quando ha cambiato il mondo con i Led Zeppelin – in un nuovo libro, Jimmy Page: The Anthology. Racconta la musica che l’ha ispirato, le chitarre che ha suonato, i vestiti che ha indossato, le session. Ha aggiunto fotografie di tutti gli strumenti suonati in Stairway to Heaven e dettagli delle locandine dei tour. Il criptico simbolo Zoso è ovunque. La parte più eccitante, però, sta nei paragrafi in cui racconta quello che gli passava per la testa in quell’epoca. Non è una storia maledetta tutta backstage, droga e magia. È uno sguardo raro dentro la mente di uno degli uomini più grandi e misteriosi del rock.

Oggi s’inorgoglisce mentre riflette sulle tante foto del libro e soppesa le svolte inaspettate della sua vita musicale. Sa di aver cambiato più volte il corso della storia della musica popolare e non ha paura di dirlo. Parla con onestà sorprendente, spesso spiegando nel dettaglio com’è arrivato a certe innovazioni. «Il libro è un bel viaggio, una lettura lunga. Spero risulti interessante per chi è affascinato dalla musica, dalle chitarre, dal gruppo. Ma non credo sia respingente per chi non è un chitarrista, come invece lo siamo io e te: capiranno che senso ha usare una chitarra a sei o dodici orde, o uno strumento indiano. Spero possa essere educativo».

Per realizzare il libro hai aperto gli archivi. Quali sono le cose più interessanti che hai trovato?
C’è un’illustrazione, l’avevo fatta con una penna a inchiostro, di un gruppo di skiffle dei tempi della scuola. È stato lo skiffle a farmi avvicinare alla chitarra. E in quei gruppi si usava il bidofono con attaccato un manico di scopa. Insomma, nel disegno c’è un tizio che suona quello strumento e poi i chitarristi che zompettano in giro. Non è una cosa che si fa nello skiffle, perché è un genere nato per il pubblico folk. Io già vedevo quei gruppi con una mentalità rock’n’roll, anche se ancora non sapevo cosa fosse questo rock’n’roll, a parte qualche foto che avevo visto. E insomma, ho pensato che quell’illustrazione fosse significativa.

Ti ha sorpreso qualcos’altro? 

I diari delle session. È interessante osservare i primi giorni in studio dei Led Zeppelin, quando abbiamo iniziato Led Zeppelin I. Eravamo lì alle 10 o 11 di sera, quando lo studio non lavora. Non eravamo i Led Zeppelin anche solo un anno dopo, quando eravamo noi a decidere quandosi sarebbe fermato lo studio. È interessante scoprire quanto fossimo efficienti e la tempistica di quel che è successo dopo. Era il settembre del ’68, abbiamo finito il disco in ottobre, dopo 30 ore tra incisioni e missaggio. Negli Stati Uniti è uscito a gennaio, in quel mese abbiamo suonato a Los Angeles e San Francisco.

Il disco era fuori e lo passavano le radio underground, si propagava negli Stati Uniti come un incendio. Viaggiavamo dalla West alla East Coast, i club underground dove suonavamo erano pieni di gente che l’aveva ascoltato. Avevano sentito parlare di una band che era andata a San Francisco e l’aveva distrutta, e perciò volevano vedere questa cosa coi loro occhi. Poi alla fine del ’69 è uscito Led Zeppelin II. Da una parte c’è un debutto pieno di idee, dall’altra un secondo album dove si sente l’energia del tour, perché è durante il tour che l’abbiamo registrato. È stato un gran bel modo per lanciare una band.

Ci sono belle foto del primo concerto degli Zeppelin, in una città vicino a Copenhagen, quando giravate come New Yardbirds. Com’è stato rivedere quelle immagini? 

Non ricordo se si tratta di quello show in particolare, ma suonavamo in un’università o in un liceo, ci hanno dato una stanza dove dormire. Io ho dormito in una cabina armadio perché non avevo paura del buio. Credo che fosse uno dei primi concerti.

