Ritrovatasi nella stardom già da giovanissima – aveva 18 anni quando il suo brano Blue Lights è diventato un fenomeno su SoundCloud, 400 mila play giusto col passaparola, e subito dopo Drake ha endorsato il suo brano successivo dandole così popolarità planetaria – Jorja Smith è una di quelle artiste che ad oggi non ha praticamente sbagliato un colpo secondo i canoni perfetti del pop-di-qualità. Da lì in poi ci sono state infatti le collaborazioni giuste (a partire da quella con Kendrick Lamar in I Am, dalla colonna sonora di Black Panther, proseguendo con Stormzy, Kali Uchis), e c’è stata l’indubbia qualità del suo album d’esordio, Lost & Found, con le nomination al Mercury Prize inglese (sigillo di qualità) e ai Grammy statunitensi (sigillo che l’industria ha detto: ok, con questa possiamo farci i soldi).
Del resto Jorja è un prodotto da manuale dei propri tempi in musica, sembra quasi una creazione in vitro: voce molto bella, tecnica inappuntabile, piglio fresco e candidamente onnivoro (dato anche dalla tendenza – tipica dei ventenni contemporanei – di ascoltare di tutto di più mettendo tutto & tutti in un unico calderone, una spigliata versione 2.0 del postmodernismo tipica dell’era della musica gratis o quasi; e anche una dovuta dose d’impegno, sì, visto che la Blue Lights che l’ha rivelata è una canzone che si inseriva con tempismo perfetto nel dibattito (sacrosanto!) del Black Lives Matter e della violenza spesso gratuita della polizia, annunciata appunto dal lampeggiare delle luci blu.
Tutto perfetto, quindi. E come quando ti capita di avere a che fare coi prodotti perfetti in musica, spesso hai l’impressione che anche le interviste siano in qualche modo perfette: che cioè l’artista, da grande professionista, non si sbilanci mai, che coi giornalisti segua un canovaccio già prestabilito a monte col suo team. Per parte della nostra chiacchierata con Jorja, va in effetti così. Gentile, sempre; ma spesso anche se cerchiamo di stanarla lei riesce a riportare tutto nei discorsi già esplicitati nella cartella stampa a uso interno fatta circolare tra i giornalisti che dovevano intervistarla nella tornata promozionale per il suo nuovo album ora in uscita, Falling or Flying.
Però è proprio andando un attimo indietro nel tempo fino al 2016 e parlando di Blue Lights che, ehi, ci sono le prime incrinature interessanti: uno di quei momenti cioè in cui abbassa le difese e si inoltra, finalmente, in territori non predeterminati, in qualcosa che nel lungo, ben scritto e particolareggiato comunicato stampa ad uso interno non c’è. «Blue Lights è una canzone che ho scritto quando avevo 16 anni e, sinceramente, non avrei mai immaginato che anni ed anni dopo avrebbero continuato tutti a citare quel pezzo e chiedermi perché l’avessi scritto: come sono stata insomma così coraggiosa e sensibile da affrontare un tema così importante. Io quella canzone l’ho scritta e l’ho cantata e basta, mi è venuta di getto, stop; mentre sembra quasi che avessi calcolato scientificamente che quello sarebbe stato un primo passo per qualificarmi come cantante conscious della nuova generazione, in un momento in cui c’era il bisogno di trovarne una. Ma quando mai. Ogni tanto ho davvero l’impressione che la gente costruisca troppi retroscena e veda dietrologie senza senso… A volte è tutto molto più semplice e spontaneo di quello che sembra o di quello che si dice: questa è la verità». La conclusione poi di questo discorso è molto interessante: «Ad ogni modo, se anche qualcuno prova a dirmi che dovrei continuare su un filone impegnato di songwriting – e c’è chi l’ha fatto – a me non interessa: non è una opinione o una richiesta che tengo in considerazione. È la fortuna di essere un’artista libera, non sotto contratto».
