Dalle feste in cantina organizzate da adolescente ai locali della Milano che non si fermava mai, fino ai più importanti club internazionali. Titolare di one-night come New York Bar e Supalova, Joe T Vannelli è uno dei dj italiani più conosciuti nel mondo. Un vero innamorato della musica, da sempre attento al proprio modo di proporsi, sia dal punto di vista professionale sia da quello della cura dell’immagine. Un aspetto, quest’ultimo, scrive Christian Zingales nel suo House Music (Tuttle Edizioni), “che non pregiudica affatto la riuscita del progetto artistico di quello che è a tutti gli effetti uno dei produttori chiave della house italiana”.
Oggi la carriera di Vannelli viene celebrata attraverso God Is a DJ, un libro pieno di fotografie e di aneddoti, la cui uscita è stata l’occasione per una chiacchierata che ha preso le mosse dal primo capitolo del libro stesso, in cui si racconta la voglia di trovare un modo per continuare a fare musica in un mondo che per più di un anno e mezzo è stato messo a durissima prova.
Da quando è iniziata la pandemia hai suonato in molti dei luoghi più belli d’Italia trasmettendo in streaming i tuoi dj set. Ti sei reinventato abbinando la musica dance al patrimonio artistico e paesaggistico del nostro Paese, hai perfino suonato su una mongolfiera che volava sopra Cuneo. Per il futuro tuo e della dance come la vedi, in un momento come questo in cui la fine della pandemia sembra ancora lontana?
Anche prima della pandemia avevo iniziato a fare dirette streaming: ero già convinto che fossero il futuro della musica. Il futuro della dance è abbastanza critico, siamo appena ripartiti e con il super green pass si ribloccheranno le discoteche, luoghi in cui sei molto libero, ti abbracci, ti baci, condividi un drink. Tutto questo avviene attraverso la musica, ma in questo momento è proprio la musica che si deve reinventare nel suo modo di arrivare al pubblico. Il giovedì di Pasqua del 2020, durante il primo lockdown, sono salito sul tetto del palazzo in cui abito per controllare l’antenna della tv di casa. Ho visto il Duomo di Milano immerso in un silenzio assoluto e mi è venuta l’idea di suonare proprio da lì. Quando poi l’ho fatto ho avuto anche delle grane perché quel posto non è di mia proprietà. È stato emozionante, ho pensato al concerto sul tetto dei Beatles e agli U2 che avevano fatto una cosa simile per il video di Where The Streets Have No Name. Da lì, con le varie dirette, ho voluto valorizzare il patrimonio italiano. Non avevo davanti nessuno, ma c’erano migliaia di persone collegate che vedevano quello che stavo facendo. Per tornare alla domanda iniziale, penso che nel mondo della dance niente sarà più come prima e tutto sarà completamente diverso.
Nel libro ci sono moltissimi aneddoti attraverso cui racconti il mondo di cui fai parte fin dalla fine degli anni ’70. Scrivi che una volta, al Plastic, hai fatto cadere per terra della cocaina che ti era stata offerta, fingendo di non averlo fatto apposta. Dici anche che, durante gli anni ’80, essere contro la droga nell’ambiente era una sorta di colpa. Oggi le cose sono cambiate?
No, oggi le cose oggi non sono cambiate. Nell’ambiente capita di incontrare persone che vogliono essere come te, ma anche persone che, se non sei come loro, non ti vogliono più. Io non faccio uso di droghe perché voglio essere pulito mentalmente. Ho molti amici che ne fanno uso, ed è una loro scelta. Ma non devono pensare che possiamo essere amici solo se ne faccio uso anch’io. Quando qualcuno me la offre faccio finta di non capire, oppure di non averne bisogno. Ho paura che, se mai dovessi iniziare, potrei arrivare ad abusarne. La droga è un problema sociale, ho avuto molti amici morti di overdose. Il mondo è fatto in questo modo e la droga c’è ovunque, nonostante le leggi che tentano di combatterne la commercializzazione e il consumo. Sull’argomento tento di non discutere perché ho avuto litigi anche con colleghi, ma non sono d’accordo sul fatto che abbiamo bisogno di un additivo. Per me l’additivo è l’amore, la passione per gli altri. Non credo che con la droga si possa convivere, non mi appartiene. Ho cercato anche di insegnarlo ai miei figli. A Dave e Andrea, che ormai sono grandi, in passato ho fatto anche fare l’esame delle urine o del capello. Gli ho sempre detto che se volevano drogarsi potevano andare a Berlino o a Miami, ma in casa mia non si poteva.
Nel libro dici anche che non ti piacevano le formule “fuori orario”, che iniziavano alle 7 della mattina e andavano avanti a oltranza, perché pensavi ci girasse troppa ecstasy, troppa droga. Avevi due figli piccoli e la sera dovevi tornare a casa da loro, non potevi permetterti di frequentare certi ambienti. Sono stati i figli la ragione principale per la quale sei stato lontano dalla droga o ci sono state anche motivazioni di integrità professionale?