È stato suonando in Scandinavia di fronte a un pubblico che abbiamo capito la potenza che avevano, le dinamiche che attiravano le persone e sprigionavano energia. Suonavamo pezzi che non avevamo ancora registrato e così facendo li rendevamo vivi, avevano modo di crescere, imparavamo vedendo le reazioni del pubblico che erano fenomenali. Ci hanno resi più sicuri prima di rientrare in studio, che è quello che abbiamo fatto poco dopo. Siamo andati dritti agli Olympic.

Quando sei uscito dagli Yardbirds, come sei arrivato alla visione dei Led Zeppelin? Come sapevi che prendere Babe, I’m Gonna Leave You dal repertorio di Joan Baez e trasformala in un heavy blues avrebbe funzionato? 

Una delle cose che emerge dal libro è che avevo gusti eclettici. Ho incontrato Jeff Beck quando avevamo 11 o 12 anni, è incredibile da quanto tempo ci conosciamo. Lui ha sempre detto che avevo una collezione di dischi incredibilmente variegata, diversa da quella di tutti gli altri. Avevo musica indiana, araba, classica, avanguardia, elettronica, c’era tutto.

Insomma, ho cominciato con la chitarra acustica, mi piaceva suonarla, sia a sei che a dodici corde. Poteva essere folk, classica o blues. Apprezzavo anche il jazz. Non necessariamente lo suonavo, era più nelle mie corde la musica basata sui riff che si faceva a Chicago negli anni ’50. Ovviamente ho anche ascoltato il rockabilly, prima del blues. Ho sentito di tutto, volevo suonare in tutti gli stili. Quando ho fatto il disco con gli Yardbirds, facevo musica acustica e anche elettrica. C’erano il blues di Drinking Muddy Water e le cose d’avanguardia tipo Glimpses e White Summer.

Avendo suonato con gli Yardbirds e parecchio nel giro underground, potevo affrontare qualunque stile quando ho messo in piedi la band. Avevo già tanto materiale. La cosa strana è che avevo già scritto Tangerine, ma l’ho tirata fuori solo al terzo disco. Avevo le idee chiare, sapevo come sarebbero stati quei dischi, se avessimo avuto successo col primo. Li volevo diversi l’uno dall’altro.

E come hai fatto a mettere in pratica le tue idee?

Quando abbiamo messo su i Led Zeppelin, quando avevamo quella splendida sezione ritmica, ho fatto venire Robert a casa mia e abbiamo parlato di quel che volevo fare. Gli ho fatto ascoltare delle cose. Una era Babe, I’m Gonna Leave You, perché avevo già deciso la parte di chitarra. Gli ho detto: «So che sembra una cosa astratta, ma se puoi cantare la melodia struggente di Joan Baez, vedrai che insieme funzioneranno». L’ha fatto e ha detto che era grande. Era l’incontro di due menti. Era bellissimo.

Quando siamo entrati in sala prove siamo partiti subito forte. Facevano scintille, infuocati a tal punto che al primo one, two, three, four, alla prima battuta del primo pezzo era già un’esperienza che ci aveva cambiato la vita. Quando abbiamo finito di suonare ci siamo guardati e sorridevamo tutti, nessuno aveva mai raggiunto la stessa intesa con altri musicisti. Ed è sempre stato così, per tutta la storia della band.

Com’è che avevi pianificato tutti i dischi in anticipo?
Dopo aver finito il primo siamo andati a suonare negli States. Abbiamo iniziato a registrare il secondo nell’aprile del ’69 con Whole Lotta Love, ma avevo anche What Is and What Should Never Be. Quindi avevo un brano basato su un riff e un’altra cosa più leggera, che incorporava comunque le dinamiche della batteria, soprattutto nei ritornelli. Era l’altro lato della medaglia rispetto a Whole Lotta Love. Quelle due canzoni indicavano la direzione in cui procedere.

