L’anno scorso Joan Wasser ha seguito un workshop di scrittura con la grande poetessa Marie Howe. Non era la prima volta che frequentava un corso di quel tipo pur essendo un’autrice più che affermata per i dischi fatti col nome di Joan As Police Woman. «Ho cominciato a seguire corsi intensivi di scrittura qualche anno fa, forse sette o otto», ricorda di passaggio da Milano. «Lo faccio perché cerco sempre nuovi modi di scrivere. Amo leggere, amo la poesia. E le parole mi commuovono».
Alla fine del workshop con Howe, Wasser ha scritto come compito una sorta di stream of consciousness, un flusso d’impressioni ispirato a certi testi di Bob Dylan e Leonard Cohen, «quelli lunghi ed epici che non pensavo d’essere in grado di scrivere perché mi sembrano sacri, intoccabili, irraggiungibili. E quindi avevo questo testo e intanto stavo lavorando al disco e mi chiedevo: di che cosa ha bisogno l’album, che tipo di canzone manca? Io, che di solito parto dalla musica e non dalle parole, ho preso quella poesia e l’ho musicata mettendoci sotto accordi molto semplici. E ho scoperto che anche quella mi rappresentava».
Il risultato è Lemons, Limes and Orchids, la title track dell’album che pubblicherà domani, la trasfigurazione poetica del ricordo di quando una ventina d’anni fa s’è ritrovata a vagare per le strade del West Side di Manhattan. «Non c’erano i cellulari, potevi perderti, camminare e disconnetterti dal mondo. Quella zona non era ancora sviluppata, era piena di gente sfortunata o con problemi di droga e alcol, tutte persone alla ricerca di qualcosa, ognuna a modo suo. E quindi nel testo ci sono io che cammino, guardo per terra e vedo bucce di limone, lime, orchidee ed etichette antitaccheggio aggrovigliati in un grande intreccio di umanità».
Questa strana canzone, che in fondo parla anche della capacità di Joan di trovare colore e bellezza nei luoghi più impensati, anche nella spazzatura, è un’eccezione in un disco pieno anzitutto di canzoni d’amore che suonano allo stesso tempo sexy e lievemente malinconiche, un disco in cui la voce di Joan è messa più che mai al centro. Ne senti le sfumature, i respiri, la presenza magnifica. È più diretto di The Solution Is Restless inciso con Tony Allen e Dave Okumu, più soul di Damned Damnation, più classico di Let It Be You con Benjamin Lazar Davis, per citare gli ultimi tre lavori della musicista. È un disco di canzoni-canzoni, uno dei migliori di Joan che lo porterà in trio col chitarrista Will Graefe e il batterista Jeremy Gustin il 17 ottobre alla Santeria Toscana 31 di Milano.
«Quest’album» racconta «è una specie di risposta a The Solution Is Restless, che era molto arrangiato e mi piace. Questa volta però volevo fare un disco con più spazi, più aperto, più semplice e quindi con la voce davanti. E volevo che fosse registrato praticamente dal vivo in studio, anche se poi ho cantato in un vocal booth. È un modo molto classico di registrare e ti dà modo di reagire in tempo reale ai musicisti, di creare assieme a loro. È un suono, è un modo di far musica che non smetterò mai di amare e a cui tornerò sempre».
Ci sono cantanti che adorano la propria voce, altri invece la odiano. E tu?
Io non ho mai voluto essere una cantante. Lo sono diventata per caso, in un momento molto doloroso della mia vita. Suonavo il violino, ma non bastava per esprimere quel che provavo. Il dolore era troppo. Ho dovuto iniziare a cantare. All’inizio però la cosa mi faceva sentire a disagio, non ero abituata al suono della mia voce, pensavo di non avere granché da dare come cantante. Diciamo che il rapporto con la mia voce è cresciuto molto lentamente. Adesso posso dire di avere un’amicizia profonda con la mia voce. Ci ho messo un bel po’, è stato un processo graduale, ma fare le cose lentamente è la cosa migliore specie in questi tempi in cui sei chiamata a fare tutto di corsa. Le cose costruite con lentezza sono anche le più solide.
Per qualche motivo quando ascolto l’album immagino queste canzoni accadere di notte, non di giorno. Forse è perché mi sembra che vengano da uno stato onirico o qualcosa del genere. Ha senso?
Assolutamente sì. Scrivo la maggior parte delle canzoni di notte. Di giorno è tutto troppo frenetico, non sono sufficientemente rilassata. Di notte ogni cosa rallenta e divento più creativa. E quindi sì, ascoltatelo di notte questo disco, magari abbassando le luci.
Io lo trovo molto soul, che è un aspetto della tua musica che non sempre viene sottolineato.
Esatto. Volevo che suonasse come un disco di Al Green. Amo quel sound oppure quello dei vecchi dischi di Van Morrison come Veedon Fleece e Astral Weeks. Adoro il soul, anche se a volte non è così evidente. Vuoi piangere per la bellezza? Guarda il documentario sulla Stax.
Che cosa ti piace di quella musica?
Che è rilassata. Che è confortevole. L’ascolti e ti sembra che sia sempre stata lì. È un flusso in movimento dentro cui entrano quelle grandi voci. Questo mi piace: non c’è sforzo. Al Green canta come se si fosse appena alzato dal letto. Zero stress. Anche quando l’argomento della canzone non è leggero, non c’è stress nella voce.
