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Ketama126: e se gli stornellatori fossero i bisnonni dei rapper?

Fenomenologia della ‘Caciara’. Il nuovo corso che guarda alla storia e alla musica a chilometro zero, l’equilibro tra materialismo e spiritualità, il dialetto come lingua della verità, Roma dove “il più pulito ha la rogna”. L’intervista

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Ketama126, al secolo Piero Baldini, è tornato con La caciara. Il nuovo singolo anticipa il prossimo album e, soprattutto, annuncia al mondo la venuta di un nuovo Ketama, un artista completamente rinnovato e, potenzialmente, ancora rinnovabile, in grado di superare la maggior parte delle concezioni pregresse che avevamo su di lui e, in particolare, sulla sua poetica.

Ormai posato ma energico quasi come un Maestro Yoda trasteverino, Ketama ci ha aperto il diario di un percorso che guarda al passato e al resto del mondo come parametri per ridefinire il suo presente e la sua città. È un percorso in fieri, ma i toni chiaroscurali, ancora segnati dalla trap, presenti ancora nelle strofe del singolo, si stemperano già nel suo ritornello più melodico di sempre, insieme a tutte le sfumature delle possibili contraddizioni.

Con Ketama126 abbiamo conversato di fenomenologia della caciara, ma anche di dissing tra stornellatori, di dialetto come lingua della verità, di piazza del Giubileo e vicoli coi baretti, di nonne beta tester e di cosa significhi crescere senza mai smettere di giocare, almeno con la musica.

Per le fonti della Caciara si è parlato della tradizione folk romana, di stornellatori, addirittura di Claudio Villa. Ma quanto, in quello che abbiamo ascoltato è, invece, il vecchio Ketama in alta definizione, un Ketama aumentato?
Questa è la musica che ho sempre voluto fare e che, fino ad oggi, non mi sono potuto permettere di fare. La caciara è il primo pezzo pubblicato di cui io possa dirmi pienamente fiero e orgoglioso al 100%. Il primo che potrei far ascoltare, un giorno, ai miei nipoti, se mai ne avrò (speriamo!).

Perché hai fatto trap fino a ieri?
Fin da quando, ragazzino, ho iniziato a fare musica, ho sempre desiderato di fare parte di una band. Per capirci: ho cominciato suonando il basso in una cover band. Poi sono arrivati gli anni del rap e l’ho abbracciato sia perché andava per la maggiore e sia perché mandare avanti una band richiede soldi e tempo. Non è facile mettere insieme cinque teste, in uno studio, intorno alla stessa idea o anche solo intorno allo stesso genere. Così ho iniziato a produrmi da solo. Il mio secondo desiderio musicale.

Questa volta realizzato.
All’inizio avevo poche alternative. Vivendo sostanzialmente per strada, non potevo certo chiamare chissà quali strumentisti. Usavo il computer e basta. La trap mi ha appassionato anche perché era una via concreta e percorribile.

E oggi?
Con un’etichetta come Sony alle spalle, che mi permette di affittare lo studio che preferisco, di coinvolgere i musicisti che voglio, la musica cambia.

Ci confermi che gli aspetti produttivi della musica, come di molte altre forme di espressione artistica (prima tra tutte: il cinema), sono intimamente legati alla poetica, e non sempre conflittuali con essa.
Il mezzo è tutto. Di necessità si fa virtù, no?

La trap italiana è, anche nei relativamente sparuti casi da vetrina, derivativa, figlia del modello americano. Invece le fonti della Caciara sono a km 0. Crescere significa anche saper tornare a casa invece che starsene sempre fuori?
È un percorso che ho fatto a partire dalla fine della pandemia. Con il ritorno dei live e la riapertura dei confini ho cominciato, per la prima volta, a viaggiare fuori dall’Europa. Mi sono reso conto di quanto la cultura italiana sia apprezzata nel mondo, di come sia considerata una delle più belle. Di quanto tendano a imitarci. Penso a Frank Sinatra, ad esempio, e alle origini italiane o italo-americane di tutta la musica americana bianca. Invece oggi siamo spesso noi a copiare gli americani, i sudamericani, gli afroamericani, ed è un grosso peccato. Tornato a casa, mi sono detto: perché dobbiamo nascondere le nostre origini?

