Rolling Stone Italia

Juri Camisasca, canzoni per salvarsi dai topi nel cervello

Esordiva 50 anni fa con ‘La finestra dentro’, un disco surreale fortemente voluto da Battiato. Della musica sapeva poco, l’ha usata per salvarsi. Il racconto di quei giorni, ma anche dell’incontro con l’amico Franco e le sue ultime ore

Foto: Roberto Masotti, per gentile concessione dell’artista

Juri Camisasca ha vissuto con Franco Battiato una sorta di simbiosi. Sono stati amici fraterni, collaboratori uniti nella ricerca spirituale, quasi alter ego uno dell’altro. Prova ne sono le scorribande musicali condivise dagli anni ’70 alla morte dell’artista siciliano, che ha firmato la sua ultima canzone, Torneremo ancora, proprio con Camisasca.

Ma il cammino di Camisasca non è solo quello percorso con Battiato. Ex monaco benedettino, ha dedicato la sua vita alla scoperta di sé e ha concepito la musica come balsamo per lenire le pene dell’esistenza, cercando di comunicare in modo sempre più tangibile un senso di pacificata armonia.

In tutto questo però c’è un prima, un momento nel quale tale armonia è ben lungi dall’avere trovato posto nell’animo tormentato di un ragazzo che da un giorno all’altro scopre di potere comporre dei brani nei quali vomitare tutto il suo disagio. Nel 1974, con l’aiuto di Battiato (che vi suona anche il VCS3), dà vita a La finestra dentro, un album che è un vero shock: dai topi nel cervello di Un galantuomo, al novello Gregor Samsa di Metamorfosi, alla evocaizone (involontaria) di La fattoria degli animali di Orwell in Scavando col badile, ai temi inusuali per l’epoca come il travestitismo in John, per concludere con le illuminazioni di Un fiume di luce e Il regno dell’Eden, dove Camisasca descrive il suo viaggio verso l’empireo e il suo divenire, infine, Dio.

La musica procede come a strappi, non è mai lineare, così come non è lineare il canto che si muove tra molteplici registri, dall’isterico al pacato. La chitarra dirige il gioco in canzoni che mostrano in continuazione una diversa faccia dell’autore. I sintetizzatori di Battiato contribuiscono a mandare in frantumi ogni altro barlume di normalità, accentuando i toni grotteschi e surreali.

Allo scoccare dei 50 anni di uno degli album più “fuori” della musica italiana, ce lo siamo fatti raccontare dal diretto protagonista.

Di solito quando si parla di te ci si sofferma sul tuo lato più mistico. Io volevo tornare allo Juri prima de La finestra dentro. Chi eri?
Ero uno come tanti: lavoravo in fabbrica, frequentavo le discoteche e avevo una gran confusione in testa. Ero uno di quelli che non sanno cosa volere dalla vita, che per me era un rebus. Non mi andava nemmeno di studiare, perché non mi è mai piaciuta la scuola, anche se poi ho preso il diploma frequentando le serali. Diciamo che conducevo un’esistenza che mi sembrava molto misera.

E la musica?
Quella era la cosa che mi salvava. Sin da quando ho incominciato a parlare la musica è sempre stata molto presente, la sentivo risuonare forte in me. Cantare era l’unica cosa che mi piaceva del mondo. Però non sapevo di essere in grado di scrivere canzoni.

Come lo hai scoperto?
È stato grazie e Pino Massara, il patron della Bla Bla.

Racconta.
Franco mi ha organizzato un’audizione con lui. In realtà ero io che glielo avevo chiesto: «Perché non mi procuri un appuntamento col tuo produttore?». E lui lo ha fatto molto volentieri. Però gli ho anche chiesto di non mandarmi da solo, all’epoca ero timido, introverso, impreparato ad affrontare gli ambienti della discografia. Trovarsi in Galleria del Corso a Milano, al terzo piano, con tutte le case discografiche, mi metteva in soggezione. Così Franco è venuto con me. Quando mi sono trovato al cospetto di Massara ho incominciato a improvvisare con la chitarra e siccome non avevo canzoni da presentare mi sono messo a fare dei vocalizzi. Dopo un po’ Massara mi dice: «Scusa, ma Franco ti ha portato qui senza che tu gli avessi fatto ascoltare tue canzoni?». Gli ho risposto candidamente «Sì, perché non ci sono canzoni, non ne ho mai composta una».