Anche il tuo disco suona così, con la tua voce dentro un flusso di musica. Lo trovo sexy e malinconico allo stesso tempo. Sento sempre un pizzico di tristezza nelle tue canzoni, un segno incancellabile, una sensazione magari lieve, ma presente anche nei prezzi che non sono tristi. È quasi un tuo marchio, ci hai mai pensato?
Sì che ci ho pensato. Da una parte credo che l’esperienza piena della vita non possa che comprendere anche la malinconia. Non c’è felicità senza tristezza. Dall’altra, per darti una risposta un po’ più profonda, credo c’entri il fatto che sono stata adottata da genitori che non potevano avere figli, ma ne volevano. Sono stata portata via da mia madre subito dopo la nascita. Non mi ha mai tenuta in braccio. Se l’avesse fatto, si sarebbe creata una connessione ed è stato meglio così. Credo che questa cosa abbia avuto un impatto su di me, sulla persona che sono diventata. È stata una separazione intensa.
Quando hai saputo che eri stata adottata?
L’ho sempre saputo, me l’hanno detto quand’ero molto piccola. Anche mio fratello è stato adottato e siamo molto diversi, sarebbe stato comunque difficile nasconderlo. Ma in ogni caso non ci volevano mentire. Ho incontrato mia madre quando avevo 20 anni e mio padre quando ne avevo 25.
Essendo questo un disco pieno di canzoni d’amore, mi chiedevo qual era lo stato d’animo da cui è nato.
Mi stavo innamorando mentre lo scrivevo e quindi ho cercato di catturare quel sentimento in diverse canzoni.
Ed è andata a finire bene questa storia?
Sì, bene.
Però il disco non ha un happy ending. “Help is on its way… just joking”, canti nell’ultimo pezzo…
È una risposta ironica a chi ti dice: non devi preoccuparti, non devi pensare a come migliorare le cose, vedrai che arriverà qualcuno a salvarti. Il mio è un altro modo per dire: guarda che a volte sei tu il responsabile della situazione in cui ti trovi.
Mi pare che la tua discografia sia, non diversamente da quella di altri musicisti, un gran tentativo di cercare un po’ di felicità o se preferisci un po’ di pace mentale. E nel cercarla c’è una tensione tra lasciare che le cose accadano o al contrario pensarci troppo su.
Pensare troppo è la storia della mia vita. La ricordi la canzone The Magic? Parla proprio di questo, di cercare la magia per uscire dalla mia testa. I pensieri là dentro girano furiosamente senza mai fermarsi, e non è utile, e ti fa impazzire. Quindi sì, c’è sempre stato questo elemento nella mia musica e nella mia vita: cercare di lasciar andare le cose che non mi aiutano. Però poi in questo disco c’è anche un pezzo chiamato Tribute to Holding On che al contrario dice che bisogna lottare per le cose che vale la pena tenersi strette. È contro tutte quelle banalità sul lasciare andare, sul lasciar perdere. Le trovo fastidiose. Ok, qualche volta è anche utile lasciar stare, ma 1) spesso non è possibile farlo e 2) a volte è bene che quelle cose non svaniscano, devi solo trovare un’angolazione diversa.
“Togli la celebrità e non rimane nulla, togli la celebrità e scompari”. Di chi parli in Full-Time Heist?
Di una persona che ho conosciuto che però non scoprirà mai che la canzone parla di lei, perché non pensa a se stessa in questo modo. È talmente egocentrica che non si riconoscerebbe mai in questo ritratto. E poi c’è un aspetto diciamo così generale, relativo alla cultura in cui viviamo dove è tutto un «io, io, io, io». Per me, come credo per chiunque sia cresciuto prima dell’arrivo dei social e di Internet, questa folle auto-promozione sembra proprio una malattia.
L’altro giorno guardando il tuo profilo Instagram ho letto il commento di un fan che ti definiva «la persona più cool dello showbiz». Tu hai risposto forse un po’ seriamente e un po’ no che «ho sempre voluto essere cool». Questa cosa dell’essere cool te la porti dietro da un pezzo, da quando il Times t’ha definita la «coolest woman in pop». È questo che vuoi essere, cool? E cos’è la coolness per te?
Crescendo, il tuo primo desiderio è che i tuoi pari ti considerino cool. E io non mi ci sono mai sentita. Mi sono sempre sentita una outsider, anche se a scuola ero amica di un sacco di cricche fighe. Ed è questo il punto: sono sempre stata vicina a tanti gruppi di persone diverse, ma non mi sono mai sentita integrata in nessun gruppo. Non che volessi appartenere a una categoria di persone, sarebbe stato troppo facile e noioso. La vita è troppo interessante per essere una cosa sola.
Anche la musica è troppo interessante perché si segua un solo stile. Tu del resto solo negli ultimi mesi hai suonato con Iggy Pop e a un concerto-tributo a Moondog…
Sono cresciuta con la musica classica e poi mi sono appassionata di brutto al punk-rock. Classica e punk-rock, per me è una combinazione perfetta. Insomma, mi sono sempre sentita ai margini e allo stesso tempo vicina a tante cose. Agli occhi di qualcuno questa cosa mi rende cool, agli occhi di altri sono una tipa stramba. E quindi quando dico che ho sempre voluto essere cool un po’ scherzo e un po’ no. Col tempo non sono cambiata. Sono ancora quella ragazza che si sente accettata da alcuni e incompresa da altri.