«Tanti artisti a 62 anni si sentono a fine carriera», dice Kirk Hammett dei Metallica. «Io mi sento come se stessi ancora scalando una cazzo di montagna». Hammett ha pubblicato un nuovo libro lussuoso intitolato The Collection. È ai pezzi migliori della sua enorme collezione di strumenti vintage. È l’occasione per ripercorrerne la carriera coi Metallica e parlare del futuro, compreso il suo primo vero album solista.
Bel libro, mi ha fatto ricordare quanto mi piace guardare le foto delle chitarre.
(Ride) Pure a me. È pensato per gli appassionati di belle chitarre vintage, quelle rare e uniche. Le colleziono da sempre. Anzi, colleziono oggetti da quando avevo 5 o 6 anni. Ho iniziato coi fumetti e le riviste di mostri e ho sempre cercato le cose più rare, uniche e difficili da trovare. Sono quelle che mantengono inalterato il loro valore e che, si spera, lo aumenteranno anche. E poi ho fatto lo stesso con le chitarre.
Quante ne hai?
Tempo fa mi sono imposto di non contarle. Sapere quante sono mi deprime, perché non posso suonarle tutte. Nel corso degli anni ho cercato di ridurne il numero, perché mi fa impazzire sapere che nelle custodie ci sono chitarre che nessuno suona mai. In tour hai bisogno di avere certe chitarre che, finiti i concerti, finiscono nelle custodie e non vengono più utilizzate. Sia io che James abbiamo un’infinità di chitarre di questo tipo. Al posto di comprare di nuove, preferisco scambiarle. Quando in ballo ci sono i soldi c’è come un senso di vuoto. Comunque, le chitarre della collezione principale che cerco di suonare sempre sono 40 o 50. Sono le mie preferite e la maggior parte sono nel libro.
La tua chitarra più leggendaria è la Greeny, che era di Peter Green. Hai detto che quando la imbracci cambia il tuo modo di suonare. In che senso?
Siccome voglio sentirne il timbro suono meno biscrome, semicrome e crome e più semiminime e semibrevi, e questo per riuscire a far cantare lo strumento. Perché canta, amico mio. La Greeny è una chitarra unica, a qualsiasi amplificatore la attacchi, lo fa suonare meglio. E sono pochissime le chitarre che lo fanno. È straordinaria. Un’icona. Ha un suono unico. Non somiglia a nessuna Les Paul che ho avuto per le mani. La confronto di continuo con ogni tipo di chitarra, vintage e moderna e la Greeny fa il culo a tutte quante. Altri grandi musicisti hanno avuto l’opportunità di acquistare la Greeny, ma non l’hanno fatto, due di questi sono Joe Bonamassa e James Hetfield. Forse stava aspettando me. Sono arrivato io e, quando l’ho presa in mano e ho iniziato a suonarla, ho capito subito che non l’avrei più mollata. Non ne ho mai abbastanza, la suono di continuo, la porto con me ovunque. La tengo vicina pure quando dormo.
Tu e Joe Bonamassa vi contendete le stesse chitarre, visto che anche lui è un grandissimo collezionista?
Lui è un megacollezionista. Entrambi abbiamo così tanta roba buona che non ci pestiamo i piedi. M’ha avvisato lui quando una certa Les Paul Standard nera del 1959 che inseguivo da una decina d’anni stava finalmente per essere messa in vendita a Nashville. Ero talmente felice che per sdebitarmi gli ho fatto avere una replica della Greeny.
Il codice d’onore dei collezionisti.
Non succede tra tutti i collezionisti, tra quelli dei poster di film horror è guerra. C’è gente che accende una seconda o terza ipoteca sulla casa pur di comprare certi poster. Conosco gente che venderebbe la madre per averne uno. O forse è così anche nel mondo della chitarra, non so. Comunque sembra che ci sia un certo codice d’onore tra i musicisti collezionisti. Ci sono anche rivenditori senza scrupoli che mirano solo a massimizzare gli introiti, sono uomini d’affari. Si torna al discorso di prima: quando si riesce a chiudere un baratto siamo tutti contenti, ce ne andiamo a casa con la chitarra che volevamo e un bel sorriso sulle labbra. È il tipo di accordo che più mi piace e a cui cerco sempre di arrivare.
