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Luca Carboni parla con Jovanotti del nuovo disco e del nuovo tour

Sono aperte le prevendite per il “Pop-up Tour”! Per prepararci alla nuova avventura con il cantautore bolognese ci siamo fatti aiutare dal suo sostenitore numero 1

Il 27 settembre 2015, alle ore 9 di NYC (le 17 di bologna), grazie ai potenti mezzi telematici messi a disposizione da “Rolling Stone”, le due pop star hanno chiacchierato a proposito di Pop-Up, l’ultimo album del cantautore bolognese.

Quella che segue è la fedele trascrizione di quanto si sono detti. Guarda qui sopra un estratto della conversazione.

La copertina di “Pop-up”, il nuovo album di Luca Carboni uscito il 2 ottobre 2015

 

Jovanotti Stiamo registrando?
Luca Carboni: Vai.

Jovanotti Vedi, io ho l’acqua minerale e tu hai la sigaretta. Sei un vero “maledetto”.
LC: Yeah!

J: Carboni, senti qua, sai che io sono pazzo di Luca lo stesso, il tuo singolo, come tutti del resto. L’Italia ti ha riscoperto, in massa! Sei contento?
LC: Sì! Ascolta, l’hai sentito il disco?

J: L’ho sentito due volte ieri. Il singolo centomila volte. L’ho cantato, l’ho ricantato. Piace a tutta la famiglia. Allora ti faccio una recensione, va bene?
LC: Sì.

J: I primi tre pezzi sono Muhammad Ali a Kinshasa. Pa-pa-boom, ta-ta-boom, k.o. Il disco, lì, mi ha già steso. Il primo pezzo è una bomba, il secondo è favoloso, il terzo è emozione e brividi. Poi bisogna fare una pausa… E il resto del disco è molto bello, se poi parti con tre singoli così! Ma come hai fatto?
LC: È stato bello fare questo album perché non ho vissuto l’ansia di finirlo. È stato fatto in un anno, lavoravo con GarageBand perché è molto semplice, io canto direttamente nel microfono del computer. Mandavo a Canova (il suo produttore) dei provini dove si sentivano non so, i grilli, le cicale o le onde del mare. L’ultimo pezzo, Invincibili, l’ho cantato al porto dell’isola d’Elba.

J: 
Ascoltandolo, ho pensato che in questo disco, ci sono, più che negli ultimi tuoi, delle analogie possibili con il tuo album del ’92 che poi è quello in cui c’è Mare mare, Ci vuole un fisico bestiale, Le storie d’amore. È il tuo Sgt. Pepper’s. (Risate)
LC: È il mio disco più popolare.

J: È anche il tuo album più venduto, quello?
LC: L’unico mio che ha superato il milione di copie. Gli altri ci sono andati vicino, e a volte lontano.

J: Hai la sensazione che anche questo appena finito abbia il potenziale di parlare a tanta gente? Io penso di sì.
LC: Mentre lo facevo, sentivo che aveva il potenziale pop, ma a differenza di quel disco del ’92 eravamo più indecisi sul singolo. Ci vuole un fisico bestiale ero convinto che fosse una bomba. Su Luca lo stesso, dove hanno collaborato Dario Faini e Tommaso Paradiso, mi sembrava di sì, ma non ero così sicuro.

J: 
Quando approcci un disco nuovo, lo fai già sapendo che grado di intensità nel rapporto col pubblico vuoi dargli, oppure è una cosa che viene da sé? Ti ricordi quattro anni fa, eravamo in una macchina a Bologna sotto un albero e tu mi facesti sentire due pezzi, che mi piacevano molto. Io però ti dissi: “Suonano come se tu non volessi sedurre nessuno”. Come se tu in qualche modo volessi dire “io sono qui, se volete venitemi a cercare”. Invece in questo disco ho trovato un movimento tuo verso gli altri.
LC: Io ho sempre alternato un disco dove sono andato molto esplicitamente a “cercare” e un disco dove mi piaceva essere trovato. Io mi sento molto più autore, il mio sogno è sempre quello di essere un autore di altri, di stare dietro.

