All’inizio, per chi seguiva la scena inglese con occhio curioso ma non particolarmente attento, quello di Jordan Rakei era semplicemente un nome che saltava fuori a intervalli regolari come collaboratore di dischi altrui, tutti di grandissimo livello: si parla di Tom Misch, FJK, Loyle Carner, Disclosure, Jorja Smith e tanti altri. Con il passare del tempo, però, è diventato chiaro che era tutt’altro che una semplice comparsa, e che era da protagonista che dava il meglio di sé: questo cantante, polistrumentista e produttore australiano, figlio di madre bianca neozelandese e di padre maori delle Isole Cook, è uno dei cantanti più raffinati e originali del momento, grazie alla sua vena progressive R&B e a una formazione elettronica che lo rendono all’avanguardia sotto ogni aspetto.
Finora ha pubblicato quattro album, l’ultimo dei quali si intitola What We Call Life ed esce questo venerdì. La title track, ci racconta via Zoom, «nasce da una vicenda realmente accaduta. Quando avevo 8 anni soffrivo di una grande ansia sociale: un giorno c’era una grande festa a casa mia, e ricordo di aver pensato “È questa la vita che devo vivere per il resto della mia vita? Resterò per sempre ansioso, timido, introverso, spaventato?”. Nella canzone è come se cercassi di esprimere empatia nei confronti di quel giovane me, e di dirgli che no, non sarà sempre così, che un bel giorno si trasferirà a Londra, troverà tanti amici e tutto andrà per il meglio».
Quando ti sei trasferito dall’Australia a Londra avevi 23 anni e non conoscevi nessuno: dev’essere stato un bel cambiamento per te…
Inizialmente era un esperimento, per me. In realtà un ragazzo lo conoscevo, ma ci eravamo parlati solo via Twitter, fino a quel momento. Ci incontrammo a cena, mi presentò i suoi amici, i suoi amici mi presentarono i loro e via dicendo. Da allora mi sento davvero a casa, è il posto in cui ero destinato a vivere. A livello creativo, architettonico, culturale, è una costante fonte di ispirazione per me. Spero di rimanere qui il più a lungo possibile.
Tra l’altro sei molto legato alla scena musicale londinese, con cui collabori spessissimo.
So che sembra un po’ stupido da dire, ma penso che a Londra ci sia così tanto fermento tra i musicisti per via del clima: la malinconia ispira parecchio e in più la gente resta sempre chiusa in studio perché il tempo è sempre brutto. Se fossi stato ancora in Australia, penso che sarei andato in spiaggia ogni giorno (ride). No, scherzi a parte, c’è anche una tematica di prossimità: qui sei a qualche fermata di metropolitana da tutto, in Australia possono volerci anche 12 ore di volo per raggiungere un’altra città. E poi, credo che il bello della scena di Londra sia che i musicisti sono davvero aperti alle collaborazioni: non c’è una vera competizione, tutti sono sempre pronti a darsi una mano e a presenziare sul disco degli altri. E funziona così sia all’interno dei singoli generi musicali, sia tra generi diversi, tant’è che quando sono arrivato qui ho iniziato subito a collaborare con musicisti molto lontani da me, provenienti dalla scena dance, da quella jazz, da quella pop e via dicendo.
Curiosità: hai collaborato e continui a collaborare con chiunque, ma nei tuoi album più recenti non ci sono featuring. Come mai?
Non voglio assolutamente parlare male di questa tendenza, perché come dicevi mi presto spesso anche io, ma penso che in questo momento la musica faccia troppo affidamento sui featuring. E ci sono così tante cose che ho voglia di raccontare nei miei dischi che davvero faccio fatica a lasciare spazio ad altri: normalmente arrivo a fine registrazioni che ho una trentina di canzoni, e devo scartarne più della metà… Forse sono solo un maniaco del controllo, che vuole che nel suo album le cose vadano esattamente a modo suo. O forse sto solo aspettando che Stevie Wonder o Bon Iver o Laura Marling decidano di cantare sul mio disco (ride).
Hai registrato What We Call Life dopo avere iniziato ad andare in terapia, cosa che a tuo dire ha influenzato moltissimo quest’album. In che modo?
Innanzitutto dal punto di vista dei testi: sono molto più intimi. Prima ancora di iniziare mi ero detto che volevo scrivere qualcosa di profondo, che avesse un significato per me. In passato le mie canzoni erano meno personali; il mio disco precedente Origin, ad esempio, parlava del ruolo della tecnologia nella nostra società. Poi ho cominciato a fare terapia, e man mano che andavo avanti scoprivo tantissime cose su di me, sulla mia personalità e sui meccanismi che regolano la mia vita, così ho deciso di esplorare questi territori nel mio nuovo lavoro.
