I Led Zeppelin non avevano da dimostrare più nulla quando nel 1975 hanno pubblicato Physical Graffiti. «Sapevamo che era un’opera monumentale per via delle strade che avevamo percorso per arrivarci», dice Jimmy Page in una delle sale degli Olympic Studios di Londra dove il doppio LP è stato mixato all’epoca. «È stato un viaggio di scoperta, un’esplorazione geografica».
Dopo aver perfezionato la loro miscela di rock-blues potentissimo e folk inglese nei cinque dischi precedenti, i Led Zeppelin hanno trasformato Physical Graffiti in una specie di giro d’onore, oltre ad essere il primo disco del gruppo pubblicato per la loro etichetta Swan Song. Nei suoi 80 e passa minuti, Physical Graffiti contiene alcuni dei loro pezzi più duri (The Wanton Song, Custard Pie, Houses of the Holy), ma anche poemi epici e psichedelici (Kashmir, Ten Years Gone) e virate rock’n’roll (Black Country Girl, Boogie With Stu). Sono i Led Zeppelin più eccessivi e più affascinanti di sempre.
Quando parla delle origini dell’album, Page ricorda l’entusiasmo provavato all’idea di tornare a Headley Grange, la tenuta inglese del XVIII secolo dove i quattro avevano registrato Led Zeppelin IV. «Conoscevo tutti i segreti di quel posto».
Perché ti elettrizzava l’idea di tornarci?
Per il modo in cui avevamo inciso la batteria nella hall per When the Levee Breaks. E poi lì certi pezzi nascevano dal nulla, come ad esempio Rock and Roll nel quarto e Trampled Under Foot in Physical Graffiti, che è saltata fuori partendo da un riff. Già mi pregustavo la cosa mentre ero in viaggio per andarci. Non vedevo l’ora che fossimo tutti lì, per cominciare a elaborare il materiale che avevo io o avevano gli altri.
Prima dell’inizio delle session avevi scritto delle cose a casa tua. Era in quel periodo che vivevi nella vecchia proprietà di Aleister Crowley?
No, stavo in campagna, nel Sussex, ed era un posto affascinate. Avevo fatto installare uno studio multitraccia che mi ha consentito di lavorare sulle stratificazioni. Lì ho preparato Ten Years Gone, con tutta l’orchestrazione di chitarra, e ho concepito The Wanton Song e Sick Again. E lì, in pratica, è nata l’idea di Kashmir.
Come sono iniziate le session a Headley Grange?
Con me e John Bonham. Avevo almeno una mezza dozzina di idee e la prima era Kashmir, che non vedevo l’ora di sentire fatta con la batteria con quel suono enorme e poi farci sopra il riff. Volevo provare le idee che avevo per la parte degli ottoni a cascata e capire il ritmo della chitarra da metterci sopra. Ho sempre pensato che quella parte di chitarra dovesse essere retta da un’orchestra. In sostanza, è stato bello iniziare con John, lavoravamo bene assieme.
Da dove arriva Kashmir?
Le idee per il riff e la parte a cascata, che in realtà era suonata con una 12 corde elettrica e sul disco è fatta dagli ottoni, le ho prese da una cosa a cui stavo lavorando prima ancora di andare a Headley. Era una canzone completamente diversa. Proprio alla fine, mentre la provavo, ho suonato la parte di chitarra acustica al contrario ed è uscita una specie di fanfara seguita dal riff. Ho pensato che il pezzo sarebbe stato costruito intorno alla batteria e che ci avrei lavorato con John. È stata la prima cosa che ho provato con lui, perché sapevo che gli sarebbe piaciuta ed è andata proprio così, abbiamo suonato il riff più e più volte, è come una cantilena per bambini. Dal punto di vista musicale è un po’ come Fra Martino, su cui si possono aggiungere tante cose. L’idea era di avere questo riff molto intenso e magari anche maestoso, ma molto intrigante. E il pezzo doveva essere costruito intorno al suono di Headley e della batteria in quel salone. È così che l’ho sentito e l’ho visualizzato, ma l’ho anche pensato con l’orchestra in mente. È il nostro primo brano in cui si sente un’orchestra completa, oltre agli ottoni e agli archi. Avevamo usato una piccola sezione di archi in Friends, per il terzo album, ma questo pezzo doveva essere epico e corposo.
Secondo Robert Plant il testo di Kashmir è ispirato a un viaggio che voi due avete fatto in Marocco. Anche riff viene da lì?
No. Il pezzo aveva già preso una forma magnifica e solida quando Robert mi ha detto di quel testo. È successo molto dopo che la struttura della canzone era già stata definita.
Sembra che In the Light si sia evoluta di più rispetto ad altre canzoni dell’album.