E se gli stornellatori fossero i nonni del rap?
Per l’approccio che avevano, senza peli sulla lingua, e per la gente che rappresentavano, sicuro. Si facevano persino i dissing tra loro. Erano anche più avanti rispetto a noi rapper. Anche per questo, passando a questo nuovo approccio, a livello di poetica e di immaginario, ho dovuto fare zero sforzi.

Cosa significa per te “caciara”?
Propendo per: caos organizzato che domina il mondo. Uno cerca di mettere in ordine la propria vita o le cose che gli succedono attorno ma, appena pensa di averlo fatto, succede subito qualcosa che lo fa ricredere.

Dunque affrontare la caciara equivale ad ammettere i propri limiti?
La consapevolezza della caciara ti porta a fermarti e a distaccartene giusto per il tempo necessario a riconoscere la tua impotenza davanti a essa. È un piccolo passo ma, se non fai almeno questo, non potrai mai evolverti.

Per il titolo del singolo hai scelto un’espressione dialettale e hai scritto dei versi in romanesco. Fai uso del dialetto anche nel quotidiano, oltre che nella dimensione artistica?
Direi più nel quotidiano che nella dimensione artistica. Anche se sono nato a Latina, sono cresciuto a Roma e quindi il dialetto locale mi si è attaccato tanto. Sono fatto così: se passo sei mesi in Sicilia, mi si attacca il dialetto siciliano. Quando uno cerca di darsi un tono, evita di usare il dialetto, ma io lo amo perché è la lingua della verità.

Prima ancora dei grandi riferimenti alla canzone popolare romana, come Califano, Lando Fiorini o Gabriella Ferri, viene da pensare al big bang della poesia del popolo romano. Name dropping: Trilussa.
Trilussa è un grande.

Se Trilussa vivesse oggi e fosse un rapper, pensi che collaborereste? O dedicherebbe uno dei suoi dissing pure a te?
Spererei di collaborarci, anche se un bel dissing mi onorerebbe comunque. Chissà però se Trilussa oggi farebbe il rapper. Che ne sai, magari farebbe l’imbianchino.

La tua musica sembra essere diventata da autocelebrativa a introspettiva. Una delle due linee editoriali prenderà necessariamente il sopravvento sull’altra?
Ho sempre cercato di conciliare le due cose. I miei pezzi preferiti sono quelli in cui riesco a equilibrarle in un solo testo. Essere coerenti nel contraddirsi mi è sempre piaciuto, così come passare da argomenti volgari e profani a robe più interiorizzanti, dal materialismo alla spiritualità. In particolare nel prossimo album questi contrasti la faranno da padrone e non solo da un punto di vista tematico, ma anche per la musica, con la mia voce che canta sopra musiche d’epoca. Secondo me, anche in altre forme d’arte, come la pittura, più l’artista riesce a racchiudere in sé il basso e l’alto, più l’arte è riuscita.

Oltre a quelle produttive, ci sono state delle nuove condizioni esistenziali che hanno reso possibile o addirittura necessario questo cambio di passo?
Sono cambiate tante cose a livello personale. Niente di eclatante o di eccezionale: sono cose che accadono a tutti, come relazioni finite. Ho 33 anni ed è l’età in cui si comincia a fare i conti col passato. Chiunque con un minimo di coscienza fa un percorso simile. Nella musica contemporanea, soprattutto nella trap, si tende a mantenere la stessa maschera che si indossava nel momento in cui il proprio personaggio ha cominciato a funzionare. Ma tutti cambiamo e io ho provato, con naturalezza, a tenerne conto. Ci è voluto tempo.