Evidentemente Franco era rimasto colpito da altro.
A lui piaceva molto il mio timbro, gli piaceva come cantavo. Io all’epoca mi divertivo con i pezzi dei Deep Purple, di Elton John…

Avevi una band?
Sì, una cosa molto underground, niente di che. Facevamo brani di Steve Winwood, di Hendrix, dei Cream, suonavamo nei dancing di quarta categoria, quando ci davano la possibilità di farlo. Comunque Massara si aspettava che gli presentassi delle canzoni.

E Franco cosa disse, visto che era con te?
Lui fece a Massara: «Ma scherza? Non sente che voce?». Diciamo che gliel’ha saputa raccontare bene (ride). Tanto è vero che io poi negli anni a seguire a Franco gli ho detto: «Senti, ma tu quella cosa l’hai fatta perché avevi simpatia nei miei confronti? Perché non c’era motivo». E lui mi diceva: «No, no, io sentivo che tu avevi delle grandi qualità».

Alla fine Massara si è convinto?
Solo in parte. Mi ha detto: «Fai una cosa, prova a scrivere delle canzoni e poi ci rivediamo» Io: «No, non ho mai scritto in vita mia, non so neanche come si faccia». Mi limitavo a strimpellare la chitarra come tanti che suonano in spiaggia. Ma lui evidentemente era convinto che potessi farcela. Questa è stata la molla. Come se lui avesse aperto un rubinetto, come se mi avesse dato uno stimolo. Sono andato a casa, ho preso la chitarra e ho cominciato a buttare giù idee. Viaggiavo anche un po’ sulle ali dell’entusiasmo, dalla voglia di emergere, di impormi. Tante cose che si sognano da ragazzi.

Volevi diventare una popstar?
Forse all’inizio c’era uno stimolo inconscio, qualcosa che mi voleva fare emergere. Mi ricordo le prime volte che uscivano sui giornali degli articoli su di me, su Ciao 2001, Muzak, Gong, il mio ego si compiaceva, però avvertivo anche una sorta di tristezza di fondo, sentivo che non ci ricavavo niente dall’essere sulla bocca degli altri, dall’espormi. Entrando nell’ambiente discografico ho scoperto che ciò che prima subivo e vivevo magari come malumori inspiegabili era il non dare un senso profondo all’esistenza. La storia del disco, del successo, era una facciata di carta, era un castello di carte. Puoi avere la popolarità e i soldi che vuoi, però se non ti realizzi dentro non sei niente.

Torniamo alle tue prime canzoni.
Mi sono presentato da Massara dopo una settimana – o dieci giorni, comunque pochissimo tempo – con una caterva di brani. È stato un flusso di creatività travolgente, anche lo stesso Pino rimase esterrefatto. Conta che ne La finestra dentro ci sono sette pezzi, ma io ne ho composti almeno una ventina, tutti registrati da me con la chitarra. Quando poi si è trattato di fare il disco, Massara ha scelto quelli che gli sembravano più a fuoco. Altri erano molto violenti, anche troppo.

Che fine hanno fatto queste registrazioni?
Non lo so, il nastro lo aveva Massara che poi, quando la Bla Bla ha chiuso, ha venduto tutto alla Ricordi. Ma comunque io me li ricordo ancora tutti.

Dovresti registrarli.
No no, non li farò mai sentire a nessuno.

