Negli anni ’90 l’urlo del movimento riot grrrl era quello di donne che rivendicavano spazio e rispetto. Di quel movimento Kathleen Hanna, la cantante delle Bikini Kill, era l’esponente principale e durante i concerti esortava le ragazze tra il pubblico ad andare sotto al palco e farsi sentire: un modo per dire “ci siamo anche noi” in un mondo a dominanza maschile. Hanna aveva scoperto il femminismo leggendo i libri di Simone de Beauvoir e si rendeva conto che lo spirito che negli anni ’70 aveva unito molte donne in battaglie cruciali contro le disparità di genere si era affievolito fino a rendere indispensabile un altro scossone. E le Bikini Kill lo diedero forte e chiaro, quello scossone, scegliendo il punk come linguaggio e fondendolo con l’attivismo contro la violenza sulle donne, il sessismo, la misoginia, oltre che condendo il tutto con ritornelli accattivanti, provocazioni, slogan irriverenti e attitudine DIY.
Nel 1997 la band si sciolse a causa di contrasti interni, ma oggi – complice una performance che nel 2017 riportò Hanna, la batterista Tobi Vail e la bassista Kathi Wilcox a suonare insieme durante un party organizzato a New York per l’uscita di un libro sulle Raincoats – il gruppo è di nuovo tra noi. Pare che l’idea di riunirsi non fosse mai stata presa in considerazione prima, ma dopo quell’esibizione le tre hanno cambiato idea e deciso di riprendere in mano il discorso interrotto vent’anni fa. Purtroppo ci si è messo di mezzo il coronavirus: con Erica Dawn Lyle al posto dello storico chitarrista Billy Karren, le Bikini Kill erano attese in Italia tra due settimane, ma hanno dovuto posticipare il tour di un anno, così che approderanno al Locomotiv di Bologna e al Circolo Magnolia di Milano il 6 e 7 giugno 2021.
Rispetto ai tempi delle riot grrrl il mondo è cambiato in maniera sostanziale, in tema di parità si sono compiuti molti passi avanti, ma c’è ancora tanto da fare, come ha dimostrato il movimento #MeToo scoperchiando un vaso di Pandora che ha spinto molte donne a impegnarsi nella lotta contro le discriminazioni. «Le disparità persistono, il che rende le nostre canzoni tuttora rilevanti», afferma Kathleen Hanna, che ai tempi della nascita delle Bikini Kill studiava fotografia all’Evergreen State College di Olympia, frequentava il mondo dell’arte che ruotava attorno alla piccola galleria Reko Muse, lavorava come spogliarellista e nel mentre faceva volontariato presso un centro antiviolenza. La sua rabbia scaturiva da abusi psicologici subiti in famiglia, ma anche dalla constatazione che la realtà che la circondava era imbevuta di cultura patriarcale e maschilismo fino al midollo.
Qual è la differenza rispetto a quando urlavi dal palco “girl to the front” per invitare le ragazze tra il pubblico a non stare in disparte?
Oggi quando parlo lo faccio per me stessa e non per tutte le donne. Posso affrontare tematiche che spaziano dal maschilismo al classismo, dal sessismo all’omofobia, ma ho capito che il mio è e sarà sempre il punto di vista di una donna bianca americana e che per comprendere davvero la realtà deve tenere conto dei punti di vista che altre donne possono abbracciare. Si tratta di essere intersezionali, di non generalizzare, di non pensare che la propria prospettiva sia quella di tutte, per questo leggo e m’informo il più possibile sulle esperienze altrui.
Una prospettiva maggiormente inclusiva, dunque.
Quando ai nostri concerti c’erano solo cinque donne tra il pubblico, gridare “donne, venite davanti” aveva senso, e molto. Anzi, per noi era proprio necessario chiedere alle poche ragazze in sala di raggiungere le prime file e agli uomini di farle passare. Ci voleva anche una buona dose di coraggio per esporsi così, quanti insulti mi sono presa… Ma ho continuato a farlo, anche quando sempre più persone hanno cominciato a venire a vederci dal vivo e di donne in sala ce n’erano cinquanta. Adesso, però, non siamo più in quel mondo, le battaglie da portare avanti sono altre, per cui certe cose non le urlo più in quella maniera.
