Ironia della sorte, la caccia alle streghe di cui l’anno scorso è stato protagonista Junior Cally partiva da una traccia intitolato proprio Strega. Ve ne avevamo estensivamente dato conto, ma per chi si fosse perso le puntate precedenti: nel 2020 il rapper, ben conosciuto agli appassionati del genere ma ignoto al pubblico del pop, si era presentato in gara con il brano No grazie. A pochi giorni dall’annuncio della sua presenza, però, qualcuno aveva scoperto che (come tutti i rapper, d’altra parte) in alcuni brani passati, e in particolare in Strega del 2017, aveva utilizzato in modo metaforico un linguaggio esplicito e a tratti sessista. Da lì era partita una valanga che in pochi giorni aveva travolto tutto e tutti, fatta di lettere aperte firmate da parlamentari bipartisan, irritazione da parte del presidente della Rai Marcello Foa per la sua presenza sul palco dell’Ariston e una shitstorm da manuale sui social. Il verdetto era unanime: Junior Cally era un pericoloso violento e misogino.
Apparentemente, nonostante la débâcle sanremese, il rapper nel frattempo si è ripreso alla grande: negli ultimi mesi ha scritto un romanzo, Amore di mezzo, da cui è stato tratto un podcast e un omonimo singolo. «Il romanzo l’ho scritto a marzo, quando non riuscivo più a fare musica dopo il trauma di Sanremo. Mi ha dato il coraggio di scavare dentro il mio passato e mettere un po’ di me in ciascuno dei personaggi. Il concetto è che, se cresci in certi posti, è come tirare una monetina: se esce testa ti porti a casa la pelle, se esce croce no», ci racconta al telefono. «Il singolo è stato una logica conseguenza, e anche quello è nato in un periodo non proprio felice per me, perché ero a casa con il Covid. Sono stato chiuso dentro per 40 giorni, non mi negativizzavo mai».
Dopo Sanremo, l’ultima cosa di cui aveva bisogno era un lockdown, racconta ridendo. «Ormai non ricordavo neanche più come si faceva a scrivere una canzone, ero passato da una grossa batosta psicologica a una ancora più forte. Oltretutto, prima del Festival avevo avuto un incidente bruttissimo in cui mi ero rotto una vertebra e due costole, quindi è stata davvero dura processare tutte queste cose. Oggi rido, ma ti assicuro che per un bel po’ non ci sono riuscito».
Ed eccoci qui, un anno dopo, a parlare ancora dell’affaire Junior Cally.
Il mio è stato un caso mediatico senza pari, nella storia del Festival. Credo di aver messo per la prima volta d’accordo tutta la politica italiana, li ho uniti nel comune obbiettivo di distruggermi. A un certo punto il mio nome aveva più ricerche su Google di quello di Cristiano Ronaldo o delle notizie sul Covid.
Quando ti sei accorto che stava succedendo qualcosa di anomalo?
Dopo l’annuncio della mia partecipazione sono finito in trending topic su Twitter, perché ero ancora un nome relativamente sconosciuto e la gente voleva scoprire chi ero: tutto normale, insomma. Il 16 gennaio, però, quando i giornalisti hanno fatto gli ascolti in anteprima dei brani in gara, sono rientrato all’improvviso in tendenza. Incuriosito, sono andato a leggermi qualche tweet e ho trovato quello che aveva scatenato tutto: una persona – che preferisco non nominare, visto che a causa sua adesso ho dei precedenti penali – si scagliava contro di me chiedendo la mia squalifica, in quanto ero un misogino e promuovevo la violenza contro le donne.
In che senso, hai dei precedenti penali?
L’ho scoperto per caso l’estate scorsa, a un posto di blocco. Quando mi hanno chiesto se avevo mai avuto problemi con la legge ho risposto che mi risultava solo una bravata nel 2014, ma gli agenti mi hanno informato che a febbraio 2020 risultavano anche tre denunce pendenti per istigazione alla violenza.
Tornando al giorno in cui sono cominciati ad arrivare quei primi tweet, come l’hai presa?
All’inizio sul ridere: sembrava la classica polemica destinata a sgonfiarsi subito. Già il giorno dopo, però, hanno cominciato ad arrivarmi una serie di DM terribili, pieni di insulti e di odio. Altri, invece, erano ancora più surreali: ragazzi che mi scrivevano roba tipo «Hai fatto bene a portare sul palco dell’Ariston un brano in cui dici che uccidi quella puttana». Il pezzo non era neanche uscito, e già tutti si erano convinti che fosse sessista e violento.
Cosa che tra l’altro non era.
Già, ma questo non ha impedito alla situazione di degenerare. A un certo punto mi hanno addirittura dato del pedofilo per una barra di un mio vecchio pezzo in cui scrivevo “Queste puttane con le Lelly Kelly non sanno che fottono con Junior Cally” (le Lelly Kelly sono delle famose scarpe anni ’90 per bambine, nda). In realtà, nel gergo del rap, le “puttane” in questione erano gli altri rapper, e “fottere” vuol dire “avere a che fare con”.
Parafraso: quel verso, quindi, era un modo per dire che gli altri rapper erano dei venduti, anni luce indietro rispetto a te, e che era meglio che non si mettessero sulla tua strada.