J: 
Sei un performer tuo malgrado?
LC: Io vado sul palco con un po’ di sofferenze e timore. Il mio istinto sarebbe di non andarci. Anche con i dischi succede così. E nonostante io non abbia il desiderio di convincere gli altri a tutti i costi, non ho mai cercato neanche a 14 anni di scrivere solo una bella canzone, ho sempre cercato di creare una bomba.

J: Chi è il personaggio di cui parli in Bologna è una regola?
LC: Tutti mi chiedono chi sia, mi piacerebbe non dirlo ma… sì, è una donna.

J: 
Dimmi l’ultima volta che ti sei emozionato girando per Bologna…
LC: Ieri sono andato a passeggiare vicino a casa mia, ho cominciato a girare nei vicoli, quelli dei ricordi, di quando giravamo con Lucio con i nostri Ducati Scrambler. Il suo aveva le forcelle ribassate, sembrava quello di un bimbo, perché sennò non ci arrivava. E cazzo, mi sono emozionato a girare in queste strade.

J: 
Non ti sei mai stancato di essere Carboni?
LC: Sì! Ho avuto un momento intorno al 2000, dopo che è nato mio figlio. Quando sentivo dire “Luca Carboni” non sembrava più il mio nome, ma solo un oggetto. Mi faceva venire la nausea.

J: Hai avuto la sensazione di voler proteggere tuo figlio dal fatto che tu fai questo mestiere – che è un po’ un mestiere da baraccone, no?
LC: Sì.

J: Avresti voluto essere un radiologo… (Risate).
LC: Non so cosa avrei voluto essere. Adesso che mio figlio è più grande, mi piace l’idea che gli possa piacere una mia canzone. Però all’inizio non mi piaceva l’idea che fosse il figlio di uno che la gente fermava per la strada. Quindi sono scappato per un po’. Adesso sono pronto a tornare, mi piace anche l’idea che la mia musica l’ascoltino gli amici di mio figlio. Questo è stato il primo disco che lui ha vissuto sentendo anche i provini su GarageBand. Lui però è un tipo un po’ nerd, ascolta molto musica classica…

J: E tu glielo lasci fare? Sei pazzo! Non bisogna far ascoltare musica classica ai ragazzini! (Risate)
LC: Ah ah ah, sì!

J: Scherzo eh!
LC: Certo. Però, vedi, il pop proprio non è nella nostra cultura!

J: È una calamità del nostro Paese il fatto che chi racconta l’Italia non capisca il pop.
LC: Non a caso l’album si chiama Pop-Up, perché mi piaceva che venisse fuori il suono della parola pop. Nella nostra storia musicale moderna il pop arriva negli anni ’60, quando cantanti come Morandi, Celentano, i Dik Dik, i Camaleonti, i Nomadi rubavano dalla cultura anglosassone. Non nasceva qui. Poi siamo arrivati agli anni ’70, e anche per i cantautori se non ci fosse stata la canzone francese…

J: Quindi non c’è speranza?
LC: No, c’è speranza, perché la musica è contaminazione. E ci sono i giovani. Il pop è la gioventù!

J: Quando in America inventano i giovani, inventano anche il pop, no? I giovani sono un’invenzione della cultura di massa. Una volta uno era bambino e poi si sposava. Il mio babbo non è stato giovane. Io non ho una sua foto da giovane. Ho una foto da bambino e una da sposato, adulto. Fine. Senti, dimmi tre cose pop che ti piacciono molto.
LC: Il pop è ovunque. Ci metto anche il rock e tutto il resto. Da Lady Gaga agli U2…

J: Ecco, da noi questa cosa lascia perplessi, no? Poi penso che siamo qui su Rolling Stone proprio perché io ci credo che possa diventare un po’ cosi anche da noi.
LC: Sì, come negli anni ’80 che trovavi De Gregori o i Duran Duran sulle copertine!