Sai com’è andata per il terzo? A Robert e John Bonham presentai due canzoni, Immigrant Song e Friends. Una aveva un riff duro e ipnotico, mentre all’epoca John suonava le congas in Friends. Si andava verso un suono più acustico. Anche questa volta lavoravo alle idee dell’album in tour. Tutto qui.

Negli ultimi anni hai pubblicato alcuni box set dedicati ai dischi degli Zeppelin. Ti è servito a scoprire qualcosa di nuovo o trovare una nuova prospettiva?
No. Solo quanto fossero grandiosi.

Non c’è nulla che ti ha sorpreso?
So che è difficile da credere, ma no. Avevo un sacco di nastri, le prove di riferimento, versioni diverse di ogni cose, varie take delle sovraincisioni. C’era scritto solo il titolo e la data in cui l’avevamo registrata. Ma sapevo già che cosa avrei ascoltato. È stato strano, era come se fosse tutto impresso sul mio DNA.

Non c’era niente che non sapessi, a parte la trama strumentale di John Paul Jones (10 Ribs & All / Carrot Pod Pod) in Presence. Quando l’ho ascoltata mi sono venute in mente le registrazioni: non ricordavo di aver fatto così tante sovraincisioni perché l’abbiamo registrata, mixata una volta e stop. Ma devo dire che mi ha riassicurato scoprire quanto la mia memoria fosse ancora precisa.

Hai scoperto nuove registrazioni dopo aver finito i box set? 

Di recente ho recuperato una vecchia demo personale che non trovavo da tempo. C’è l’intero arrangiamento di Rain Song. Arriva fino alla fine, esattamente come la conosci, anche con la parte più heavy a metà, prima di tornare alle sezioni più leggere e delicate. È tutto lì, anche il Mellotron. Non è suonata bene come la versione di John Paul Jones, ma c’è tutto, ogni parte, ogni fraseggio, solo leggermente diverso. Ci sono anche delle cose che non abbiamo usato.

Nel libro c’è una foto del 1962 con un sitar. All’epoca i Beatles facevano ancora Love Me Do. Cosa ti ha spinto così presto verso la musica indiana e l’avanguardia?
Ascoltavamo BBC World Radio e Radio Four. Mettevano musica di ogni parte del mondo. È così che ho sentito per la prima volta Threnody to the Victims of Hiroshima di Krzystzof Penderecki, la vera avanguardia. Mio dio, era roba da non crederci. Allo stesso modo ho scoperto la musica indiana e il sitar, pensavo che fosse meraviglioso. Capivo il modo in cui i musicisti indiani facevano bending con le corde, lo facevano anche quelli del blues e del rockabilly. Era raffinato e assieme appassionato. La musica indiana ha una struttura, una sua scienza. Era anche matematica. Ho pensato di fare alcune cose sulla chitarra, ma poi ho capito che avrei fatto prima a recuperare direttamente il sitar.

Poi ho incontrato Ravi Shankar in una piccola sala da concerto a Londra. C’era una signora con un amico che lo conosceva e mi ha detto che poteva presentarmelo. Ricordo distintamente che eravamo i più giovani. È stato molto generoso. Mi ha detto che accordatura usare col sitar, perché non lo sapevo. Sono tornato a casa e l’ho accordato. All’improvviso era come se cantasse. Era straordinario.

Non sono sicuro che tutti capiscano quante tecniche d’avanguardia hai portato nel rock, tra la musica indiana, il theremin, la chitarra con l’archetto… 

No, non lo capiscono. Quando facevo il session man ho introdotto anche il pedale della distorsione, l’overdrive. All’epoca si chiamava fuzz box. Avevo incontrato il fonico Roger Mayer, che mi ha chiesto se ci fossero tecniche dell’elettronica utili per un chitarrista. Certo, gli ho detto, assolutamente. Ho suonato alcune cose con la chitarra distorta, ho pensato che era proprio quello di cui aveva bisogno. Avevo un registratore a nastro, all’epoca, e se registravi la chitarra direttamente nel canale del microfono ottenevi un suono molto distorto. Suonavi una nota e c’era un sustain infinito.