C’è una foto pazzesca nel libro in cui suoni la chitarra sulla Grande muraglia. Come ha fatto a portare la chitarra fin lassù?
Devo ringraziare il mio addetto alla sicurezza, Rob Fernandez, è stato lui a portare tutta quella roba lassù ed è una bella scarpinata. Prima ancora di arrivare alla Muraglia, ci sono 400 metri in salita. Poi si inizia a camminare e ci sono tantissimi gradini, pendenze e dislivelli. Dio lo benedica, ha dovuto portare una chitarra e un ampli (ride). Quel giorno il tasso d’inquinamento era particolarmente alto. Ho dovuto indossare una mascherina per tutto il tempo perché sono molto sensibile alle malattie da inquinamento e alle infezioni polmonari. C’era un po’ di gente piuttosto seccata quel giorno, perché anche il fotografo, Ross Halfin, e il suo assistente hanno dovuto portare un mucchio di attrezzatura, le custodie delle macchine fotografiche, le luci e tutto il resto. Quindi avevo una troupe molto scocciata al seguito. E poi abbiamo dovuto trovare la location adatta. Ci sono voluti 15 minuti, diceva: «No, questa non va bene. Che ne dici di questa? No, nemmeno questa va bene. Ah, di qua? Sì». Alla fine mi stavano maledicendo tutti.
Cos’hai suonato sulla Muraglia?
Probabilmente dei lick di qualche band della New Wave of British Heavy Metal, roba della mia gioventù. È quello che facciamo sempre quando ci troviamo e facciamo una jam: suoniamo hard rock anni ’70 e NWOBHM. Funziona sempre. La gente arriva e chiede: «Cos’è questa roba? Cosa suonate? Come mai conoscete tutti questa canzone che io non ho mai sentito?».
Di recente ho intervistato Dan Nigro, che produce Olivia Rodrigo e Chappell Roan, artiste pop con marcate influenze rock. Lui fa parte di un’ondata di produttori che sono veri fan del rock.
Come quel ragazzo in Svezia.
Max Martin.
L’ho incontrato e mi è sembrato un metallaro svedese.
E Pink Pony Club di Chappell Roan ha un assolo di chitarra. Dan ha citato la tesi sugli assoli di chitarra che esponi nel documentario Some Kind of Monster, quando dici che eliminarli avrebbe datatoirrimediabilmente la musica. Come vedi ora quel periodo in cui gli assoli non erano più fighi?
In quanto chitarrista, ho ignorato la cosa, perché la popolarità della chitarra va e viene. Prima la gente si stufa di sentirla e vuole qualcos’altro e poi, quando si stufa di quell’altro che ha sentito troppo, vuole di nuovo le chitarre. Nel 1979-1980 tutti dicevano che l’heavy metal era morto. Ma l’heavy metal non era nemmeno ancora sbocciato del tutto (ride). Io e tutti i miei amici ascoltavamo quel metal incredibile che arrivava dal Regno Unito e dall’Europa e scuotevamo la testa: «E l’heavy metal sarebbe morto? Si vede che non ascoltano la musica che sentiamo noi». Era un periodo esaltante, c’era un ibrido nuovo tra l’energia e l’aggressività punk da una parte e i riff metal dall’altra. A chi mi diceva che l’heavy metal era morto, rispondevo: «Lo pensa solo la gente come te, che conosce solo quel che sente in radio».
La gente si era stufata delle chitarre e sono arrivati i synth, giusto? Tutti questi gruppi coi synth, il movimento new romantic, i Duran Duran, e cazzo, certo che la gente diceva che l’heavy metal era morto, non si sentivano altro che synth. Ma sotto sotto il metal stava solo aspettando il momento giusto per tornare e vendicarsi. Ora il fenomeno è lo stesso, credo. Ma al posto dei sintetizzatori ci sono i campionamenti. Ci sono canzoni create interamente in digitale. È sconcertante vedere che ci sono anche cinque o sei autori per una sola canzone. La ascolti e pensi: «Davvero ci sono volute sei persone per scrivere questa roba?». Comunque, per rispondere alla tua domanda, dipende tutto dalle mode, quando si parla di arte, qualunque arte, non puoi dire che qualcosa è morto e non tornerà mai più.