E dal punto di vista musicale, invece?
Mentre lavoravo al disco, forse proprio perché in terapia parlavo così tanto di quel periodo, ho ascoltato molta della musica con cui sono cresciuto da bambino, quella che ascoltavo in famiglia: soprattutto folk e cantautorato. Un sound molto diverso da quello che ho sempre fatto, che affonda le radici nel soul e nel jazz. Volevo nutrirmi di canzoni che raccontassero una storia.
Il primo singolo estratto, con cui avevi presentato il progetto al mondo, si intitola Family e parla proprio della tua famiglia…
È sempre molto difficile scegliere la prima canzone da pubblicare, ma penso che Family descriva molto bene i temi del disco e quello che ho scoperto andando dallo psicologo. Ho capito quanto i miei genitori mi hanno formato. Hanno divorziato quando ero piccolo e, anche se nel testo non ne parlo mai esplicitamente, in questa canzone rifletto sul fatto che, nonostante il loro matrimonio sia finito, è rimasta comunque una connessione profonda tra di loro, costituita dal legame e dall’affetto che provo sia per mia madre che per mio padre. Insomma, anche se non sono più una famiglia, saranno sempre la mia famiglia.
Un’altra grande fonte di ispirazione per quest’album è stato il tuo matrimonio, a quanto hai raccontato. Come ti ha cambiato?
Prima di incontrarla ero sempre stato un single incallito, e con lei ho provato per la prima volta la sensazione di dover prendere decisioni non solo per il mio bene, ma anche per il bene della nostra relazione. Questo mi ha fatto maturare molto come persona, perché mi spinge a riflettere in modo meno egoista. Ne parlo in uno dei brani dell’album, Unguarded, che racconta il nostro primo incontro e la sensazione di aver finalmente trovato qualcuno da cui non mi sento giudicato, e con cui posso essere totalmente vulnerabile.
È impossibile non chiederti cos’ha detto tua moglie quando ha ascoltato Unguarded, a questo punto.
È una storia abbastanza divertente. Anche se siamo insieme da sei anni, non le avevo mai scritto una canzone d’amore prima, perché penso che ce ne siano davvero troppe in giro, è qualcosa che è stato già fatto e rifatto da tutti. Ma stavolta, visto che l’album era così intimo, dovevo per forza parlare della relazione in assoluto più personale che ho. Così un giorno sono arrivato da lei e le ho detto: «Ecco qui, questa è la tua canzone». Gliel’ho suonata e le è piaciuta moltissimo: adesso ogni tanto la canticchia sotto la doccia o gironzolando per casa, e quando la becco mi dice tutta orgogliosa, «Beh, che vuoi? È la mia canzone!».
Ne scriverai altre per lei?
Chissà (ride). Sono un po’ troppo severo con me stesso quando si parla di canzoni d’amore, perché continuo a ripetermi che potrei fare di meglio. Se penso a capolavori come My Cherie Amour o You Are The Sunshine of My Life di Stevie Wonder, è difficile sentirsi all’altezza. Non so come sia possibile arrivare a quei livelli di perfezione.
Per contro, Clouds sembra molto meno personale: sembra riflettere sulla società intera, più che sulle persone a te più vicine…
In realtà è comunque molto personale, in parte. Nasce da una riflessione sulle proteste del movimento #BlackLivesMatter, che mi ha fatto molto pensare ai miei privilegi e ai miei schemi mentali, legati soprattutto al fatto che sono di razza mista, ma crescendo non me ne rendevo quasi conto per via del mio aspetto. Mi sono interrogato sul mio ruolo nel mondo, sui vantaggi di cui in qualche modo ho goduto per via del fatto che sembro bianco al 100%. E naturalmente su quello che posso fare in futuro per cambiare le cose.
L’album si conclude con una traccia da sette minuti, The Flood.
È molto lunga, lo so (ride). La cosa curiosa è che, nonostante questo, l’ho scritta in circa tre ore, in una ridente mattinata in cui mi trovavo in Galles. E più aggiungevo roba, più mi divertivo! Penso che riassuma perfettamente lo spirito di tutto l’album e del mio stile attuale, perciò l’ho tenuta così. C’è qualcosa di liberatorio nel fare canzoni che durano sei, sette o otto minuti: sai già che non potranno mai diventare un singolo, e quindi ti sbizzarrisci senza preoccuparti troppo delle conseguenze. Ogni tanto ci vuole.