Una mezza anomalia di Jorja Smith è in effetti non essere ufficialmente sotto contratto per nessuna major. Vero. Lei lo ripete molto spesso, con notevole puntiglio ed entusiasmo, durante la nostra conversazione. Esempio perfetto della nuove generazione di artisti che, anche senza il bacio accademico di un contratto con una major, riescono comunque ad entrare nel salotto buono del pop più ricco e globale, facendo numeri veri e ottenendo riconoscimenti veri. «È una cosa di cui sono molto orgogliosa: non ho mai pensato di fare in altro modo. Questo era il tipo di strada che volevo, essere cioè un’artista libera, non legata a una grande etichetta discografica». Poi, un lampo di autocritica e autoironia: «Magari faccio così solo perché ho paura di sentirmi dire dei no: metti mai che arriva il giorno in cui sì, decido che è il caso di legarsi ad una casa discografica per avere la vita più comoda sotto mille punti di vista, e poi però niente, nessuna di loro mi offre un contratto decente…».
Un altro momento interessante di autoanalisi arriva parlando dell’argomento Londra-non-Londra, ovvero il fatto di essere tornata a vivere in provincia, nella natìa Walsall, con annessa un po’ di mezza delusione verso la vita nella capitale («Ma tanto Londra dista un paio d’ore di treno: quindi che problema c’è»). È qui che riusciamo a strapparle un’ammissione un po’ più personale e meno prevedibile: «I primissimi tempi che sono arrivata a Londra, eh, quello sì che è stato il periodo migliore. Lì sì. Poi però da quando ho iniziato ad avere delle storie e a mettermi in coppia, beh, lì le cose hanno iniziato ad andare male…». Ah. E come mai? «Come mai? Guarda, credo che Londra non sia fatta per stare in coppia: io mi incaponivo a farlo, ma non è davvero la città giusta per costruire delle relazioni. Boh, mettiamola così: col senno di poi, scopri che anche dagli errori si impara – infatti ora eccomi di nuovo a casa, a Walsall, e ne sono felicissima. Era in realtà normale che a 18 anni pensassi fosse drammaticamente necessario abbandonare la provincia e venire nella grande città, d’altro canto tutte le mie amiche e compagne di scuola stavano abbandonando Walsall per andare a Londra o altrove all’università. Ma ho capito che questa esigenza è bella che andata. Ora, a 26 anni, e che inizio a sentirmi una giovane donna e non più una ragazzina, sto benissimo dove sto. Più ancora di quanto credessi, sai? Anche perché penso di essere molto più centrata come persona, pur coi miei soliti alti e bassi».
«Quando è uscito Lost & Found io non avevo chiaro in mente cosa stessi facendo, a essere sincera. O meglio, non capivo se fosse una cosa fatta bene o fatta male, continuavo a passare da un estremo all’altro nel darmi una risposta a questa domanda che mi facevo di continuo. È stato insomma un periodo strano, quello dell’uscita del mio primo album. Non so se me lo sono goduto appieno. Di sicuro la mia ancora di salvezza e consapevolezza erano i concerti che facevo: ne facevo tanti, tantissimi. Amavo farli. E vedere che ad ogni data c’era sempre un po’ più gente, mi aiutava a convincermi che forse ero nella direzione giusta».
Oggi un certo tipo di ancoramento, di misurazione del sentiment verso quello che si fa, molti artisti pop (e non solo pop) lo trovano prima di tutto nei social, nella misurazione di quanti like o cuoricini raccolgono ad ogni post, e di quanto commenti adoranti si susseguono sotto una foto o un video. Tu? «Anche qua passavo da un eccesso all’altro», spiega. «Andavo da fasi in cui leggevo tutto e rispondevo pure parecchio ai commenti ad altre in cui invece ero completamente disinteressata. Però sono profondamente convinta che la vita vera conti molto di più dei social: è molto più importante una faccia di una persona che vedi davanti a te mentre stai cantando di un commento pubblicato sotto una tua foto su Instagram. Di questo ne sono convinta. La vera misura delle cose è esibirsi dal vivo, e vedere se lì riesci a conquistare le persone. È lì che si misura la musica, l’artista. Non altrove». Bello. Riuscirai a mantenere questa serenità di giudizio anche per Falling or Flying? Come potresti cioè prendere delle eventuali critiche negative on line su questo album da parte non tanto dei giornalisti quanto dei fan? «Oh, ci penserà mio padre a dirmi se il disco sta piacendo o meno alla gente sul web», ride di gusto. Poi si ricompone: «Ma a me continuerà ad interessare di più come saranno i live, quanta gente verrà ai concerti, come reagirà. Lì capirò se ho fatto un buon lavoro o meno».