Hai detto che ascoltavi i primi Soundgarden nel periodo in cui hai scritto il riff di Enter Sandman. Questo spiega almeno in parte perché il Black Album, per certi versi, non stonava nel 1991, quando è uscito, in piena esplosione del grunge. Conoscevate bene quelle sonorità.
Oh, sì. Ricordo di aver ordinato i primi singoli della Sub Pop nel 1987. Ho ancora tutti quei 7” del Sub Pop Singles Club, i Nirvana, i Mudhoney, i Tad, i Soundgarden, gli Alice in Chains, i Green River. Ascoltavo un sacco di quella roba, James pure. Ho capito che stava succedendo qualcosa quando un paio d’anni dopo ho iniziato a vedere i ragazzi con delle acconciature che mi ricordavano il look dei musicisti della Sub Pop su quei singoli. Poi sono usciti tutti quegli album e siamo entrati ufficialmente nell’era del grunge. Non avevo alcun problema con il grunge. Anzi, lo adoravo. Pensavo fosse grandioso, cazzo. E c’è un sacco di roba uscita in quel periodo che ascolto ancora oggi, come Nirvana, Soundgarden, Alice in Chains e Mudhoney.
La gente non si rende conto di quanto Kurt Cobain fosse fan dei Metallica. Avete raccontato la storia di lui che arriva a un concerto e chiede: «Fate Whiplash stasera?».
Adorava anche Ride the Lightning. C’è una canzone su Bleach che mi ricorda il riff di Ride the Lightning, ha lo stesso tipo di fraseggio. Kurt era un ragazzo fantastico. Si vedeva che era timido, era più un osservatore che uno che si gettava nella mischia. Ogni volta che lo vedevo, era sempre calmo, seduto su una poltrona a bersi una birra o a fumare una canna o altro. All’epoca fumavo e bevevo spesso con lui. Ricordo di aver ricevuto una copia staffetta di Nevermind e poi li ho visti al Palladium di Los Angeles. Sono andato nel backstage e ho detto: «Kurt, Nevermind sarà un successone». E lui: «Ma no». «E invece sì». Poi l’ho detto a Krist Novoselic: «Amico, questo album sarà un successo». «Dici?». «Lo so per certo: un successo enorme». E loro: «Ma no, amico, no».
Prima di diventare famosi, i Nirvana erano dei puri che andavano in giro a suonare come matti. Ma quando è arrivava la fama, Kurt ha adottato un atteggiamento un po’ troppo scostante, che si è riverberato nelle esibizioni live. Ad alcuni piaceva molto. Io ho notato la differenza, non voglio giudicare, ma ho visto il cambiamento, Kurt era a disagio, non era quel tipo di persona.
«Ascolti certe canzoni e pensi: ma davvero ci sono volute sei persone per scrivere questa roba?»
Tutti osannano il vostro materiale anni ’80, che giustamente è leggendario, ma credo che non vadano trascurati il Black Album e anche Load e Reload. Ho riascoltato il Black Album questa settimana ed è uno dei dischi rock migliori di sempre, a livello di suono.
Sono d’accordo. La batteria è incredibile, potente, bella da ascoltare. Ti viene da alzare il volume. È un piacere per le orecchie quel suono di batteria, quel rullante potente, quei piatti sferraglianti e pieni di riverbero. È il nostro album col suono migliore, senza dubbio. E ci abbiamo lavorato tanto per assicurarci che suonasse così (ride).
Il tuo approccio agli assoli nel Black Album è diverso. Cosa ricordi, in particolare, di quello di Enter Sandman?