Se n’è andato ed è tornato con quell’affare. All’epoca lavoravo in studio e l’avevo montato sul retro dell’amplificatore. Era piuttosto piccolo. Di solito, quando i produttori delle session mi chiedevano idee per una canzone, io suonavo dei riff. A quel punto ho proposto il fuzz box. L’ho acceso e le facce degli altri chitarristi, che erano tutti più vecchi di me, sono sbiancate: oh mio dio, quel teppista sa suonare di tutto con la chitarra e in più ha quell’affare. Comunque, la voce è girata in fretta e quando mi chiamavano per altre session mi chiedevano di portarlo con me.

L’hai fatto anche con Who e Kinks? 

Sì. Lo puoi sentire nel primo disco dei Kinks e credo nel lato B di I Can’t Explain degli Who. Anche in Bald Headed Woman ci sono delle frasi fatte col fuzz box.

Una volta hai detto che sei entrato negli Yardbirds perché insieme a Jeff Beck volevate replicare il suono dei fiati delle big band con le chitarre.
Sì, l’abbiamo fatto nel poco tempo in cui abbiamo suonato insieme. Era divertente. Suonavo anche con l’archetto. Pensavo fosse stupendo. Poi ho provato a fare tutto da solo (ride).

Jeff Beck una volta mi ha detto che le vostre jam della domenica sera erano davvero importanti, perché imparavate chi suonava cosa nei dischi di Elvis e Gene Vincent. È così anche per te?
La prima volta che ho incontrato Jeff gli ho chiesto come facesse a suonare My Babe di Little Walter. Poi gli ho fatto vedere come la suonavo io. È nata una connessione istantanea. All’epoca aveva una chitarra che si era costruito da solo, credo che sarebbe orgoglioso di dirtelo lui stesso. Eravamo ragazzini che avevano scoperto il rock’n’roll. Dopo avere sentito questi chitarristi non tornavi più indietro. Anche a quell’età, da bambini. Eravamo determinati.

Ogni volta che usciva un disco, soprattutto di Gene Vincent, suonarli era una sfida. Ma quando abbiamo avuto delle vere chitarre elettriche è diventato fattibile. Eravamo determinati a fare il meglio che potevamo. Uno dei dischi che ci lasciava di sasso era Johnny Burnette and the Rock n’ Roll Trio, del 1956. L’intesa musicale in quel disco è fenomenale, non avevo mai sentito chitarre così astratte.

È notevole che dei ragazzini ascoltino con tanta profondità i suoni, per capire come riprodurli. Ti ha aiutato con i dischi che hai prodotto più in là? 

Ho scoperto quant’è importante il suono della stanza. Grazie ai dischi di Little Richard ho capito come bisognava fare le cose, o come pensavo dovessero essere fatte. Quando sono diventato un session man mi sono imposto di comportarmi come un apprendista, di imparare come registrare. Avevo la possibilità di osservare i produttori al lavoro. E gli arrangiatori. Era fantastico, perché mi incitavano a imboccare una mia strada personale. Stupendo. Poi, quando ho sviluppato un rapporto con i fonici, ho iniziato a dire: «C’è un disco che vorrei farti ascoltare. Come l’hanno registrato? Secondo me è andata così». C’era sempre da imparare. Sapevo come rendere una session più economica per tutti, perché ero disciplinato.

Ascoltare il suono della stanza ti ha aiutato a decidere come registrare la batteria di John Bonham? 

