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Junior Cally, quante ‘Deviazioni’ hai?

Il titolo di questa intervista cita Vasco, ma anche l'album che segna il ritorno alla musica di JC dopo il folle periodo post Sanremo 2020, tra alcol, ossessione per il sesso, soldi buttati e l’aggravarsi del disturbo ossessivo compulsivo. Rap e rehab l'hanno salvato (di nuovo). Qui racconta tutto

Foto: Sebastiano Fernandez

Pensate di arrivare a Sanremo dopo tanti sforzi per portare la vostra musica al grande pubblico, ma di essere costretti soltanto a rispondere alle polemiche. E subito dopo, quando avreste potuto far conoscere davvero chi siete dal punto di vista artistico, vi chiudessero in casa per mesi.

È quello che ha vissuto Junior Cally, all’anagrafe Antonio Signore, e per lui è stato devastante. Soprattutto perché ha trovato la via più semplice, e pericolosa, per sfuggire dai pensieri negativi: buttarsi nell’alcol. Ne è seguito un periodo folle, tra sbornie colossali, sesso occasionale anche con tre-quattro ragazze al giorno, spese incontrollate («dai 50 ai 60 mila euro in tre mesi») e l’aggravarsi del disturbo ossessivo compulsivo di cui soffre dall’adolescenza. Non solo, perché è stato costretto persino ad annullare l’uscita di un album per seguire un percorso di rehab.

Ecco, quindi, che l’attuale disco Deviazioni ha un significato particolare. Ce lo ha spiegato in questa intervista dove ripercorre le sue origini in un piccolo paese dal quale scappare, il delirio post festival e la rinascita con il rap che, in fondo, lo ha salvato ancora una volta.

Dopo aver cancellato il precedente, sei tornato con un nuovo album, Deviazioni. Cosa rappresenta in questo momento della tua carriera?
Ha un significato particolare. Questo è l’album della rinascita, anche perché è strettamente personale per gli argomenti che ho trattato. Esce dopo aver annullato un altro disco nel 2021 e quindi sono dovuto tornare in studio, per scelta, ma ricominciando tutto da capo. Sono contento del risultato, credo si potranno rispecchiare tante persone. Diciamo che è un punto di ripartenza.

Il primo singolo è Sulla pelle mia, che traccia fin da subito l’immaginario del disco.
Sì, sono tutte storie strettamente personali o che riguardano persone coinvolte con me, come mio fratello a cui è ispirato questo brano. Poi racconto amori passati e tormentati e vicende che mi hanno fatto soffrire o emozionato.

A livello musicale hai avuto qualche influenza particolare?
Ho sempre cercato di non cadere nel flusso di tendenza. Nel 2017 andava la trap, quando ho iniziato a emergere, forse qualcosa ho preso anche da quello ma il pezzo con cui mi sono messo in luce era su cassa dritta, non proprio di moda in quel periodo. Tendenzialmente non ascolto musica nella fase creativa, per non esserne influenzato. In generale ascolto tanto pop. Nell’ultimo periodo molto Tiziano Ferro, così come in passato moltissimo di Caparezza e Fabri Fibra, che li sento a prescindere, tanto se dovevano influenzarmi l’hanno già fatto da tempo.

Il grande pubblico ha cominciato a conoscerti da Sanremo 2020, dove però sei stato investito da un mare di polemiche. Guardando indietro, quel festival pensi ti abbia fatto più bene o più male?
Se non fosse arrivato i Covid avrei avuto modo di riuscire, a prescindere dalla critiche, a farmi conoscere per quello che sono realmente. Ci sono stati tanti casi di artisti criticati, anche arrivati ultimi, che hanno avuto modo di raggiungere il grande pubblico e poi trovare il successo. A me personalmente Sanremo ha fatto solo male. Dopo un percorso di problemi personali e terapia credo di non averlo mai fatto quel festival. Non l’ho vissuto, non ho portato la musica, solo le polemiche altrui, e l’ho passato a difendermi da qualcosa di inesistente.

Una immagine che se chiudi gli occhi ti appare di quel Sanremo?
Un muro gigantesco che mi costringeva a passare le giornate a rispondere a domande su argomenti che non c’entravano niente con la mia presenza artistica. Ho parlato di tutto tranne che di musica. Mi ha fatto davvero più male che bene, soprattutto con l’arrivo della pandemia.

Una critica che ti ha particolarmente ferito?
Ho sempre combattuto contro il pregiudizio e di solito mi scivolano addosso le critiche, ma lì non era solo un pregiudizio, ma qualcosa di enorme che ha toccato anche i miei familiari. Quello che mi ha fatto più male è il pensiero dei miei genitori, che vivono in un paesino, che dovevano subire questo stress. Alla fine chi mi conosce si è fatto una grande risata, ma chi non ci conosceva si è fatto un’altra idea. Addirittura hanno chiesto di togliermi la residenza nel comune. E poi c’è il dispiacere di non aver fatto l’artista ma quello che si difende dalle critiche.