È assurdo, ma tutti gli assoli sono venuti fuori molto, ma molto velocemente. Sembrava si scrivessero da soli. Tutto quello che dovevo fare era trovare le note, suonarle e incidere. Straordinario. Ero con Lars nella mia stanza d’albergo, prima ancora di entrare in studio per iniziare a registrare gli assoli, gli ho fatto sentire tutto quello che avevo. Praticamente mi ha detto che non c’era molto da fare, a parte incidere quello che avevo già. Ma c’erano anche canzoni per le quali non avevo idea di che fare, come Unforgiven. A quel punto non avevamo mai scritto una canzone come Unforgiven, con ritornelli leggeri e strofe heavy. Tutte le nostre ballad erano l’opposto, strofe leggere e ritornelli heavy. Perché l’assolo funzionasse doveva essere spontaneo. È stata una delle prime volte in cui sono arrivato senza nulla di pronto e mi sono messo ad aspettare che uscisse qualcosa spontaneamente. Ho poi scoperto che di solito le cose migliori arrivano così, spontaneamente. È così che faccio tutto ora: mi metto lì con la mia chitarra e vedo cosa esce. Mi rifiuto di mettermi lì ad analizzare il tutto: se cambio questa nota, poi questa deve funzionare con quest’altra, ecc… Sarebbe come fare non musica, ma algebra e mi hanno bocciato all’esame di algebra per due anni di fila. Quindi aspetto di vedere cosa mi mandano l’universo e la musa e negli ultimi 10 anni l’ho fatto ho ottenuto ottimi risultati. Libero la mente, muovo le dita e inevitabilmente esce qualcosa. Mi sento privilegiato e fortunato, perché ho 62 anni, cazzo, e non ho ancora raggiunto la cima della montagna, la punta della piramide. Sto ancora migliorando. E ho ancora tanta energia e slancio creativo dentro di me.
Si dice che, per l’ultimo album, avevi preparato qualcosa come 700 riff.
Oh, è assurdo. Fammi guardare quanti riff ho adesso: controllo sul mio telefono. Sono 767 in tutto.
Sono 767 riff nuovi per il prossimo album?
Nuovi, fratello! Mio Dio: è un incubo anche per me passare in rassegna questa roba. È un disastro, non ce la faccio. È tutta colpa mia, ma non ci riesco.
La band ti chiede di fare una selezione? Tipo: «Puoi gentilmente restringere il campo ai 300 migliori»?
Rob Trujillo è molto paziente e non gli spiace imbarcarsi in un’impresa del genere. Io scuoto la testa e dico: «Dio ti benedica, amico. Ti voglio bene. C’è un motivo per cui ti voglio così bene». È un sacco di roba da studiare. Comunque, in questo momento sto raccogliendo le idee per il mio album da solista.
Wow.
Sarà una fusione di tutti i tipi di stili, ma non necessariamente un album fusion. Capisci cosa intendo?
Quindi non jazz fusion.
All’inizio ho detto: farò un disco jazz fusion. Poi all’improvviso mi sono ritrovato a scrivere progressioni classiche e a tirare fuori roba più heavy. E poi ho buttato giù una cosa funk. È una fusione di stili diversi e sarà un album intero. Portals conteneva una mezz’ora di musica, ma questo sarà un album completo.
È di nuovo tutto strumentale?
No, ci sarà la voce, perché le canzoni che ho scritto la richiedono. Quindi mi domando: chi canterà? Non lo so. Spero di non essere io: ho già troppe cose da fare. Sai, ho iniziato a imparare a leggere il greco antico. Sono andato in fissa per molti testi greci antichi, tipo Pitagora, il padre della cazzo di teoria musicale. E sto scoprendo che la chitarra, la lira e la cetra sono antichissime, così antiche che non si riesce a capirne l’origine, e i greci dicono semplicemente che le hanno portate gli dèi: Dioniso e Apollo sono apparsi suonando questi strumenti. Nei testi antichi ci sono tantissimi riferimenti alla musica legata ai rituali e alla magia. Lo trovo molto interessante, perché vedo dei parallelismi. I greci usavano la musica per rafforzare i loro rituali, i loro riti segreti. E la musica era apprezzata a quei tempi. Se c’è un vero esempio di magia in questo mondo, quello è la musica. La musica è magia, basta sedersi davanti a qualcuno e suonare uno strumento per farlo emozionare. Puoi cambiare l’atmosfera in una stanza, suonando. Quando le persone ascoltano certi tipi di musica, si trasformano. Se non credi che sia magia, allora cos’è? Scienza? Non esiste proprio, è molto di più. Passo molto tempo a pensare a queste cose.