J: Tu sei più cantautore… sei il più pop dei cantautori!
LC: Ringraziando i grandi cantautori degli anni ’70 per quello che ci hanno insegnato nel giocare, nel raccontare.

J: Però tu hai sempre avuto una voglia di modernità sonora. I tuoi primi dischi suonavano diversi rispetto a tutto quello che c’era in giro. Avevano un suono quasi new wave…
LC: Io mi sono sempre considerato un cantautore pop, essendo cresciuto con la new wave, tipo i Devo o cose come i Clash. Cose che mi han fatto pensare che nella musica italiana ci potesse essere una contaminazione pur lavorando sulla parola, che è comunque la cosa più bella del mondo. A me affascina lavorare sulla parola nella musica.

J: Questo disco l’hai scritto in maniera diversa rispetto al passato?
LC: Son stati due anni in cui ho scritto tanto e poi però non ero mai contento. Ho sperimentato molto, anche scrivendo con altri autori, lavorando sulle basi. Mi piaceva l’idea di contaminare il mio disco con altre sensibilità.

J: C’è sempre Dio nei tuoi dischi. Ho un pudore molto forte rispetto a quella cosa lì, quindi dimmi tu se vuoi parlarne…
LC: Sono cresciuto in una famiglia molto religiosa, mi hanno aperto la finestra verso l’ipotesi del divino, per così dire. L’ipotesi di un’entità con cui dobbiamo fare i conti è una cosa che mi è rimasta dentro pesantemente. Mi ci scontro ogni giorno.

J: In un pezzo scrivi: “Prego in una chiesa ma anche in una moschea e chiedo scusa…”.
LC: È ispirata a una poesia della Szymborska, la poetessa polacca che ha vinto il Nobel.

J: Nel discorso di accettazione del Nobel ha detto che la sua espressione preferita è “non so”. Vale anche per te?
LC: Chiedo scusa è proprio un inno al “non so”, alla difficoltà di accettare le grandi sentenze. Ho 53 anni e chiedo scusa al mondo se non l’ho cambiato. Questo è il concetto.

J: Secondo te bisogna essere giovani per cambiare il mondo?
LC: No, però ragioni sul tempo e su tutto quello che hai fatto da giovane. Ti volti e pensi – con dolore e sofferenza – a tutte le cose che non hai potuto fare. Non hai migliorato questo, non hai migliorato quello. Ho dormito tranquillo, mentre la gente non aveva la casa…

J: Vuoi bene all’Italia, Luca? Pensi che ce la possiamo fare?
LC: Io penso di sì. Vedo i ragazzi, mi piacciono. Avendo un figlio di 16 anni sono tornato al mondo dei teenager che avevo perso di vista per tanti anni. Sono migliori dei loro genitori, più aperti. Capiscono più cose, insomma.

J: Quello è un altro pianeta però, no? Non si può nemmeno fare un paragone. Negli ultimi 40 anni è cambiato tutto. Non so perché è cambiato, forse perché siamo nati noi. (Ride).
LC: Beh, forse l’abbiamo un po’ cambiato noi, il mondo. La nostra generazione.

J: Ieri sera guardavo la tv. Il papa a Cuba è arrivato in piazza e c’era un manifesto nella Plaza de la Revolución con Che Guevara e Madre Teresa. Cazzo, ma c’ho io il copyright di quella roba, no?
LC: Ed eri stato anche accusato di blasfemia!

J: Sì! E lì c’era il papa davanti a questo manifesto, a un pezzo di una mia canzone! Quando tu cantavi “ci vuole un fisico bestiale” anticipavi uno scenario in maniera istintiva, ma aderente ai cambiamenti che sarebbero arrivati. Era come dire: “Ragazzi, andiamo incontro a un mondo senza sicurezze, quindi ci dobbiamo strutturare individualmente un po’, le ideologie che valgono per tutti non funzionano”. Quando Gaber scrisse La mia generazione ha perso, io pensai che la mia non ha perso. Mi sbagliavo, in realtà poi tutte le generazioni perdono, perdere è la prerogativa di una generazione. Ma è perdendo che cambi il mondo, non trionfando, è facendo la tua parte, non imponendola agli altri.
LC: Una generazione non vince e non perde. Una generazione fa quello che ha potuto fare. Però puoi avere il dubbio. C’è il giorno in cui pensi di non avere fatto tutto quello che potevi fare. Poi il mio disco finisce con Invincibili che parla proprio del fatto che si cerca di cambiare il mondo anche attraverso le canzoni d’amore. Io le sparo fino a vuotare il caricatore, perché è quello che mi viene di fare. Per migliorare il mondo, me stesso e per dare agli altri qualcosa di forte, che poi è l’amore. Invincibili riassume un po’ tutto il disco.