A Sanremo 2020. Foto: Daniele Venturelli/Getty Images

Hai ricordato di essere originario di un piccolo paese, Focene. Com’è stato crescere lì?
Quando ero piccolo non arrivava ai 2000 abitanti, oggi è fra i 3000 e i 4000. Ricordo che non potevi uscire da lì, perché con il mare alle spalle hai da una parte Fiumicino e dall’altra Fregene, ma per un ragazzino non sono facili da raggiungere. Il problema è che i genitori non ci permettevano di andare in giro per chilometri su strade buie in mezzo alla campagna e nei pressi di un aeroporto. Per cui te ne stai chiuso in quella bolla e non vedi nient’altro. E di conseguenza il tuo sogno fai fatica a portarlo fuori.

In quella condizione è più facile anche cadere negli eccessi?
Focene è un posto a due facce. Fortunatamente durante l’adolescenza avevo altri interessi e nel giro della droga non ci sono caduto, però avevo amici che a 18 anni stavano chiusi in casa tutto il giorno con la cocaina. Le canne da noi si iniziano a fumare a 12 anni. Fai tutto prima perché d’inverno è un luogo terribilmente noioso. D’estate invece si trasforma nel posto più bello del mondo. Ancora oggi ho un rapporto di amore e odio con il mio paese. Mi manca da morire, ma quando torno dopo quattro giorni mi viene già la voglia di scappare. Però è lì che ho cominciato, da quando a 14 anni ho smesso di giocare a calcio per una presunta leucemia.

Ricordi le prime rime che hai scritto e fatto sentire a qualcuno?
Quando modificavo le canzoni pop e le cantavo a scuola, ero in terza media. Tutti ridevano. Così ho provato a farne una mia e faceva davvero schifo, erano più belle quelle modificate. Da lì però ho coltivato quella ispirazione. Non a caso ho registrato questo disco in una casa a Focene nel gennaio 2022.

Ah, quindi è un po’ come se volessi ripartire da dove tutto è cominciato?
Sì, perché proprio in quella casa è successo qualcosa di significativo. Avevo circa 23 anni, da tre anni avevo smesso di fare rap. Mi lascio con la ragazza dell’epoca e vado a casa di questo amico. Una sera siamo io e lui alle 5 del mattino a giocare a calcio in giardino e lui mi fa: «Ma perché non ricominci a rappare che eri bravo?».

E da lì sei ripartito?
Mi sono detto: sai che c’è, magari c’ha ragione! Per registrare questo disco ho chiesto proprio a quell’amico se poteva prestami la casa ed è stato con me tutto il mese di lavoro.

Quando hai capito che il rap sarebbe diventata la tua strada?
Ci sono stati due momenti. Il primo a 18 anni, quando ho partecipato alla mia prima battle freestyle. Aprivano le porte alle 18, pagavi il biglietto, avevi un minuto di esibizione e soltanto la notte scoprivi se eri stato selezionato. Ci ho provato e mi hanno selezionato, arrivai in semifinale. In quel momento non dico di aver capito che ce l’avrei fatta, però mi sono innamorato totalmente del genere, dell’ambiente hip hop, dello stare insieme e conoscere gente di tutta Italia. Infatti mi sembra di aver fatto parte della generazione ponte tra due epoche.

Quella del salto dall’underground e il mainstream?
Sì, da quando il genere non era considerato e ci guardavano come reietti all’ingresso nel mainstream. Anche se non ero famoso ho vissuto la stagione dell’hip hop di cui parlano Marracash, Guè Pequeno o Fabri Fibra, vengo da quelle situazioni lì.

A 18 anni ti sei appassionato e capito che ci sapevi fare, ma quando hai percepito che sarebbe diventato anche un lavoro?
Una sera che mi invitano a un live dopo quattro giorni dell’uscita di Magicabula. Ricordo che presi 400 euro, dei quali 200 li usai per comprare delle scarpe e 200 li diedi a mia madre per acquistare giocattoli per l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Palidoro. Ma è appena sono salito sul palco che ho capito, perché tutti conoscevano Magicabula a memoria. In quel momento ho detto «ce l’ho fatta» e non solo «ce la posso fare». Ero sicuro che da lì in poi sarei stato in grado di tenere duro. Ricordo anche il primo autografo quella sera, non so neanche cosa ho firmato perché non me lo aspettavo.

Poi è arrivato anche il lato oscuro del successo. Dopo Sanremo, come hai già raccontato pubblicamente, sei caduto in un vortice di eccessi. Qual è stato il momento peggiore?
Una notte che c’era ancora il coprifuoco. Sono tornato a casa talmente marcio che mi hanno dovuto portarmi di peso ed è stata costretta a farmi la doccia la mia ragazza perché da solo non ero in grado. Non riuscivo a reggermi in piedi. Ricordo questa conversazione del giorno dopo con lei, io chiedevo se avessi fatto casino e naturalmente avevo oltrepassato ogni limite. E lei mi disse: «Guarda che così non ce la faccio e va a finire che finisce la nostra storia, ma anche tu finisci male». A quel punto ho provato vergogna. Ho pensato: ma che schifo fai? Ma riprenditi, hai solo 30 anni, ti vuoi ammazzare così? Quello è stato il momento più basso, ma in generale era un periodo pessimo.

