«Dove sto ora nella geografia del rap italiano? Non lo so. E sarò sincero: oggi non mi interessa nemmeno troppo». Si conclude così la nostra chiacchierata con Kento. Vogliamo iniziare dal fondo, perché proprio a fine conversazione viene ribadito il punto focale: se per chi lo conosceva già Kento era il rapper da battaglia puro e senza compromessi, il rapper vecchio stile che parlava di impegno sociale e temi seri senza abbandonarsi mai e poi mai allo scintillio commerciale, oggi – in questi giorni in cui sta uscendo Kombat Rap, l’ultimo atto di una carriera lunga ormai vent’anni e giocata sempre a modo suo, sempre con patenti di grande integrità – il rapper calabrese (ma ormai cittadino di qualsiasi città, a partire da Roma) ci tiene a dire di essere diverso rispetto all’iconografia di se stesso.
No, non è sceso a chissà quali compromessi e no, non si è abbandonato allo scintillio commerciale di cui si parlava; e sì, il disco ha un titolo barricadero in modo rassicurante, quindi tranquilli, Kento è sempre il soldato dell’hip hop conscious che preferisce parlare di storie dietro le sbarre e di vita vissuta piuttosto che di cagate ed ostentazione. Ma in questo confronto serrato, il nostro si toglie qualche sassolino dalla scarpa. Vediamo come. Vediamo perché.
Allora Kento, come sta andando?
Va bene! E va in modi che manco mi immaginavo, credimi.
Davvero? Cioè?
In questo ultimo periodo della mia vita, è come se ci fosse stata un’esplosione.
Che sta succedendo?
Succedono tante, tante, tante cose belle. Tante. Succede che la musica continua essere il sole attorno a cui gira il mio personale universo, ma attorno a questo sole stanno arrivando tanti pianeti nuovi. Sai cosa? È come se dopo tanti anni in cui sono andato avanti cocciutamente a fare le cose a modo mio e ad affrontare gli argomenti che volevo io, all’improvviso un sacco di persone nuove e inaspettate si siano interessate a me, ai temi che mi stanno cari e al mio modo di vedere le cose. Io non sono cambiato. Ma improvvisamente sono gli altri che hanno iniziato a cercarmi come se solo ora fossi apparso sulle scene. E gli interesso tantissimo. Interessano tantissimo le cose che dico e che faccio, le cose che mi stanno a cuore.
Tra l’altro nella traccia Nuovo classico dici che ti sei tolto un po’ di scleri: a che ti riferivi? Quali sono questi scleri di cui ti sei liberato?
Beh, un po’ di paranoie. Prima di tutto: sto molto meno dietro ai social. Sto molto meno dietro a quello che dicono Tizio e Caio. Mi sono forse liberato dall’idea di voler accontentare delle persone, ho capito che devo prima di tutto pensare ad accontentare me stesso, anzi, è l’unica cosa che conta davvero, questa. Ecco perché ho fatto il disco che ho fatto. Un disco presuntuoso.
Presuntuoso? Sì?
Perché un disco che segue solo e unicamente la mia ispirazione. Ed è un disco dove sento di non avere finalmente più nulla da dimostrare ma, al tempo stesso, dove so di avere molte cose da dire. C’è da fare la traccia con la cassa dritta? Faccio il pezzo con la cassa dritta, e pazienza se a qualcuno non può andare bene! Voglio fare la traccia dance con reminiscenze anni ’80 chiamando Johnson Righeira? Faccio la traccia, e la faccio con Johnson! O ancora, metto insieme De André e la Principessa Xena, alla faccia della lesa maestà. Cose così, capisci?
Capisco.
Sia dal punto di vista del suono che dal punto di vista della scrittura che dal punto di vista filosofico o politico, questo è un disco libero. Un disco che non è obbligato ad essere alfiere di alcunché. In questo modo mi sono messo addosso molta responsabilità e molta pressione.
Sì?
L’unico trait d’union è la mia penna. Sono convinto che sia un album che scontenterà molti miei ascoltatori storici. E sai cosa? Va bene così.
Ok.
Perché io in realtà sono una persona inquieta. Ho bisogno di sfide: l’ho capito ora come non mai. E la musica in fondo è anche saper mettere tutto in discussione. Se facendo musica non metti in discussione nulla e nessuno, a partire da te stesso, che cazzo fai musica a fare?
Ha senso. Eccome.
Anche a costo di scontentare, di scatenare magari pure delle polemiche…
Mi pare di capire che tu per un bel po’ di tempo tu sia stato un po’ prigioniero di te stesso, dell’idealtipo di un certo tipo di rapper anti-commerciale, socialmente consapevole, impegnato. Idealtipo nobilissimo, sia chiaro. Ma non potevi mai “dimetterti” da un certo tipo di nobiltà, integrità, pena l’accusa di tradimento. E questo era un modo per (auto)costringerti a diventare una figura quasi bidimensionale, in effetti.
Esattamente. Allora, come tu sai e come sanno anche altre persone, perché tra concerti, libri, dischi e quant’altro ne ho parlato parecchio e continuerò a farlo, io sono molto legato alle carceri, alla vita che si fa lì, alla possibilità di portare lì il messaggio della cultura hip hop. Bene, molto spesso ai ragazzi che mi trovo di fronte dico: «Il vostro corpo è qua dentro, sì, ma ricordatevi che la vostra mente è libera». Ecco: io che invece sono libero di muovermi, non sono insomma sottoposto ad alcuna misura di restrizione, com’è possibile che finisca invece col farmi imprigionare ogni tanto dai giudizi degli altri, e anche da quelli che magari noi in buona fede abbiamo imposto a noi stessi? Ecco, Kombat Rap è prima di tutto un esercizio di libertà.