Beh, con la batteria è più difficile. Ho suonato con i migliori session man del mondo, il meglio del meglio. Ho visto come microfonavano i batteristi, avevano tutti un suono acustico straordinario, dentro i booth isolati. Poi ho visto chi invece li chiudeva nel plexiglass. Cercavano di soffocare tutti gli strumenti, era inascoltabile. Riascoltando le registrazioni il batterista era sempre deluso, perché aveva suonato con tutto se stesso e la batteria sembrava chiusa in una scatola. Tutti gli armonici erano risucchiati dall’insonorizzazione. Si perdeva il senso di uno strumento acustico.

È una cosa che ho imparato subito. E quando ho ascoltato John Bonham ho capito immediatamente che cosa dovevo fare. Bisognava microfonarlo dall’alto, così da registrare tutti gli armonici che venivano dalla batteria, perché lui sapeva come accordarla. Anzi, era intonata con le canzoni. Ma è così che ho capito come dare profondità con la microfonazione.

L’effetto è evidente in un pezzo come When the Levee Breaks. 

Quando registravamo a Headley (Grange, la villa dove hanno inciso il quarto album, nda), abbiamo iniziato a suonare nel salotto, poi è venuta fuori un’altra batteria. Noi non lo sapevamo, ma era stata montata nel corridoio. Quando John Bonham ha iniziato a suonarla, il riverbero del corridoio, che finiva con una scala, inizia ad andare su per tre piani. La scala era di legno, il pavimento di piastrelle, le superfici riflettenti erano magnifiche. E la batteria cantava in quel grande vuoto. Quando l’ho ascoltato ho capito subito cosa fare. Abbiamo registrato When the Levee Breaks, un pezzo che in studio avevamo chiamato If It Keeps on Raining, ma che suonava in un modo completamente diverso. Ma io lo sapevo, sentivo tutto nella testa e la batteria aveva quel suono riverberato. Poi ho fatto le sovraincisioni, subito.

Dopo il basso, la voce guida e la chitarra, ho messo una parte di chitarra al contrario. Poi Robert Plant ha fatto quelle di armonica, perché mi serviva averne una in reverse, come un’eco. Sapevo cosa fare e l’abbiamo fatto in fretta. L’ho capito d’istinto non appena ho sentito John suonare quella batteria.

È decisamente evocativa. 

Sì. Riuscivo a sentirla, a visualizzarla. Non succede spesso, altrimenti giocherei in un altro campionato, ma è andata così.

Se suono la chitarra, e l’ho fatto durante tutto il lockdown, inizio sempre con le cose che conosco. Poi, senza rendermene conto, inizio a improvvisare. Nel giro di poco tempo l’improvvisazione diventa qualcos’altro, qualcosa che non ho mai suonato prima. In altre parole, ho scritto qualcosa di nuovo. Credo che dipenda dal fatto che non ho studiato. Se sei un autodidatta hai le tue abitudini, alcune sono buone e altre meno. Hai il tuo modo di arrivare alle cose, mentre i musicisti che hanno studiato non fanno altro che suonare scale tutto il giorno.

A proposito di John Bonham, come spiegheresti a chi non suona la batteria perché era così importante e insostituibile? 

Beh, la prima traccia del primo album è Good Times, Bad Times, e non è un caso. È lì perché era piuttosto breve, ma riassume tante cose in un colpo solo. È come un’esplosione. A parte il riff, uno dei fattori chiave è proprio la batteria, perché quello che suona fa cambiare in un istante quello che pensi della batteria. Questo è tutto.

Un’altra cosa che riusciva a fare era la rullata di cassa con un solo pedale. Non c’erano due casse. Un sacco di gente dice di saperlo fare, ma il punto è riuscirci per tanto tempo. Lui lo faceva per ore. Aveva una tecnica fuori dal mondo e altrettanta immaginazione.

Quindi sì, John Bonham tirava fuori tanto volume dalla sua batteria e non lo faceva picchiando, ma solo perché sapeva accordarla in maniera tale da esaltare i colpi. Suonava tutto con un equilibrio innato. E gli accenti che dava sulla cassa ti colpivano dritto allo stomaco. Aveva una tecnica incredibile. Era divertente suonare con lui. E poi amava i Led Zeppelin. Amava davvero la band, si riascoltava i dischi a casa. Ci divertivamo un casino, soprattutto a improvvisare sul palco.