J: L’amore. Se lo dici non suona, se lo canti funziona. A me una volta Zucchero disse: “Oh, io vado fiero di non aver mai detto ‘ti amo’ dentro una canzone”. Sbagliato! (Ridono)
LC: Metterlo dentro una canzone è la cosa più libidinosa che si possa fare.

J: Qual è la tua canzone preferita nella storia?
LC: Non lo so. Non ce n’è una. Tu? quale delle tue?

J: Delle mie non so. Bella forse, perché è una canzone d’amore. Delle tue la mia preferita è… beh, in questo disco ti sei dato da fare per bene. Potrebbe anche essere dentro questo disco. Luca lo stesso la considero una canzone quasi perfetta. Tu hai fatto dei pezzi pazzeschi, te ne rendi conto?
lLC: Ci sono pezzi che mi sembrano molto forti, però non credo di avere il merito completo. È roba che ti arriva dentro, non puoi prevederlo. E quindi, dato che già un attimo dopo non so nemmeno io come rifarla, non posso prendermi troppi meriti! Però mi rendo conto che nei miei dischi ci sono delle canzoni pazzesche. Chi me le ha date, che antenne hanno lavorato, chissà!

J: Io le ho prese nello stesso posto dove le hai prese tu, anzi una te l’ho rubata. Quando scrissi Penso positivo ti rubai paro paro: “quest’onda che va/nana-nana/che viene e va.” Mi perdoni?
lLC: Perdonato!

J: Tu non mi hai rubato un cazzo! Non mi hai mai rubato niente no? Pensaci bene! (Ride)
LC: (Ride) Ci penso, ma non mi sembra…

J: Mi hai rubato il produttore!
LC: Ti ho rubato il produttore adesso, sì!

J: Quello è un furto interessante. Io vorrei rubare dei versi di Manzoni, così concludiamo in poesia. Te li leggo, li ho qua. Sono nel mio periodo “Manzoni”. Manzoni era fantastico. Eccola.

Tu sì che a noi t’ascondi:
L’occhio ti cerca invano;
Ma l’opre di tua mano
Ti svelano, o Signor.
Tutto del tuo gran nome
In terra, in ciel, favella;
Risplende in ogni stella,
È scritto in ogni fior.

Sono due quartine perfette! Ti va bene come chiusura dell’intervista?
LC: Sì. Sono molto contento.

J: Siamo amici, ci conosciamo da una vita, ti considero un fratello però questo non mi impedisce di essere un tuo ammiratore. Il tuo disco è bellissimo. Ti auguro uno strepitoso anno e mezzo che poi è l’anno di vita di un disco, il tempo che passiamo ad accompagnarlo in giro. Poi dopo, se Dio ce la manda buona, è ancora meglio. Oh, abbiamo registrato, sì?

Questo il calendario del Pop-up Tour:

18 febbraio – Fabrique – Milano
20 febbraio – Teatro della Concordia – Venaria Reale (To)
23 febbraio – Supersonic Arena – San Biagio di Callalta (Tv)
25 febbraio – Vox Club – Nonantola (Mo)
27 febbraio – Atlantico Live – Roma
28 febbraio – Casa della Musica – Napoli
1 marzo – Demodè – Modugno (Ba)
8 marzo – ObiHall – Firenze

Questo articolo è pubblicato su Rolling Stone di ottobre.
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