In compenso circa un anno fa avete annunciato la reunion: come mai?
Quando tre anni fa io, Toby e Kathi ci siamo ritrovate a suonare assieme al party di lancio del libro sulle Raincoats ci siamo rese conto che le Bikini Kill non erano finite. Ero così felice di essere di nuovo con loro sul palco, mi conoscono bene, ho capito di avere bisogno della loro vicinanza, e adesso è fantastico vedere come andiamo d’accordo rispetto a un tempo. Non sento nemmeno il sapore malinconico che di solito hanno le reunion e la ragione è che le nostre canzoni mi sembra abbiano conservato freschezza e soprattutto sono importanti oggi più che mai. Basta osservare la società e la situazione politica in cui ci troviamo: sessismo, ma anche razzismo, omofobia e classismo sono davanti ai nostri occhi ogni giorno. Di fatto ci siamo dette: siamo donne, non più le ragazze di un tempo, ma abbiamo ancora voglia di suonare assieme: perché non dovremmo?
Tra le pagine della fanzine Bikini Kill, a inizio anni ’90, vi definivate “parte di una rivoluzione”. Come ricordi quei tempi?
Lavoravo in un centro che accoglieva e sosteneva le donne vittime di abusi e maltrattamenti, il mio primo obiettivo era contrastare ogni violenza sulle donne.
Alcuni uomini venivano ai vostri concerti solo per attaccarti: questo che tipo di reazioni provocava in te?
Ogni concerto era diverso, dipendeva dalle situazioni. Mi capitava di dire a qualcuno di lasciarmi in pace e di sentirmi replicare con un “sei una troia”. Mi capitava di ignorare certi insulti perché non sempre hai voglia di discutere. Mi è capitato anche di essere tirata giù dal palco e di ritrovarmi per terra con un gruppo di uomini sopra di me, ma di tornare su e ricominciare a cantare senza dire nulla, perché c’era qualcosa di troppo violento nell’aria. Così come mi è capitato di mettere qualcuno alla porta. Sì, dipendeva da tanti fattori. Ciò che mi è successo più di frequente è di sentire dal pubblico voci maschili urlare “stai zitta e suona!” mentre stavo introducendo un brano, oppure gridare “spogliati” o fare commenti sul mio corpo. Senza contare le infinite volte in cui magari mi trovavo a una festa e tentavo di inserirmi in una conversazione a sfondo musicale, salvo realizzare che nessuno degli uomini presenti aveva intenzione di ascoltarmi perché “una donna non può sapere granché di musica”, questo è quello che pensavano. Tutto questo mi faceva soffrire, ma al tempo stesso era lì davanti agli occhi di tutti, a dimostrare quanto il nostro femminismo fosse urgente e necessario: gli uomini che ci insultavano e ci mancavano di rispetto erano la prova che avevamo ragione.
Sicuramente avete rotto dei tabù in un mondo a predominanza maschile. Anche con l’aiuto di uomini, diciamolo: il vostro EP Bikini Kill, uscito nel 1992 dopo il demo Revolution Girl Style Now!, vedeva alla produzione Ian MacKaye dei Fugazi. Ma se con le Bikini Kill, così come con i tuoi successivi gruppi Le Tigre e Julie Ruin, mi sembra che l’intento sia sempre stato quello di porre domande, oggi non si può non notare una tendenza al pensiero binario che rende difficile ogni dialettica sul tema femminismo.
Quel che pensiamo noi è che ogni donna debba potersi comportare liberamente, come meglio crede, senza che altre donne le dicano cos’è giusto e cosa no. Il punto non è il tipo di reazione che si ha quando, per esempio, un uomo ti molesta; il punto è proteggersi.
Eppure di donne che pontificano sulle altre donne ce ne sono tante: questione di empatia?