Dove tra l’altro ti prendi anche la libertà di dire che il rap italiano è una «banda di scemi»…
(Scoppia a ridere) Un messaggio diplomatico per farmi nuovo amici nella scena!
Ok, è veramente una «banda di scemi» o era il gusto della rima?
Ma guarda, è come se dicessi «l’Italia di oggi fa schifo»: effettivamente ci sono tantissime cose che non vanno nell’Italia di oggi, ma non è che tutto faccia schifo al cazzo. C’è e continua ad esserci una parte di questo paese che è veramente bella, valorosa, eccezionale. Lo stesso vale per il rap. Ti dirò di più: essendo diventato mainstream, come succede a tutti i generi mainstream oggi il rap finisce col rispecchiare la società in cui vive in modo molto lineare, facendolo cioè sia nel bene che nel male. Pensa al grosso di quello che viene fatto oggi, come rap, e in effetti è lo specchio più realistico di quello che ci accade attorno. L’edonismo, la superficialità, il consumismo esasperato. Tutte cose che nel rap ci sono, ma perché sono ben presenti anche nella nostra società, quotidianamente, in modo sistemico.
Ecco, ma questo scivolamento nel mainstream – scivolamento che la nostra generazione che ha attraversato l’hip hop prima del boom anni 2000 ha visto accadere passo dopo passo, prima infatti al massimo c’erano gli exploit alla Articolo 31 e Sottotono, ed erano pure parecchio malvisti – è una novità dell’ultimo decennio, non di più. Una cosa recente, insomma. Un tempo se avevi successo era il diavolo, anzi, per dirla con Fibra eri il traditore; oggi, invece, avere più successo possibile è il primo motore aristotelico, costi quel che costi. Com’è potuto accadere questo rovesciamento di dinamiche?
Era naturale che accadesse. Anzi, è arrivato pure tardi, rispetto agli Stati Uniti, rispetto ad altre nazioni in cui il rap è molto popolare da tempo. E per quanto mi riguarda non è una cosa negativa.
No?
Oggi ho una miriade di porte aperte. Sai, non sono del partito di quelli che si stava meglio quando si stava peggio: no, si sta meglio quando si sta meglio. Che il rap sia più mainstream significa che oggi ho più opportunità di bussare alla porta del cinema, dell’editoria, della televisione, perfino ai salotti buoni della filosofia. Guarda, dopo questa nostra chiacchierata ho un appuntamento telefonico con una grossissima agenzia, che dice essere interessata a rappresentarmi: ancora fino a pochi anni fa sarebbe stato impensabile, e non intendo solo per me, ma proprio in generale per uno che emerge dalla scena rap. E te ne racconto un’altra: l’altra settimana ero a Gallarate, di lunedì, quando i musei sono chiusi. Ce n’era però uno che mi interessava molto e appena lo si è saputo è arrivata la direttrice ad aprire apposta il museo per me. Mi trattavano come se fossi un capo di stato… e questo solo perché ero un rapper. Va detta però una cosa.
Quale?
Io sono vent’anni che mi faccio il culo.
Forse il vero salto di qualità è arrivato quando hai pubblicato un libro, Barre, che parla di rap e cultura hip hop nelle carceri minorili, per un editore rispettato come Minimum Fax.
Vero. Ma anche lì: l’altro giorno ero in riunione proprio da loro, e mi hanno detto che pur senza fare numeri da grandissimo autore consolidato quel libro lì, nel suo piccolo, è stato comunque un caso editoriale, è andato insomma oltre ogni aspettativa. Anche per questo penso abbia poi aperto altre opportunità. Tanto più che è un tema caldo oggi, pensa anche al successo che sta avendo Mare fuori. Sì, mi stanno arrivando tante richieste in tal senso: scrittura, sceneggiatura…
Rischi di non essere più un rapper, ma uno scrittore.
Ma un rapper è uno scrittore! Oh, certo, non parlo di quei rapper che si fanno scrivere i libri dagli altri, e ce ne sono tanti (risate).
Ho un’impressione, comunque: che se al Kento di dieci anni fa fossero capitate talmente tante opportunità, attenzioni, inviti, ora avrei di fronte una persona euforica, irrefrenabile, al settimo cielo; invece, mi sembri molto misurato.
Ho una grande fortuna: i primi, veri riconoscimenti mi sono arrivati quando iniziavo già ad avere i primi capelli bianchi. Sono un late bloomer. E sai questo cosa significa? Significa che ho fatto in tempo a conoscere la vita reale, l’alzarsi all’alba per andare a lavorare, lottare per arrivare fino a fine mese. È stato un processo faticoso, ma molto sano. Solo arrivato a 40 anni ho potuto fare la scelta di mollare tutto e dedicarmi solo alla musica e alla scrittura. Io ho molta simpatia per i miei colleghi rapper di 18 anni o giù di lì. Quelli che fanno successo e iniziano a fare e dire ogni tipo di cazzata. Perché sai cosa? Io, alla loro età probabilmente avrei fatto pure di peggio, nella loro situazione. Quindi cosa gli posso dire, cosa gli posso rimproverare? Certo, se le cazzate le dicono e le fanno quelli che ormai hanno superato i 40, ecco, allora…