Parliamo dei testi, che sono la cosa più “fuori” di La finestra dentro.
Quando le canzoni sono uscite io proprio non sapevo cosa dire. Tu fai un ritmo con la chitarra, ci metti degli accordi e ci inventi sopra una melodia a cui metti delle parole. Io mi dicevo: e adesso che cosa canto? L’idea di fare testi cuore e amore era totalmente al di fuori dei miei interessi.

Immagino…
Totalmente estranea, mi sarei sentito ridicolo. È successo però che proprio in quel periodo avevo in casa un libro illustrato su Hieronymus Bosch, il pittore fiammingo. Mi sono messo a sfogliarlo e da lì si è acceso qualcosa, come se quel mondo visionario avesse fatto scattare la molla della creatività. Allora ho iniziato a scrivere Il regno dell’Eden, un viaggio allucinatorio che porta alla follia, tanto è vero che il protagonista alla fine si immedesima in una sorta di divinità.

Nel disco ci sono momenti orwelliani, kafkiani.
A proposito di Scavando col badile tutti mi hanno chiesto: ti sei ispirato a Orwell? Io ho letto La fattoria degli animali solo dopo molto tempo e vi ho ravvisato un afflato politico, con i maiali che rappresentano il potere. Anche i Pink Floyd ci hanno fatto un disco. Invece per me era proprio una cosa di cuore, mi affascinavano le immagini surreali che ho inventato di sana pianta, senza leggere quel libro. Così come Kafka in Metamorfosi, io all’epoca non sapevo nulla di La metamorfosi, però mentre componevo mi è venuto in mente uno che si sveglia e si ritrova a essere un insetto. Pensa, era una cosa che avevo appreso in un cruciverba, perché io sono un grande appassionato di enigmistica. La cosa mi era rimasta impressa ed è uscita in quella canzone.

Hai anche affrontato il discorso del travestitismo.
In John, anche lì, hai davanti il foglio bianco e poi magari ti viene una parola con la quale inventi una storia. Io mi sono messo a cantare “non so se ti ricordi”, ma così, senza sapere cosa dire. Poi pian piano è venuta in mente la storia dell’amico omosessuale, tirata fuori con un certo pathos, devo dire.

La prima cosa che balza all’orecchio nell’album sono i topi nelle fognature del cervello di Un galantuomo.
Ti dico la verità: quel brano io non lo sopporto, non riesco più a sentirlo, più che altro per come l’ho cantato, in quella maniera così urlata, così aggressiva, che era anche un modo di colpire chi mi ascoltava, Sono andato da Massara e sapevo che dovevo impressionarlo, così è uscito quel canto fuori di testa. Il testo parla dei disagi, sono quelli i topi che viaggiano nelle vene, erano i disagi, come io li interpretavo all’epoca. Il disagio psicologico, i pensieri negativi. Però c’è questo inciso che dice “ma io non cedo, io sarò sempre un galantuomo, fino alla morte”. Questo è l’uomo che si mostra elegante, felice e sereno quando interiormente magari è eroso dalle problematiche. Io appaio agli altri come un galantuomo, ma dentro di me ci sono le fognature. È la grande tematica dell’essere e dell’apparire.

Nessuno aveva mai usato un linguaggio del genere in una canzone, anche la musica sembra sghemba, disarticolata.
Sì, esatto, ha tempi musicali tutti storti. È stata un’ondata di energia incontrollata, mi è uscita così.

Tutto questo espellere il malessere in forma di canzoni ti ha fatto bene?
Assolutamente, mi ha fatto benissimo. È stato come se avessi liberato tutte le oscurità di cui ero vittima. Ero insicuro, avevo complessi di inferiorità.

Come mai?
Mah, sai, già c’è il trauma della nascita. Insomma ragazzi, noi veniamo al mondo dal nulla, siamo gettati nel mondo, sei dentro il grembo materno e poi scaraventato in questa realtà. È un trauma pazzesco. Poi non lo so, magari il fatto che avevo perso entrambi i genitori, mia madre è morta quando avevo 6 anni, mio padre quando ne avevo 14… In certi casi c’è chi cade nella depressione, oppure si possono intraprendere strade malsane, come la dipendenza dall’alcol o dalle sostanze stupefacenti.