Ti racconto una cosa. Quando le Bikini Kill si sono formate, a Olympia c’era una donna che ci detestava, parlava male di noi, diceva a tutti che persone orribili fossimo. Parliamo di una piccola città, le voci giravano, sapevamo che ci odiava. Ma due anni dopo ho avuto una conversazione con lei e mi confidò di essere stata vittima di abusi sessuali e che la nostra band l’aveva riportata in quel posto nella sua testa e nel suo cuore, il posto dove aveva riposto quanto le era accaduto. Mi disse che se si era arrabbiata con noi era perché l’avevamo costretta a ripensare a quell’esperienza terribile, e mi dispiacque molto. Al tempo stesso pensai che era quello il nostro obiettivo: spingere le donne a volersi bene senza dover nascondere nulla.
Di recente il movimento #MeToo ha dato nuova forza a questo genere di rivendicazione, ma ha anche ricevuto critiche. Qual è la tua posizione?
Il movimento #MeToo ha indubbiamente mostrato dei limiti, ma preferisco considerarne gli aspetti positivi. Ha scoperchiato un vaso di Pandora e, parlando di me, mi ha spinta a indagare nuovamente tante cose che mi sono successe in passato e che non avevo mai elaborato. Da lì è nata l’idea di creare una linea di t-shirt, si chiama Tees 4 Togo, il cui ricavato va interamente in beneficenza a un’associazione che si occupa di scolarizzazione delle ragazze in Africa. Questo perché mi sono convinta che se non includiamo le donne di colore nella lotta femminista allora non si può parlare autenticamente di femminismo. È una piccola iniziativa, ma credo sia essenziale combattere anche per chi vive in contesti diversi e arriva da background più poveri, dove il #MeToo non si sa nemmeno cosa sia.
Qual è il brano delle Bikini Kill che ritieni più potente e significativo per le donne di oggi?
Oh, difficile… Direi Resist Psychic Death, perché qui negli Stati Uniti con Trump e la sua politica c’è tantissima gente che come me si sente devastata. Abbiamo un presidente che è un deficiente totale, ma siamo così impotenti che un giorno una mia amica scherzando mi ha detto che forse l’unica arma per sistemare le cose sarebbe la stregoneria (ride). Oltre ad andare a votare, la prima cosa che dobbiamo fare è non deprimerci come vorrebbero lui e il suo entourage: dobbiamo continuare a protestare, a far sentire le nostre voci, non dobbiamo rinunciare all’azione convincendoci che ormai essere attivisti non serva più a nulla. In più quella canzone parla del fatto che non esiste mai un solo modo di fare le cose, in un certo senso è una sfida a ogni concezione binaria, per tornare a quel che si diceva prima.
Toglimi una curiosità: come nacque Thurston Hearts The Who, dove Thurston era Moore, allora cantante e chitarrista dei Sonic Youth?
Non avevamo ancora conosciuto Thurston all’epoca, era il ’94, vivevamo in un seminterrato a Washington D.C. ed era uscita una recensione sulle Bikini Kill la cui autrice, una donna, mi attaccava non dicendo che i pezzi non erano buoni o parlando della musica, ma asserendo semplicemente che non avevo idea di cosa fosse il femminismo, che non ero una femminista autentica e robe del genere, anche che le dispiaceva per me, e questo senza avermi mai neanche parlato. Eravamo arrabbiate, frustrate e iniziammo a pensare a cosa fare. Alla fine decidemmo di far leggere alla batterista delle Bratmobile, Molly Neuman, una recensione negativa, per poi prendere contemporaneamente in giro la tendenza della cultura alternativa a seguire il branco in termini di gusto: “Thurston hearts The Who. How about you?”. Non era una critica ai Sonic Youth, tra l’altro in seguito Thurston ci ha supportato; semmai volevamo puntare il dito contro la rappresentazione mediatica delle band e su alcune dinamiche: chi è che merita di essere considerato cool e perché?
Il potere che vogliono le donne nella società capitalista di oggi è lo stesso che volevate voi nel mondo punk underground degli anni ’90?
Il potere è una qualità adatta a chiunque, ma dev’essere chiaro che possederlo non significa diventare CEO di un’azienda e non rispettare o sfruttare i lavoratori: quello non è potere, quella è avidità, qualcosa di orribile e patetico. Per me avere potere significa vivere in un mondo dove ti senti bene perché uomini e donne di ogni genere, di ogni ceto e di ogni provenienza hanno le stesse identiche opportunità: le nostre rivendicazioni riguardano tutti.