Non mi piaceva vedere gente che si drogava e poi ballava solo con il suono della cassa, per me è la melodia che dovrebbe muovere il corpo. Con la droga non si capiscono né la musica né l’amore che ne scaturisce. La droga che girava in quel tipo di serate avrebbe distolto l’attenzione dalla musica che volevo proporre al mio pubblico. «Concentriamoci sul suono» mi dicevo, perché la droga ci porta a ballare senza capire l’essenza della musica, che non è la cassa a 128 bpm. Alcuni dicono che se non si drogano non possono suonare, ma io non sono d’accordo. Anzi: ho visto gente che si drogava e poi in studio non riusciva più a cantare. Oltretutto, se fai musica e ti droghi, non vieni più considerato per la musica buona o cattiva che fai, ma anche per i tuoi comportamenti.
Nel libro racconti di quando sei andato assieme a David Guetta a un party privato a casa di Erick Morillo, una villa pazzesca a Miami. Fra gli altri c’erano Little Louie Vega, Josh Wink e Hector Romero, e dici che in quell’occasione hai capito che fare pubbliche relazioni con le persone giuste conta molto di più che saper mettere musica. A te è mai capitato di essere avvantaggiato dalle pubbliche relazioni più che dal talento?
Nel 2009 ho realizzato il brano Get It On con la voce di Rochelle Fleming, cantante dei First Choice, una delle grandi dive americane della disco music. Vendetti il brano proprio alla Subliminal di Erick Morillo. Immaginavo che un prodotto stampato su etichetta americana e pubblicato sul mercato americano potesse avere più chance di entrare in classifica. Questo poi mi aprì le porte di molti altri locali in giro per il mondo, e lo stesso Morillo mi chiamò a suonare nella sua serata storica al Pacha di Ibiza. Insomma, è importante essere al posto giusto nel momento giusto con le persone giuste.
A proposito dei posti in cui hai suonato, l’elenco è impressionante. Se non avessi fatto il dj, anche se saresti potuto essere bravissimo in un altro lavoro, la tua vita sarebbe stata molto diversa. Ti capita mai di pensarci?
Ho girato il mondo senza avere un vero e proprio manager. Senza saper suonare uno strumento ma comunque grazie alla musica. Prima però ho fatto tanti altri mestieri: dal venditore di gelati al cinema al doppiatore. I miei mi avrebbero voluto vedere in banca, ma la musica mi dava più soddisfazione. Penso comunque che tutti i mestieri abbiano bisogno di talento da parte di chi li fa. Quando ho preso i primi soldi per fare il dj ho capito che questo mio talento poteva diventare un mestiere. Poi, nel corso degli anni, ho visto che pubblico va e viene, così come il successo. A me non interessa tanto che un disco abbia successo, ma che ascoltandolo trent’anni dopo io possa dire: però, che bel disco! Per me è più importante che i miei figli o la mia compagna mi dicano che sono una persona speciale.
Sulla disponibilità sessuale nei confronti dei dj dici che avresti una marea di aneddoti ma forse servirebbe un libro a parte. In attesa di questo libro, ci racconti un aneddoto?
Mi trovavo a Porto, in Portogallo, per un afterhour. Dovevo suonare dalle 4 alle 5 del mattino, con un aereo che mi aspettava alle 7. Finito di suonare andai in albergo per dormire mezz’ora prima di prendere il taxi per l’aeroporto. Subito dopo essere arrivato, sentii bussare alla porta. Era una delle ballerine della serata, nuda, indossava solo un velo. Mi chiese di entrare e io ero stravolto, con il taxi che sarebbe arrivato di lì a poco. Comunque la feci entrare e il resto te lo lascio immaginare. Un’altra volta, ero già un produttore conosciuto, stavo lavorando con Fanny Cadeo, che era una delle veline di Striscia la notizia. Il suo agente, dopo avermi presentato altre due ragazze, mi domandò se avevo “la coperta”. Io non capivo, ero ingenuo. «Se hai bisogno di una coperta, hai tutta la mia disponibilità», mi disse. Insomma: voleva chiedermi se, per quella notte, desideravo compagnia. Il fatto è che, quando nel lavoro ti lasci andare, poi non combini più niente: se stai lavorando, devi lavorare.
Sempre nel libro dici che ciò che manca alla dance in Italia è la capacità di fare gruppo, di mettersi insieme veramente, cosa che invece nel pop e nel rap funziona bene in questi anni, tra featuring e mix tra cantanti intramontabili e nuove star del pop. Per i dj italiani dici invece che questo tipo di unione è rarissimo, tutti continuano a remare da soli, non amano condividere le idee o gli eventi con nessuno. Qual è secondo te la ragione di questo atteggiamento?
È molto improbabile che accada di condividere la consolle, il cosiddetto back to back. Nella musica puoi cantare e condividere il successo, in discoteca invece non funziona. Anche quando due dj fanno vedere al pubblico che sono amici, in realtà ognuno ha la sua onda. Noi italiani poi abbiamo la rivalità nel dna, era così già ai tempi di Leonardo e Michelangelo. È una cosa naturale ma negativa. I dj olandesi, per esempio, sono molto più bravi a fare gruppo e questo li avvantaggia a livello di occasioni di lavoro. Noi italiani siamo molto più individualisti. Ovviamente questo non è un giudizio di valore: in Italia ci sono molti dj che apprezzo moltissimo, mi vengono in mente Marco Carola, Joseph Capriati, Benny Benassi… Ma il dj vuole essere il prete che fa la messa, e la messa la fa un prete solo, non due.