Sono almeno quarant’anni che l’Italia ama i Duran Duran. La partecipazione a Sanremo con l’assedio dei fan e la caviglia rotta di Simon Le Bon. Enzo Braschi in prima serata al Drive In di Italia 1 nei panni del paninaro che grida «Wild boys!». Sposerò Simon Le Bon, il libro e il film. Persino un giornalino che si chiamava Wild Boys. Si può far risalire tutto al 1985, autentico annus mirabilis nel rapporto tra la band e il nostro Paese. Un amore e una popolarità che, pur con fisiologici cali, sono continuati fino ai nostri giorni e che promettono di rinnovarsi in occasione dei quattro concerti dei Duran Duran in programma per la prossima estate: il 15 e 16 giugno al Circo Massimo di Roma, il 18 alla Fiera del Levante di Bari e il 20 giugno all’Ippodromo Snai San Siro di Milano.
Dalla mansarda della sua casa nel Wiltshire, John Taylor risponde alle domande di Rolling Stone sull’attività live della band e sull’imminente tour italiano.
Quest’estate suonerete al Circo Massimo, un enorme circo romano che nell’antichità è arrivato a contenere fino a 300 mila spettatori. Avrebbero dovuto girarci alcune scene di Ben Hur, anche se poi la produzione non ottenne il permesso. C’è qualcosa di diverso per voi quando suonate in un posto così grande?
Sì, è diverso. Quando ci sono eventi così grossi il nostro obiettivo è quello di far vivere al pubblico un’esperienza epica, in cui tutti provino un senso di fratellanza, di unità, il piacere di stare insieme. Sono passati giusto vent’anni da quando abbiamo suonato al Circo Massimo durante il Live 8. A me piace anche suonare in posti piccoli, ma è una cosa completamente diversa. In questo momento della storia dei Duran Duran il pubblico per noi è molto importante: il fatto che ci sia tutta questa gente che viene a vederci dopo averci seguito per così tanto tempo è quasi un’esperienza religiosa, e non ci capita spesso di suonare in posti così grandi. Mi pare anche che sia molto bello per il pubblico stare con noi in un evento del genere. Assieme allo sport, la musica è una grande forza unificatrice, in grado di radunare tante persone in un posto solo.
Al Circo Massimo suonerete davanti a una platea di posti a sedere. Come ci si sente in questi casi?
L’energia è diversa. Quando il pubblico è seduto fa più attenzione a quello che succede sul palco. È un po’ come guardare una partita, ma non è che non ci si diverta. Se facciamo bene il nostro lavoro, chi viene a vederci si alza in piedi e balla comunque. Anzi, ha pure un po’ di spazio in più perché non si sta tutti ammassati, dato che non c’è un pit.
Quasi quarant’anni fa, nel 1987, avete fatto un tour negli stadi. Eravate solo tu, Simon Le Bon e Nick Rhodes, con la band di Notorious. C’è qualche momento speciale che ti viene in mente dei vostri passati tour italiani?
Quel tour negli stadi fu memorabile. Era un momento importante per noi tre. La band veniva da un momento difficile, stavamo provando a reinventarci e quello era un periodo di transizione: dovevamo abituarci a lavorare senza Roger e Andy. Quel tour quindi ci offrì l’opportunità di fare qualcosa di diverso. Mi ricordo anche di quando, sempre nel 2005, abbiamo suonato gratis a Roma a un evento sponsorizzato. Forse era in una piazza, non ricordo bene (piazza San Giovanni, nda), ma dal palco vedevo gente a perdita d’occhio. È stato uno dei nostri concerti più divertenti di sempre. Mi piace molto anche andare in Sicilia, a Taormina c’è un posto incredibile (il Teatro Antico, nda) dove è sempre bello tornare a suonare.
Quest’anno cadono anche quarant’anni esatti dalla vostra partecipazione al Live Aid. Cosa ti ricordi di quella giornata?
Dio mio, è stata un’esperienza da pazzi. Prima di tutto, in quel periodo i Duran Duran erano divisi in due. C’erano gli Arcadia a Parigi (il progetto di Simon Le Bon, Nick Rhodes e Roger Taylor, nda) e i Power Station a New York (John e Andy Taylor con Robert Palmer e Tony Thompson, nda). Due fazioni con due diverse filosofie, e i Duran Duran erano come spaccati in due. Ognuno di noi lavorava a uno dei due progetti, separatamente, e ci siamo ritrovati a Philadelphia per il Live Aid. Non mi è mai capitato di partecipare a una cosa così epica. Per il suo significato e per la quantità di talento presente su quei due palchi. Per noi è stato interessante perché nei primi anni ’80 si può dire che facessimo parte di un’avanguardia di giovani band che passavano su MTV e alla radio. Noi, Madonna e altri abbiamo portato questa musica al Live Aid, dove c’erano anche Bob Dylan e i Led Zeppelin. Quel giorno ci fu una straordinaria commistione di generi, tutti volevano esserci. E poi si suonava in contemporanea a Philadelphia e a Londra. È stata una giornata da ricordare, che penso abbia cambiato gli anni ’80 e la percezione di quello che la musica era in grado di fare. Questo cambiamento non è andato necessariamente a favore dei Duran Duran.