Tu ne hai fatto uso?
Ho fatto le mie esperienze con l’LSD, per me era un qualcosa di utile per l’esplorazione di altri mondi. Ma ci sono stati anche brutti viaggi, e proprio dopo uno di questo che ho deciso che non ne volevo più sapere.

Qual è stato il ruolo di Battiato nelle registrazioni di La finestra dentro?
Franco ha avuto una parte fondamentale in questo lavoro, anche perché io non avevo la minima esperienza di studio di registrazione. All’epoca lui era veramente un treno di energia e ha diretto praticamente tutta la registrazione portando con sé il suo gruppo Pollution, con Gianfranco d’Adda, Gianni Mocchetti e Mario Dalla Stella. Si faceva una traccia di chitarra sulla quale poi si suonava.

Mi racconti del tuo incontro con Franco?
Ci siamo conosciuti a militare, lui aveva già fatto Fetus e un giorno scoprii che doveva venire nella nostra caserma, una delle tante che ha girato perché in realtà lui il servizio di leva non l’ha mai fatto. Era sempre a casa, sempre in convalescenza. Io avevo con me la chitarra, ero diventato, diciamo, il cantante della mia compagnia. Avevo addirittura costituito un gruppo con un batterista e un bassista. Il giorno che è arrivato Franco ricordo che ha preso la mia chitarra e ha cominciato a scordarla, a fare un sacco di cose strane, a tirare fuori suoni. I miei commilitoni mi hanno detto: «Cami, quel tipo sembra un po’ fuori». Io ho detto: «No, no ragazzi, è un genio!». Mi sono accorto che viveva in un’altra dimensione. Poi è arrivato il momento di farmi sentire, gli amici mi incitavano a cantare e io mi sono lanciato in una serie di vocalizzi. All’epoca andavano Tim Buckley, Peter Hammill, Alan Sorrenti, modi di cantare nei quali la voce era usata come uno strumento. Franco si è interessato a quel che facevo ed è lì che gli ho detto: «Senti, perché non mi procuri un appuntamento con il tuo produttore?».

Ho come l’impressione che tu vedessi Franco come una sorta di fratello maggiore, sbaglio?
Non sbagli. Lui nei miei confronti ha sempre avuto una predisposizione incredibile, gli piaceva veramente tanto quello che facevo. Io mi fidavo molto perché sentivo che era dalla mia parte. Aveva per me una considerazione che gli altri non avevano. Mi ha aiutato ad essere più sicuro di me stesso.

Anche Franco aveva le sue inquietudini…
Eccome, ma col tempo le ha messe a posto. Poi lui era totalmente votato alla musica. Le altre cose proprio non gli interessavano, ogni tanto aveva qualche relazione, ma proprio toccata e fuga. Era immerso nella musica, ogni volta che andavo a trovarlo a casa sua era sempre lì che stava creando. Poi era uno tosto, col tempo si è addolcito, ma all’inizio se gli giravano le scatole dovevi stargli alla larga. Questo impulso lo ha dominato con il tempo.

Prima parlavamo dell’essere popstar, lui al contrario di te lo desiderava con tutto se stesso, dico bene?
Quando ho sentito La voce del padrone, un giorno che sono passato da casa sua, quel successo gliel’ho pronosticato. Gli ho detto: «Franco, con questo disco esploderai». Dal mio punto di vista lui voleva affermarsi anche come ego. Io glielo avevo detto: «A te non basta sapere che sei forte, vuoi farlo sapere anche agli altri». Lui mi ha detto che avevo ragione. Ed è giusto, giustissimo. Se non avesse avuto questa necessità di imporsi, il mondo musicale non avrebbe avuto alcune tra le più belle canzoni di sempre, che solo Franco poteva scrivere.