Ho letto che dopo In Through the Out Door, tu e Bonham volevate fare un disco più heavy. Come te lo immaginavi? 

Beh, sì, facevamo già cose simili nel 1980. Avevamo fatto un tour in Europa. Puoi vederla così: Presence era un guitar album. Dopo quel disco, John Paul Jones aveva comprato un Dream Machine, un sintetizzatore Yamaha. Anche Stevie Wonder ne aveva uno. Lo aveva trovato di grande ispirazione. Ha scritto vari brani, una cosa che non aveva mai fatto prima, io pensavo che nel disco avrebbe dovuto suonare le tastiere. Aveva scritto delle cose con Robert ed era fantastico. Ovviamente, all’epoca, pensavo di sapere come l’album avrebbe preso forma e sapevo anche che il successivo non si sarebbe basato così tanto sulle tastiere.

Dopo le session di In Through the Out Door, io e John Bonham ci siamo messi a immaginare un disco basato sui riff, più duro e complesso. Sapevo che tipo di ritmo gli piaceva suonare. Gli piaceva suonare davvero forte, magari con parti di quelle che lasciano di stucco la gente. Per me è lo stesso con la chitarra. Avevamo una piccola idea, cioè di abbandonare le tastiere. Volevamo un disco con atmosfere diverse. Diverse da tutto quello che avevamo fatto fino a quel momento. Non abbiamo avuto la possibilità di scriverlo, ovviamente, perché John se n’è andato.

Cosa ti ha portato a scrivere musica heavy?
Intendi dire con quell’intensità, quella passione?

Sì. 

Credo che venga dalla musica che mi ha colpito e che è stata fondamentale per me, la musica che ho scoperto e che ha fatto la differenza quando l’ho ascoltata. Quando hai un’idea di cos’è la musica classica, quando esplori tutti gli strati e le sfumature, oppure quando ascolti qualcosa, chessò, Muddy Waters e Long Distance Call, dove lui suona la slide, Dick Crawford il basso e Little Walter all’armonica passata nell’amplificatore, ti viene un brivido lungo la schiena. Tutto questo ha un effetto. 

Nel libro c’è una foto di tutte le chitarre che hai usato in Stairway to Heaven. L’hai scritta pensando di usare così tanti strumenti? 

Sì, quando l’ho scritta sulla mia Harmony (una chitarra acustica, nda), ho trovato anche tutte le parti della voce. Poi ho scritto quella che chiamo fanfara, con la dodici corde è in primo piano, poco prima del solo. Poi ho trovato gli accordi del solo e la sezione finale.

Avevo tutto sull’acustica e l’ho fatto ascoltare al resto della band. Poi l’abbiamo registrata. Appena abbiamo completato la traccia, ho iniziato a sovraincidere la dodici corde. Prima ho messo la Vox, ma ne volevo una sul canale sinistro e un’altra sul destro, quindi dall’altra parte ho registrato una Fender. Insieme danno vita alla fanfara. Poi c’è l’assolo ed ecco che è finita. È soprattutto acustica, sono le dodici corde a guidare il pezzo prima dell’assolo.

Come hai fatto a capire come suonarla dal vivo?
Ovvio che Stairway dovesse essere fatta in concerto, è un brano epico e non avevamo mai fatto niente del genere. Anzi, non l’aveva fatto nessuno al mondo. Mi sono chiesto come fare, se con la sei o la dodici corde. Poi ho pensato a una chitarra a doppio manico. Ho contattato la Gibson e me ne hanno mandata una. Ce l’ho ancora, la suono ogni tanto.