In che senso?
Abbiamo fatto parte di un movimento che in qualche modo ha definito i primi anni ’80. C’erano la moda, l’arte, la tecnologia, la sessualità e la fluidità di genere. Tutte queste cose hanno contribuito a definire la scena dei Duran Duran: la nostra musica era anche un crossover di tutti questi elementi. Il Live Aid riguardava invece la consapevolezza globale di un’emergenza umanitaria e artisti come gli U2, Sting o Peter Gabriel hanno contribuito a creare un movimento in tal senso, e a farlo crescere. Per me la cultura pop degli anni ’80 si divide in due: prima del Live Aid e dopo il Live Aid. Magari mi sbaglio ma la mia percezione è questa: è stato uno spartiacque tra due diversi modi con cui il mondo della musica ha contribuito alla cultura pop.
C’è una canzone che ti piace particolarmente suonare dal vivo?
Ordinary World. È una canzone che sa sempre sorprendere. Noi e il pubblico. È un pezzo che è arrivato inatteso. A un certo punto era chiaro a tutti che sapevamo come scrivere un brano pop-dance, basti pensare a Girls on Film, Hungry Like the Wolf, The Reflex o The Wild Boys. Sapevamo come sparare fuori una melodia pop che fosse groovy. Ma essere capaci di fare Ordinary World è stata una fortuna. È lo zeitgeist, l’essere sintonizzato con la società di una determinata epoca, non solo con te stesso. Quella canzone è diventata un inno sulle preoccupazioni che si hanno quando arriva il momento di crescere. Ha parlato al nostro pubblico: noi e loro non eravamo più ragazzini. Con Ordinary World abbiamo cantato di cosa significa essere umani, e di come la musica può a volte aiutare a trovare un senso alla condizione umana. Quando la facciamo nei nostri concerti, è come se chiedessimo al pubblico di fermarsi un attimo a pensare a tutti quelli che non sono in grado di vivere l’esperienza che noi stiamo vivendo tutti insieme in quel momento.
Ce ne sono altre che ti piace particolarmente suonare?
Provo sensazioni simili anche quando facciamo Come Undone, che viene dallo stesso album: un pezzo che racconta di una persona che si guarda nello specchio con occhi più vecchi. La nostra musica dei primi anni ’80 guarda al mondo con gli occhi spalancati di un ragazzo. In modo naïf, se vogliamo, come se dicesse: wow, che bella la vita. Quando invece stavamo lavorando al Wedding Album abbiamo iniziato a fare canzoni dal punto di vista di chi riflette sul significato della vita, e su quello che serve per cavarsela, perché la vita non è tutta feste e macchine.
In Italia la vostra canzone più nota è forse The Wild Boys. Forse perché era la vostra hit nel momento del vostro primo, grande picco di popolarità nel nostro Paese.
Lo so, lo so. Molti non sanno qual è l’origine di quel pezzo. Ai tempi lavoravamo con Russell Mulcahy, regista australiano che avevamo incontrato per la prima volta lavorando al video di Planet Earth. All’inizio degli anni ’80 per noi era un punto di riferimento: ci ha portati in Sri Lanka per i video di Save a Prayer e Hungry Like the Wolf, e poi ai Caraibi per quello di Rio. Lui stava lavorando a un vero e proprio lungometraggio, basato sul romanzo I ragazzi selvaggi di William Burroughs. È un classico libro underground, non il più facile dei libri. Russell aveva mostrato a Simon e a me i disegni che aveva realizzato per il progetto, per il quale stava cercando dei finanziamenti. Noi allora abbiamo scritto una canzone che potesse fare da tema per il suo film. Quest’ultimo alla fine non è stato realizzato, ma nel video della canzone, soprattutto nella versione lunga, ci sono molte delle idee di Russell, di cui abbiamo usufruito. Mi piace molto l’idea che il nostro pezzo sia venuto fuori da una fonte così artistica e underground.

I Duran Duran a New York nel 2023. Foto press