Come hai vissuto la sua perdita?
Franco ha passato momenti terribili, ho assistito al suo decadimento, mentale e fisico ed è stata una cosa straziante. Ero presente l’ultima sera della sua vita, oramai era in uno stato comatoso, aveva la maschera dell’ossigeno e io sapevo che era l’ultima volta che lo vedevo. Alle 6 del mattino mi hanno chiamato e mi hanno detto che non c’era più. È stato scioccante, anche se tu sai che una persona deve morire, quando ti dicono che è successo ti si capovolge il mondo. Quando però sono andato al suo capezzale ho visto un uomo sereno. Ho visto una pace che non gli avevo mai visto nella sua vita. Quindi secondo me la sua morte è stata una liberazione per lui, ho in me la certezza del suo volo verso la luce.

Tornando a La finestra dentro, mi chiedevo se hai una qualche responsabilità per la copertina…
Sul retro c’è una foto di me con la lingua di fuori, un po’ alla Einstein. Quella è stata casuale, me l’ha scattata Roberto Masotti, che mi chiedeva di fare dei gesti, mi diceva «fai qualcosa». Io allora, di scatto, mi sono girato e gli ho mostrato la lingua. Coincidenza ha voluto che il disegno della copertina riportasse un uomo con la lingua di fuori. L’ha realizzata la fidanzata di un chitarrista che ha suonato nel disco, Maurizio Petrò. Quando lei mi ha fatto vedere questa immagine immediatamente l’ho collegata alla foto che mi aveva fatto Masotti.

Nella busta interna sei sdraiato in una specie di branda, in un posto fatiscente.
Esatto, era sempre Roberto Masotti che mi aveva portato in un luogo che lui conosceva, forse in Brianza, e mi ha fatto quegli scatti. L’immagine che doveva passare era quella di un personaggio un po’ alienato, che non ha molti rapporti con la società. Come in effetti era.

Dopo La finestra dentro ci sono stati due singoli: Himalaya e La musica muore. Quale è il tuo ricordo di questi brani?
La musica muore non mi ha mai soddisfatto, doveva uscire una versione fatta con Franco, che è la stessa che ha inciso in uno dei suoi Fleurs, ma Massara ha deciso di affidarla a un altro produttore. Un disastro, una cosa che non mi rispecchiava e con la quale avevo paura di fare la fine di uno di quei cantanti che finisce a Domenica in con le ballerine. Ho detto: ragazzi, io non sono così, non voglio mettermi in questo filone, non mi interessa. Ma l’hanno fatto uscire lo stesso e per fortuna è passato inosservato. Himalaya invece è meglio, anche se oramai con la testa ero altrove. Da lì a poco ho smesso di fare concerti con la chitarra, mi esibivo nei centri di meditazione con un armonium indiano che mi aveva prestato Claudio Rocchi. Suonavo con Roberto Mazza, con Capra Vaccina, con Vincenzo Zitello. Facevamo musica improvvisata, dei mantra. Ho capito che non mi interessavano né il successo, né i soldi. Volevo vivere quella dimensione. Per fortuna dal punto di vista economico avevo trovato un impiego in una scuola materna a Sesto San Giovanni dove facevo animazione con i bambini. Lì mi si è aperto tutto un mondo di serenità, di tranquillità, di gioia.

Però passare da una vita tutto sommato normale al monastero è stato un bel balzo.
Lo spirito mi ha chiamato e io l’ho seguito. Quando senti questo tipo di richiamo non puoi tirarti indietro. Inizialmente avevo pensato di andare in India, perché c’erano state letture tipo Il giuoco delle perle di vetro e Siddhartha di Hermann Hesse, Poi sono arrivate le Upanisad. Un’altra scelta era il Messico perché avevo letto Castaneda, le vicende di Don Juan e del suo mondo magico. Alla fine è arrivato un libro di Santa Teresa d’Avila, che è stata la mia prima maestra. Da lì ho messo radici nel cristianesimo, anche se continuo a cercare l’essenza divina in ogni religione.

Iscriviti