Non pensate neanche per un secondo di dire a Josh Homme che il rock è morto. Sul serio, non fatelo. Perché potrebbe prendervi a pugni, e non sarebbe certo una bella esperienza. Ha 44 anni, sì, ma è sempre un tipo bello grosso, con quei capelli rossi che lo fanno somigliare a un felino incazzato più che a un Ed Sheeran qualsiasi, con giusto un tocco di swag a-là-Elvis.
E, a quanto pare, qualcuno dai piani alti ci ha provato a dirgli una cosa del genere. È successo qualche anno fa, prima che i Queens of the Stone Age lasciassero Interscope Records per l’indie label Matador, prima che Mark Ronson iniziasse a produrre il nuovo Villans, l’ultimo album della band uscito proprio oggi.
Sono da poco passate le 11 di un lunedì di luglio, e Homme sorseggia una tequila di lusso nel quartier generale della sua etichetta. Mentre mi racconta lo scontro con Interscope sorride beffardo, non fa niente per nascondere la sua soddisfazione. «Quello era uno che pensa “Non mi succederà mai niente, posso dire quello che voglio”, uno di quelli lì. Ma io gli ho fatto capire che tutto può cambiare nel giro di pochi secondi, proprio a seconda di quello che avrebbe fatto uscire dalla bocca. Non è una cosa così folle».
E io non so se Homme sia pazzo sul serio. Qui, a pochi metri di distanza, fa sembrare tutto molto ragionevole, anche i due (o tre) drink che hanno illuminato la nostra mattinata. «Questa tequila è così dolce», mi dice. «Perfetta per fare colazione». Homme sa piegare l’universo ai suoi desideri. E se questo significa cacciare qualche musicista dalla sua band – anzi, quasi tutti, come è successo nell’ultimo decennio -, affronta la cosa in grande stile. «Ho licenziato il mio migliore amico», spiega parlando di Nick Olivieri, il bassista che ha suonato con lui anche nei Kyuss. «Tu saresti capace di fare una cosa così? È difficile. Ma proteggere questa band significa distruggere altre cose. A volte ti rendi conto di essere bravo in qualcosa che non ti piace per niente. Io ho un grande talento, so dire le cose che nessun altro vuole dire».
Fa una pausa. «Non sono molto coerente», mi dice. «Ieri sera ho preso una brutta sbronza». Se l’è presa durante la premiere di American Valhalla, il documentario che racconta la sua esperienza di produttore per l’album di Iggy Pop (un breve riassunto: Iggy voleva farlo con lui, a tutti i costi). Ma insomma, la mattina dopo sei in hangover, di certo non ancora sbronzo. «Lo so com’è il doposbornia, lo vedo benissimo proprio ora». Ma torniamo al rock. «Io sono felice che la gente pensi che sia tutto finito. Siamo la band perfetta per la fine del rock. In realtà è l’industria discografica che è morta, non il rock. Il rock sta benissimo. La musica sta benissimo. Sono molto felice dell’epoca in cui vivo».
Josh Homme ha schivato molti proiettili durante la sua carriera, è riuscito a vivere la sua vita rock & roll senza grosse conseguenze e, soprattutto, senza mai scegliere la sobrietà. «Non sai dov’è il limite finché non lo superi», dice. «Diciamo che impari a gestirti, cerchi di non far pesare a nessuno la tua merda… Vuoi un altro sorso?».
L’industria discografica è morta. Il rock sta benissimo. La musica sta benissimo
Ha una moglie meravigliosamente rock & roll – Brody Dalle dei Distillers – e cresce i suoi figli («quei nani che girano per casa mia») nella maniera più ribelle possibile: «Trova il centro del tuo essere e inseguilo senza fermarti un secondo. Per farla breve, trova una vita che vuoi vivere e non fartela portare via da nessuno. Ci sono un sacco di cose “da non fare”, qualcuno aggiorna la lista ogni giorno. Segui quelle regole solo se sei controllato, poi fregatene e vivi come ti pare. Nessuno deve dirti cosa è vero e cosa no. Io sto crescendo dei mostri, dei terroristi della normalità».
E la stessa cosa ha fatto con Villains, un album che in molti definiranno come il migliore del catalogo dei Queens of the Stone Age: a partire dal crescendo di Fortress, scritta da Homme per la figlia 11enne, fino al caos ballabile di The Way You Used to Do, un pezzo che in qualche universo parallelo sta spaccando le classifiche. È ispirato agli ZZ Top, a Cab Calloway e ai Misfits. «Un tempo ragionavo così», spiega Homme, «Se qualcuno ascoltando i miei pezzi fosse riuscito a trovare somiglianze con altra musica, smettevo di suonarli. Ora non mi preoccupo più di queste cose, nonostante la legge sul diritto d’autore sia diventata una merda per colpa di quel coglione di Robin Thicke. Un gran pezzo di merda. Ti riassumo la legge sul copyright: “Se il tuo pasto sa di pollo, allora sei un ladro di carne”. Grazie, testa di cazzo».
La maggior parte degli album scritti da musicisti di mezza età non sono granché, una considerazione che Homme trova seccante. «Il minimo che devi fare, se sei in una band per tutta la tua vita, è mettere tutto te stesso in ogni album. Il minimo».
Insegue qualcosa con la sua musica, lui lo descrive come un incidente d’auto a pochi millimetri di distanza, o come «una voce interiore… un’ispirazione». Mi dice che lavorare con Iggy gli ha permesso di sfiorare il suo obiettivo. Solo per un istante. «Ho scelto di non inseguirlo più», mi dice, «così forse riuscirò a raggiungerlo».