In un certo senso è stata la canzone a scegliere la chitarra. Non avrei potuto suonarla in nessun altro modo. Ora quando vedi una doppio manico pensi: è Jimmy Page o qualcun altro? Se è rossa pensi sicuramente a Jimmy Page.

Il sigillo di Zoso del quarto album è ovunque nel libro, usato in tanti modi diversi. Cosa significa per te?
In pratica ci sono arrivato con il quarto album… (Fa una pausa) Scusa, so che sto parlando con Rolling Stone, ma abbiamo avuto un sacco di cattiva stampa, gente che non capiva il passaggio da Led Zeppelin II a Led Zeppelin III, un disco pieno di chitarre acustiche. In realtà c’erano in tutti e tre i dischi, ma non riuscivano a capire che eravamo una band radicale che cambiava sempre forma. Non solo, andavamo anche sul palco a improvvisare. Non ci capivano nulla oppure non volevano. Quindi, quando è uscito il quarto album, volevamo farlo uscire senza alcuna informazione, perché tutti dicevamo che eravamo questo e quello, che eravamo una montatura. Ci siamo detti: bene, vediamo che cosa si inventeranno con musica di questo calibro. Ovviamente non ci sono riusciti.

Vediamo come se la cavano con Black Dog, Levee Breaks, Battle of Evermore e Stairway to Heaven, per dirne alcune. Non c’erano informazioni sul disco. È uscito e basta. Nessuna info. Volevo fare come gli artigiani del passato che avevano il loro simbolo, quasi un marchio di fabbrica per farsi riconoscere da tutti. Sono partito da questa idea, il sigillo, e sono arrivato a una ancora migliore, cioè di averne uno per ogni membro della band. Ognuno ne ha scelto uno.

Poi l’etichetta ha messo il mio simbolo prima degli altri. La gente allora ha pensato: «Oh, allora il titolo del disco è nascosto nel significato di quel simbolo». Non era la nostra intenzione, ma non è importante. Quello che è importante è che ho scelto bene. È istantaneamente riconoscibile, ed è durato tanto tempo. C’era già nel sedicesimo secolo, poi è tornato nel 1971 e oltre. (Un’altra pausa) Spero che la mia risposta sia evasiva quanto speravi.

Lo è. Nel libro ci sono varie foto dei tuoi outfit. Sto guardando il vestito da drago, è impressionante quanto si sia conservato bene…

Beh, la cosa straordinaria è che l’ho prestato al Victoria and Albert Museum di Londra, poi quando me l’hanno restituito ero scioccato. Sembrava appena fatto. Non c’erano i segni della tracolla della chitarra. Ho pensato che fosse un abito magico. Insomma, lo è davvero. Il completo coi papaveri è più rovinato, ma è ancora in condizioni fantastiche.

Dopo i Led Zeppelin, hai registrato con membri degli Yes nel gruppo XYZ, sigla che stava per EX Yes and Zeppelin. Quei brani non sono mai usciti, come sono? 

Se conosci gli Yes sai della loro tecnica incredibile. Ero lì con Chris Squire, un bassista straordinario, e il batterista Alan White. Hanno proposto di fare qualcosa insieme. Perché no? Era la prima volta che facevo qualcosa dopo la morte di John Bonham e ho pensato: «Beh, se c’è un modo per evitare di toccare il fondo, è questo». Erano davvero fantastici. E insomma, avevo sentito come suonava la chitarra Steve Howe e ho deciso di provarci

Sono andato in studio e abbiamo suonato alcune canzoni a cui stavano già lavorando. Io ho scritto le mie parti di chitarra ed era molto interessante. Alla voce c’era Chris. Dovevo concentrarmi sul serio, perché c’erano un sacco di cambi di tempo. Era roba seria. Ma era grandiosa. Geniale. Poi ho detto che avevo trovato qualcosa e ho suonato quella che sarebbe diventata Fortune Hunter dei Firm. Poi ho visto che erano in difficoltà. Mi sono detto che avevano lavorato parecchio alle loro cose, e che negli Yes funzionava così.

