John Grant: io, depresso, alcolizzato, sieropositivo | Rolling Stone Italia
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John Grant: io, depresso, alcolizzato, sieropositivo

È un artista maledetto, insomma. Che ha trovato la salvezza nel nulla d’Islanda. E in un album che spacca. Lo aspettiamo in Italia in 22 novembre

È da poco uscito "Grey Tickles, Black Pressure", terzo album di John Grant

È da poco uscito "Grey Tickles, Black Pressure", terzo album di John Grant

Dalla tentazione di mollare tutto, al successo mondiale con tanto di nomination l’anno scorso ai BRIT Awards, la parabola musicale di John Grant non ha niente di lineare, ma procede per strappi e svolte improvvise. Nel mezzo c’è stato un po’ di tutto: depressione, alcolismo, sesso pericoloso, fino alla dichiarazione pubblica di essere sieropositivo. Eppure John Grant non ama i toni enfatici. La sua storia – si schermisce – non ha niente di speciale. In compenso il suo nuovo album Grey Tickles, Black Pressure è bellissimo.

John Grant - Disappointing feat. Tracey Thorn (Official Music Video)

Non hai passato anni facili. C’è chi dice che sia fondamentale per un artista soffrire tanto per creare qualcosa di buono…
È difficile rispondere, perché non ho la controprova. È un vicolo cieco, in un certo senso. Non puoi essere troppo vulnerabile se vuoi creare qualcosa, ma allo stesso tempo devi concederti di essere vulnerabile, per essere sincero in ciò che stai facendo.

Non hai paura che questa sincerità di cui parli possa diventare anche una trappola? Ultimamente non si fa che esaltare la capacità di essere onesti.
Sì, capisco che vuoi dire. Non so, in realtà non credo si tratti di una cosa nuova. Forse semplicemente per un po’ di tempo è stata dimenticata. Ma se prendi gli anni ’70, era la stessa cosa. Le canzoni sembravano conversazioni tra la gente. Oppure il blues, il jazz. Forse qualcosa è cambiato negli anni ’80. Certo, c’è il rischio che questo stile confidenziale possa diventare una moda, ma l’importante è non perdere di vista la motivazione. Capire perché stai facendo quello che stai facendo.

E tu come lo capisci?
Per me è un processo naturale, non mi sembra di fare niente di speciale. Insomma, alla fine cosa vogliamo? Capire i nostri sbagli, capire come fare ad amare, a essere amati, come gestire i soldi, la carriera, la famiglia. Queste cose qui. Quando scrivo un pezzo cerco di togliere tutti gli strati inutili e arrivare all’essenza. Ci metto un sacco di tempo, non mi interessa sembrare cool o ammiccante, riscrivo i testi per eliminare ciò che non conta.

In quello che conta non ci sono solo le tue esperienze dirette, ma anche un sacco di riferimenti culturali, penso ai film…
Sì, esatto. Parlo di tutto quello che amo, quello in cui mi riconosco. Ad esempio, in questo album c’è un pezzo che si chiama Geraldine, ed è ispirato a Interiors, uno dei miei film preferiti di Woody Allen. Mi sono ritrovato molto nel personaggio interpretato da Geraldine Page, una donna depressa, alla fine di una relazione, che non sa dove sbattere la testa. Adoro l’ironia amara di Woody Allen. In generale mi piacciono le commedie nere. Cerco di restituire la stessa cosa anche nei miei album.

In fatto di commedie nere, lì in Islanda, dove vivi ora, non stanno messi male. Che ne pensi del cinema di lassù?
Purtroppo lo conosco meno di quello che vorrei, sto cominciando a parlare l’islandese, ma non ancora così bene da capire completamente un film. Però ho amato molto Of Horses and Men.

Parli un sacco di lingue, nella tua vita hai viaggiato parecchio e hai vissuto in vari posti. Ti senti comunque di appartenere a una tradizione americana?
Sì, mi sento molto americano. Ho sempre nostalgia degli Stati Uniti quando sono lontano. Persino del cibo. Non è stato facile crescere nel Midwest, ma il mio immaginario si è formato su miti americani: Woody Allen, appunto. Ma anche Mel Brooks, i Simpson, X-files, Seinfeld. Poi però negli anni ’80, quando vivevo negli Stati Uniti, tutta la musica che ascoltavo veniva dall’Inghil- terra. E amavo pure Nina Hagen, tedesca. Anche se, in effetti, il mio gruppo di riferimento restano i Devo, che sono americani…

Hai detto che l’Islanda ti ha salvato: pensi di restarci a vivere?
Amo questo posto, la gente, lo spazio, ma ho paura ad affrontare l’inverno. È troppo buio. Ho bisogno di vitamina D. Letteralmente. Per questo, stavo pensando all’Australia…

Il cantautore è atteso per l’unica data in Italia il 22 novembre al Fabrique di Milano.

Questo articolo è pubblicato su Rolling Stone di ottobre.
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