Esatto. E invece qualcuno ha pensato sul serio che parlassi di fare sesso con delle bambine. Da lì ho avuto il serio terrore che la cosa fosse diventata incontrollabile, che non sarei mai più riuscito a liberarmi di quella nomea. E la cosa più paradossale era che nel pezzo che presentavo in concorso, No grazie, non c’era nulla a cui appigliarsi: neanche un doppio senso che poteva essere interpretato male.
Ecco, appunto: secondo te perché è successo tutto questo casino, allora?
Magari non è così, ma nulla mi toglierà dalla testa che sia successo perché il mio brano conteneva delle frecciatine nei confronti della politica italiana. Penso che il team di qualche partito sia andato a scavare nei miei brani passati e abbia deciso di tirare fuori qualcosa per provare a distruggermi.
Con che spirito sei salito sul palco dell’Ariston, dopo questo tritacarne mediatico?
Mi reputo una persona con le palle, quindi non mi è mai venuto in mente di ritirarmi, ma l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era che non vedevo l’ora che finisse. Prima di entrare in scena, mi dissero: «Se succede qualcosa di brutto non ti preoccupare: nel tuo caso interromperanno la performance e ti faranno ricominciare». Immaginati l’ansia! Scendere quelle scale è stato più difficile che scendere quelli di un carcere, credo (ride). Non so quanti, al posto mio, sarebbero riusciti ad andare fino in fondo. Paradossalmente, l’aspetto meno traumatico sono stati gli incontri con la stampa e con il pubblico, perché quando hai la possibilità di parlare con le persone e ragionarci, si crea un dibattito sano, pur avendo opinioni diverse. Ci fu un solo scontro con una giornalista, che mi accusò di lanciare messaggi diseducativi agli ascoltatori più giovani.
E tu?
Risposi che sulla copertina dei miei dischi, come su quelli di rap americano, compare il bollino “Parental Advisory – Explicit Content”, che spiega che è un linguaggio non adatto ai più piccoli: sta ai genitori creare un dialogo con i figli ed educarli, in modo che capiscano che i contenuti che vedono e ascoltano a volte sono metaforici. In sala stampa ci fu una specie di standing ovation. La cosa che mi è più dispiaciuta, invece, è stata la dichiarazione di Gessica Notaro, la ragazza sfregiata con l’acido dal suo ex; per lei ho grande rispetto, e fece un paragone tra la sua maschera e la mia…
Disse: «Lui la indossa per idolatrare la violenza, io per difendermi dalla violenza subita».
Mi sono sentito in difficoltà, perché mi dispiace molto per tutto quello che ha passato e davvero non avrei saputo come risponderle. Pensavo ai miei, che da casa vedevano tutte quelle cose e ne soffrivano. Sono stati etichettati da tutta Italia come i genitori di Satana, praticamente. C’era perfino chi voleva togliermi la cittadinanza del mio comune, Focene. Avrei preferito alzarmi ogni mattina con un pugile che mi tirava tre cartelle in faccia: sarebbe stato più facile difendersi.
Ai tempi avevamo pubblicato un articolo in cui ci chiedevamo perché non fosse stato applicato lo stesso metro di giudizio anche a Marco Masini, in gara quell’anno, che in una certa misura in Bella stronza aveva giustificato uno stupro. Tu che idea ti sei fatto?
Ti faccio un esempio che non c’entra con il mondo del rap. Mio fratello, quando aveva 23 anni e io 13, si tatuò tutta la schiena. I genitori dei miei amichetti chiedevano ai nostri genitori se per caso era stato in carcere, perché all’epoca era ancora un’estetica associata a quel mondo. Oggi la questione è molto più sdoganata, mentre invece il rap non è ancora del tutto accettato, soprattutto dalle generazioni più anziane, che ancora non ne capiscono il linguaggio. Magari un giorno succederà, ma non è ancora arrivato il momento.
È anche strano pensare che facciano due pesi e due misure: nel 2001 Eminem fu invitato a Sanremo come superospite, pagato centinaia di milioni di lire, e nel testo della sua canzone disse che si sarebbe scopato sua madre senza preservativo. Solo che rappava in inglese, nessuno capì e nessuno si scandalizzò. E guarda cos’è successo vent’anni dopo, per parole che tra l’altro non avevo neanche pronunciato sul palco dell’Ariston, ma inserito in un vecchio brano che non è neanche distribuito a livello discografico (ride).
Ci torneresti mai a Sanremo, dopo tutto quello che è successo?
Assolutamente sì, ma se mai succederà lo farò a modo mio. Non ho nulla contro Sanremo in sé, perché l’organizzazione del Festival mi ha sempre tutelato e supportato, in primis Amadeus, che ha detto che finché ci fosse stato lui, io sarei rimasto in gara. Sono molto felice che anche quest’anno sia direttore artistico.
Ora che hai messo dodici mesi tra te e il fattaccio, quali sono i progetti e le aspettative per il futuro?
Innanzitutto vorrei pensare a me stesso, combattere i miei demoni e guarire le ferite, perché quando subisci dei traumi psicologici con il tempo ne patisci le conseguenze. Lo so bene, perché mi è già successo: dai 14 ai 18 anni ho passato mesi in ospedale per una presunta leucemia e il disagio profondo di quel periodo mi è ritornato a galla solo quando avevo 20 anni. Vorrei riprendere in mano la scrittura del mio terzo album, anche se per farcela avrei davvero bisogno di uscire da questo piattume: è un periodo in cui non sono né felice né sofferente, e questo non aiuta l’ispirazione.