Dipendeva. Alcuni pezzi erano buoni alla prima take, come Custard Pie o Trampled Under Foot. Stessa cosa per In My Time of Dying, è tutta lì, 11 minuti. Non ci sono modifiche o aggiunte o sovraincisioni in quello che sentite. Quelli sono i Led Zeppelin che ci danno dentro per gli 11 minuti di una canzone, con tutte le variazioni e la struttura musicale che devi tenere a mente quando senti il quattro della batteria e il nastro inizia a girare.
Perché ti interessavano i bordoni, all’epoca?
In apertura dei concerti che poi sono diventati How the West Was Won, quelli a Long Beach e al L.A. Forum (del 1972, nda), abbiamo usato un bordone ottenuto dalla registrazione di una chitarra acustica. E poi usavo l’archetto fin dai tempi degli Yardbirds e anche da un po’ prima. Era una cosa a cui mi sono dedicato molto, con la chitarra elettrica. Volevo ottenere la pastosità, se vogliamo, di una chitarra acustica con una accordatura particolare, e grazie all’archetto far crescere il tutto fino a ottenere qualcosa di orchestrale o di simile a quello che faceva Krzysztof Penderecki. Gli sarebbe piaciuto (ride). Comunque l’idea di usare i bordoni è precedente a quell’album, ma in quell’occasione è stata davvero efficace, questo è certo. Erano gli albori della musica ambient, diciamo.
Ho letto che John Paul Jones ha detto che non avete mai suonato In the Light dal vivo perché sarebbe stata troppo difficile da riprodurre.
Avremmo potuto suonarla, magari più avanti, nel tour del ’77. Forse avremmo dovuto suonarla all’O2, perché so che le tastiere moderne sono molto più evolute. Ma non l’abbiamo nemmeno mai presa in considerazione.
Tornando al disco, un’altra canzone che hai recuperato da session precedenti era The Rover. Ci è voluto molto per portarla a compimento?
L’avevamo iniziata a Stargroves, per Houses of the Holy, ma ci abbiamo lavorato quando siamo arrivati a Headley la seconda volta, facendo le sovraincisioni di chitarra. Poi è stata mixata all’Olympic. Il punto forte di The Rover è il suo carattere spavaldo, in particolare la chitarra, un po’ come Rumble di Link Wray: è pura aggressività, no? È una cosa che probabilmente ho nel dna.
Perché, alla fine, Physical Graffiti è uscito come doppio?
Per inserire il materiale avanzato dalla prima visita a Headley. C’erano tre brani che erano rimasti fuori dal quarto album: Boogie With Stu, Night Flight e Down by the Seaside. Non era pensabile sostituire nessuno dei pezzi del quarto album con uno di questi. Ognuno aveva un suo fascino e un suo carattere. Quindi, con questi e col fatto che il brano Houses of the Holy non era stato incluso nell’album con quel titolo, avevamo quattro canzoni già pronte. Avevamo la possibilità di dedicarci a fondo alla scrittura e di registrazione, non volevo che diventasse un doppio con dei riempitivi. Volevo un doppio in cui tutti i pezzi avevano carattere, alla maniera in cui i Led Zeppelin facevano la loro musica, con una sorta di etica, se vuoi, per cui ogni cosa doveva suonare diversa da tutto il resto.
All’epoca dovevate anche pensare alla vostra etichetta.
Sarebbe stato il primo album [dei Led Zeppelin] a uscire per l’etichetta Swan Song che Peter Grant, con la Atlantic, ci aveva aiutato a fondare. Avere una label è stata un’ottima idea, perché ci ha dato modo di far conoscere artisti che ci piacevano e che rispettavamo, come ad esempio la band di Paul Rodgers, i Bad Company, che è stata una delle prime uscite, e anche i Pretty Things, che tutti apprezzavamo molto. Per me quello che hanno fatto su Swan Song era buono.
Più o meno nel periodo in cui avete fatto Physical Graffiti stavi anche lavorando alla colonna sonora del film di Kenneth Anger Lucifer Rising.
Avendo quel multitraccia a casa, ho potuto sperimentare con tutti gli strumenti, trattandoli in diversi modi, così che non avessero necessariamente il loro suono tipico. Così le tabla non suonano come delle tabla e c’è un tambura enorme che suona in modo completamente diverso.
Hanno qualcosa in comune Lucifer Rising e Physical Graffiti?
Sapevo che quella non era necessariamente la strada che i Led Zeppelin avrebbero intrapreso, anche se l’influenza si sente. Lucifer Rising era come un mio taccuino personale dove ho provato a fare cose piuttosto estreme. Mi stavo spingendo oltre, in ogni senso.
Il titolo Physical Graffiti è tuo. Qual era l’idea?
All’epoca si cominciavano a vedere graffiti sui muri. Di solito erano citazioni di William Blake, non i graffiti che ora conosciamo, quelli legati all’hip hop. Comunque, stavano comparendo e ho immaginato che incidere musica su nastro, anche se si tratta di un nastro magnetico, è come fare un graffito. La musica come manifestazione fisica.
Da Rolling Stone US. Pubblicato originariamente nel febbraio 2015.