Il primo passo ufficiale sono state le colonne sonore?
Sì e ne sto scrivendo anche un’altra, per un film molto bello che verrà girato quest’estate e sarà ambientato a Roma.

Che rapporto hai con la spiritualità?
Per me la spiritualità è la consapevolezza di noi stessi, che è una cosa estremamente importante. E capire che tutto ciò che noi facciamo non è altro che una reazione al mondo che ci circonda. Questo richiede fatica immensa. Ci si riesce pochissime volte. Il problema della spiritualità, per come, invece, la si intende spesso, è che sia considerata qualcosa che si può comprare al supermercato, senza sforzo, oppure un corso di yoga. Se fai un viaggio in Oriente non è detto che sei diventato spirituale. Questa concezione è la morte della spiritualità.

Hai mai avuto una conversazione sulla tua musica con un nonno? Cosa ne pensa?
Mia nonna è del Basso Lazio e con lei parlo spessissimo della mia roba. I suoi pezzi preferiti sono Piano piano ed è impazzita per l’ultimo singolo. All’inizio faticava a capirmi ma, specialmente col nuovo progetto, sto incontrando il favore degli anziani. Mi preoccupano di più, paradossalmente, quelli più giovani, i quattordicenni.

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Se va bene a tua nonna, buona Caciara a tutti. Nel tuo immaginario musicale, la città di Roma è un punto di partenza, un limite o un rifugio?
Tutte e tre le cose, in base alle situazioni. Spesso trovo che sia un limite ma, allo stesso tempo, è anche un vantaggio. Roma è tutto e racchiude tutto, ed è questo il macello. È il bene, il male, la spensieratezza e la malinconia. Ma ti ci puoi perdere una vita senza aver concluso nulla.

Quanto è importante per te il concetto dell’amicizia nella scena musicale romana? È realmente un elemento di distinzione con il resto del panorama italiano?
Più che di amicizia parlerei di fratellanza e sì, ci distingue da quello che accade in altri contesti. Questo nuovo album, però, parlerà anche molto di solitudine. Non scordiamoci che Roma è una città fondata da due fratelli di cui uno ha ammazzato l’altro. Torniamo al discorso su Roma totalizzante. È patria di grandi amicizie ma anche di grandi tradimenti. Le pugnalate alle spalle più famose della storia sono accadute qui. Quindi c’è sempre da considerare l’altro lato della medaglia.

I cantieri per il Giubileo hanno dato a Roma delle nuove piazze molto scenografiche, che sono la nemesi urbanistica dei tuoi 126 scalini. Come ti rapporti con la Roma plateale, invasa dai turisti, aperta, luminosa?
La Roma sfavillante davanti, che dietro casca a pezzi, è il lato che soffro di più della mia città. È la città più bella del mondo ma è anche rovinata dal fatto che siamo la Capitale e ospitiamo la nostra classe politica. Quelle piazze sono la manifestazione architettonica di quello che detesto di Roma.

E qual è la parte di Roma che ami di più?
Forse proprio la caciara, quando è una caciara che sembra avere un barlume di senso e di logica. Come la sua storia, che ti viene mostrata da ogni angolo, da ogni via. Il modo in cui la sua immensità ti sovrasta, ti fa sentire piccolo, ma anche grandissimo. Il romano ha una mitomania insita dentro di sé, che lo rende, ai propri occhi, istintivamente migliore ma, al tempo stesso consapevole del fatto che non potrà mai eguagliare o rivivere quello che è stato già fatto. Fare parte di quel mito è la nostra maledizione.

Qual è il posto migliore per osservare la caciara di Roma?
Direi che il classico bar San Callisto è un ottimo punto di partenza. Oppure farsi un giro a piazza Santa Maria [in Trastevere]: sarete subito al centro tra tutto l’amore e l’odio possibili, in piena confusione emotiva.

Quale tua strofa dedicheresti a questa Roma?
Senza dubbio un verso dalla Caciara: “Il più pulito ha la rogna”.

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