Fortune Hunter era un bel pezzo. Non conosco bene la musica degli Yes, quindi non so se quelle cose sono finite in qualche pezzo del loro catalogo. Posso solo dirti che c’era Fortune Hunter, ma era completamente diversa perché era suonata con Chris. Era più uno strumentale di chitarra basato su noi due.

Pubblicherai mai quelle registrazioni?
Purtroppo Chris non c’è più. Ho sempre voluto lavorare a un progetto con lui e Alan. Adesso non vale la pena neanche parlarne, sarebbe pura speculazione. Non ho avuto modo di ascoltare il materiale per capire cosa abbiamo davvero, e cosa non c’è più. Non ho nessun mix. Oppure ce l’ho e l’ho perso.

Negli anni ’80 la batteria di John Bonham ha contribuito al suono dell’hip hop. Più avanti hai collaborato con Puff Daddy a un pezzo con un sample di Kashmir. Perché sei affascinato dal genere?
Siamo tutti prodotti del nostro ambiente musicale. Io sono uno che ha imparato a suonare la chitarra acustica e lo skiffle, poi sono passato all’elettrica e ho sviluppato il mio stile. Volevo indagare, scoprire le cose come Sir Richard Burton (un esploratore del 19esimo secolo, nda), trovare la fonte del Nilo, ecco che cosa volevo fare. Anche senza entrare nel merito dei campionamenti, era chiaro che chi faceva hip hop aveva sviluppato il suo talento grazie a quello che ascoltava e al modo in cui riusciva a combinarlo in una forma d’arte nuova. È fantastico. E insomma, è la stessa cosa che facevano i Led Zeppelin.

L’hip hop mi affascinava, mi piaceva la cultura della breakdance e della strada. Pensavo fosse stupendo. Era roba ottima e coraggiosa. E ti dirò un’altra cosa: quando Puff Daddy mi ha contattato per quel pezzo, ho pensato che fosse fico. Ci avevano già usati in parecchi sample, perché non farlo sul serio? È venuto fuori un pezzo epico. Ci ha messo due orchestre, perdio! (Ride). È un lusso che non ci siamo mai potuti concedere. Anche fare SNL con lui è stato fantastico. Abbiamo fatto un paio di prove e poi la take, ma erano tutte diverse. Gli piaceva improvvisare, ammiravo il suo lavoro.

Ha cambiato il tuo modo di ascoltare Kashmir? 

Beh, sì. Quel riff è circolare, e poi c’è una parte a cascata, dove ci sono i fiati. È come Whole Lotta Love. Hai visto i mashup che girano su internet, come quello con James Brown e i Black Sabbath, o con Snoop Dogg? Ci sono tante versioni diverse anche di Whole Lotta Love, perché è un grande riff. È roba super intelligente, quando la ascolto penso: fantastico, se la gente si fa ispirare da quel riff e lo mischia con James Brown, diamine, li ringrazio. Sono uno di voi (ride). Mi diverte molto ascoltare quelle cose, soprattutto Whole Lotta Love. La gente ama quel riff e quando lo suonano sorridono tutti, è stupendo. È per questo che faccio musica. È per questo che scrivo.

Tutto questo ha cambiato il modo in cui vedi l’eredità che hai lasciato?
Volevo creare musica in grado di cambiare la vita delle persone, renderle felici per un po’. Tutto qui. Se hai imparato un paio di accordi e sei riuscito a farne una professione, se sei serio in quel che fai e hai trovato la tua strada, che siano gli  Yardbirds o i Led Zeppelin, se sei riuscito a fare musica che fa la differenza per la gente, poter passare il testimone ai più giovani, spiegare cosa ho imparato da James Burton e il Rock and Roll Trio, da Albert King, Freddie King e B.B. King, da Muddy Waters e Robert Johnson, è la conquista di una vita. Vuol dire che hai fatto la differenza. È fantastico.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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