Oltre all’alcol, hai ammesso che anche il sesso è stato un problema in quel periodo.
È stata una lotta che ho affrontato dopo Sanremo. Ho iniziato a bere sempre di più, perché nella mia testa ronzavano mille pensieri strani, in particolare questo: possibile che una volta che arrivo a Sanremo adesso mi chiudono in casa? Era scattato il lockdown e quando hanno riaperto tutto sono impazzito, ho speso tra i 50 e i 60 mila euro dal 18 maggio al 28 agosto. Quella estate andavo a letto con le ragazze in modo compulsivo, ma era un atteggiamento dettato dall’alcol.

E anche dal disturbo ossessivo compulsivo di cui hai detto di soffrire da quando sei adolescente?
Sicuramente, ne soffro da quanto ho 17 anni ma con l’alcol è stato devastante. All’inizio, quando sono diventato noto, ho cercato di nascondere i problemi, solo che è arrivata la pandemia ho iniziato a svalvolare. Non avevo nulla da fare e mi sono ronzate in testa mille domande. E così bloccavo il disturbo ossessivo compulsivo con l’alcol, solo che l’alcol mi portava agli eccessi sessuali.

Quando parli di eccessi sessuali a cosa ti riferisci di preciso?
Di stare con tre-quattro ragazze al giorno. Era estate, nessuno lavorava, io uscivo da Sanremo, era l’unico anno in cui ero single, si sono riaperte le discoteche, così mi ritrovavo a letto ogni giorno con ragazze diverse, anche contemporaneamente. Ma quando arrivi a questo livello non è più un piacere. Per fortuna mi sono accorto che c’era un problema. Con lo psicologo abbiamo capito che dipendeva dall’abuso di alcol. Perché spesso neanche ero io a volerlo, sembravo di tutti, mi lasciavo andare e dicevo sì a qualsiasi situazione.

Foto: Sebastiano Fernandez

Di quel periodo c’è una voce che girava nell’ambiente poco prima del tuo rehab e che riguarda la Nazionale cantanti. Si diceva che Enrico Ruggeri ti avesse escluso perché ti eri presentato in condizioni non idonee, per usare un eufemismo. Ti va di chiarire anche questo?
Qualcosa è successo, ma non questo. Ho partecipato solo a un ritiro della Nazionale cantanti e non ero aggregato a loro, ero con dei giovani emergenti. È stata la mia unica apparizione, perché c’erano cose su cui eravamo in disaccordo. Diciamo che non ho deciso di non andarci più, ma non l’ho più cercata come situazione. Anche perché non mi ha mai particolarmente interessato. Ci tengo di più al progetto al quale partecipo adesso.

Di cosa si tratta?
Faccio parte della Play2Give, una squadra di Terza categoria che partecipa a eventi a scopo benefico. Si fanno anche due allenamenti a settimana più la partita la domenica in campionato e ci sono alcuni che sono nella Nazionale cantanti. Ho sempre partecipato volentieri alle iniziative benefiche, però preferisco una situazione come questa dove si fa davvero tanto sport.

Hai detto a Rolling Stone che sei un deluso dalla politica. Non è cambiato niente?
Più che deluso io ho paura di tutti. Non riesco a non averla sulla politica, sembra sempre che ci sia qualcosa dietro che non sappiamo. Sarò paranoico io, ma non riesco a fidarmi. Non so come andrà questo governo, posso solo augurarmi che faccia bene. Anche se in ambito politico non mi sento rappresentato da niente e da nessuno.

Oltre al disco per te è il momento di tornare sul palco. A gennaio 2023 hai in programma due date speciali a Roma e Milano. È un po’ che non ti capitava.
È da febbraio 2020 che non canto live, da quel famoso Sanremo. Sono felicissimo e posso dire che tornerà la maschera, perché è una parte di me troppo forte che va utilizzata anche in modo scenico. Stiamo preparando uno show aggressivo in termini di intrattenimento e non vedo l’ora di stare sul palco base e voce per rappare.

C’è chi sogna di riempire San Siro o chi di avere successo in tutto il mondo. Qual è oggi il sogno  di Junior Cally?
Stare bene di salute e vivermi le cose con più naturalezza possibile. Mi piace essere sempre occupato, amo lavorare, ho appena aperto un centro sportivo con altri soci a Milano, quindi l’augurio che mi faccio è di rimanere impegnato, imparare cose nuove ed essere felice.

Che potrebbe essere anche meglio di riempire San Siro se uno è infelice.
Anche secondo me. E magari il resto arriva di conseguenza.

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