Sull’album nuovo in sé, i discorsi iniziano in maniera molto prevedibile: «Io non faccio musica per entrare nelle classifiche, io faccio musica per esprimere le mie emozioni. È così che nascono le mie canzoni». Ok, ok. Proseguendo, si esce per fortuna dalle dichiarazioni di principio un po’ facili e si entra invece in considerazioni più interessanti. «Questo album nasce prima di tutto dall’esigenza di fare musica con delle amiche di vecchissima data, che per inciso sono anche diventate delle produttrici eccezionali, le Damedame*. Le adoro perché trovo siano riuscite a trovare un suono che sia veramente loro. E che era esattamente quello che stavo cercando. Abbiamo iniziato a fare un po’ di jam assieme: è così che piano piano sono nate le canzoni. Abbiamo lavorato molto d’istinto: se lo spunto iniziale ci convinceva subito allora ci lavoravamo sopra, altrimenti buttavamo tutto, e ricominciavamo da capo».
Le facciamo notare che affidarsi un duo di compaesane semisconosciute per la produzione di un proprio disco potrebbe essere un autogol micidiale o, comunque, qualcosa che potrebbe far inorridire tutti i cultori del buon manuale su come si fa un disco pop che funzioni: dove sono i produttori di grido? Dove sono quei nomi dei credits che fanno da garanzia – vera o supposta – che un disco diventi davvero un successo globale? «Guarda, forse in passato è successo che qualcuno, tipo chi mi ha messo sotto contratto con le edizioni, provasse a dirmi “Ma no guarda, forse è meglio se fai così, forse è meglio se ti fai produrre da gente che ne sa e che ti garantisce di fare le cose bene”. Ma hanno capito in fretta che non c’è storia. Non con me. Faccio a modo mio, gli piaccia o meno: capisci qual è il grande privilegio di non essere messo sotto contratto discograficamente?». Il discorso, appunto, ritorna. «Nessuno può importi di fare quello che non vuoi, quello cioè che non senti come tuo. Lavorando a Falling or Flying non ho avuto nessun, come dire, rumore di fondo. Capisci? Io so cosa mi piace e cosa non mi piace; e questo disco, beh, mi piace un sacco. Spero che piacerà anche alla gente».
Non hai un po’ d’ansia, un po’ di preoccupazione? «No. Io vado in ansia solo quando vedo che mi mettono addosso intenzioni, calcoli ed idee che in realtà non ho. Quello sì che mi mette in ansia. Il resto, chi se ne importa. Davvero».
Resta il tempo per un ultimo lampo significativo. A un certo punto, il discorso scivola in modo spontaneo e inevitabile sul discorso dei propri riferimenti più importanti – sì, lo sappiamo, un luogo comune giornalistico trito e ritrito, la domanda più banale del mondo da fare a un artista. Infatti lei inizia la litania con voce improvvisamente annoiata, manca solo che sbuffi tirando poi uno sguardo verso l’alto: «Allora. Amo Amy Winehouse, Rihanna, Frank Ocean, Alicia Keys…». La fermiamo subito: no Jorja, no, non voglio sapere le solite cose che hai già detto mille volte a tutti parlando delle tua grandi influenze musicali. In realtà quello che mi interessa è diverso: è un nome, anche non scontato, che più ancora che per la musica ti abbia influenzato per l’attitudine. Un riferimento insomma un po’ più personale, meno scolastico. Improvvisamente l’aria cortesemente annoiata muta in un vigile interesse. Si prende una pausa, anche abbastanza lunga. E poi risponde, secca: «Jai Paul».
Proviamo ad affondare il colpo finale, approfittando di questo momento in cui abbiamo realmente catturato la sua attenzione e la sua empatia: ma tu, Jorja, alla fin fine sei un’artista pop? È corretto definirti tale? «Fate quel che volete. Definitemi come volete». Pausa. «Anche perché il termine pop ha tante di quelle accezioni…». Altra pausa. «Ma davvero: definitemi come volete. Che la gente dica quel che vuole. Del resto, anche io dico e faccio quello che voglio…». E giù un sorriso finalmente mefistofelico, lontano da ogni canovaccio, vicino a quello di una ragazza molto, molto brava e naturalmente vicina allo spirito dei tempi che però non ha ancora capito bene dove vuole posizionarsi – e fino a che punto vuole accettare che siano gli altri a posizionarla per farle fare più strada e più numeri possibile.