Quando arriverà questo tuo album?
Quando non si sovrapporrà agli impegni dei Metallica, quindi probabilmente l’anno prossimo. Cercherò di chiuderlo entro la fine di quest’anno. Tutti questi antichi testi greci che ho letto hanno influenzato la musica. Ho uno strumentale che, secondo me, sembra vecchio di 2000 anni ed è intitolato The Mysterion. È incentrato su quei testi, lo trovo incredibile, non lo avrei mai scritto se non avessi iniziato a leggere questi testi antichi. Sta accadendo qualcosa, qualcosa di misterioso, perché mi viene inviata tutta questa musica e io mi sento come un’antenna ricevente. La musa, ogni giorno, mi sussurra musica all’orecchio. E devo ascoltarla, altrimenti si fermerà. Adesso sto vivendo questa mia strana esperienza musicale, dentro casa, scrivendo e registrando dei demo. È una sensazione quasi paranormale perché, come ho detto, mi rifiuto di spaccarmi la testa su qualsiasi cosa, eppure la musica continua ad arrivare.
Tutto ciò che posso fare è dire grazie a chiunque mi stia mandando queste ispirazioni. E mi rifiuto di mettere di mezzo il mio ego e attribuirmi il merito perché non mi sembra di avere creato da solo questa musica, sto solo mettendo giù qualcosa che è sempre esistito. È pazzesco. Fatico a capire questa cosa, ma devo arrivarci: sono uno che ha bisogno di capire le cose e invece questa non riesco a comprenderla del tutto. La gente penserà che sono pazzo, ma sapete una cosa? Vi farò ascoltare questa cazzo di musica e magari voi capirete, perché io non ci riesco.
Hai accumulato 767 riff nuovi: hai idea di quando potrebbe uscire il prossimo album dei Metallica?
Quando ci vediamo tutti insieme, di solito è Lars a dire: «Ok, ragazzi, è il momento di mettere da parte dei riff». A quel punto proponiamo tutti le nostre cose, ma non credo accadrà per almeno un altro anno, perché stiamo ancora finendo il tour di 72 Seasons e poi ci prenderemo una piccola pausa, non troppo lunga. La vedo così, ma coi Metallica può succedere di tutto.
Mi piacerebbe molto sentirvi tornare alle sonorità anni ’90 in un album.
Chi lo sa? Potremmo anche dire: ok, torniamo ai ’90. Non è una cattiva idea. Non ne abbiamo mai parlato. È interessante, perché quando Load e Reload sono usciti, molti ci hanno preso per il culo e ci sono state reazioni negative. C’erano in ballo troppi cambiamenti: abbiamo cambiato look, abbiamo cambiato sound, abbiamo cambiato modo di registrare. Ho persino suonato chitarre diverse, accordate in Mi bemolle, e ho ascoltato molto blues e jazz. Load e Reload sono parecchio diversi da tutto ciò che li ha preceduti. Ma è interessante, perché oggi incontro dei fan che amano quel periodo e adorano Load e Reload. Ma quando sono usciti la gente diceva: «Fanculo Load».
Lo ricordo bene.
«Fanculo Reload e fanculo i Metallica». Ma oggi suoniamo Fuel e la gente impazzisce. Facciamo Until It Sleeps e tutti sanno ogni cazzo di parola. È come quando ero adolescente io e ascoltavo tutti gli album degli Zeppelin tranne il terzo perché era più acustico e io volevo sentire solo la roba aggressiva e potente. Quella era la roba che mi piaceva da ragazzino, ma col tempo sono arrivato ad apprezzare Led Zeppelin III e a capire quanto è meraviglioso, e adesso capisco perfettamente il suo posto nella discografia degli Zeppelin. Penso che una cosa simile sia accaduta a Load e Reload. Dopo che la gente ha superato lo shock iniziale, la gente si è messa lì, ha ascoltato senza pregiudizi e ha detto: «Alla fine non è poi così male».
Ho sempre pensato che la gente reagisse più ai cambiamenti di look, i capelli e lo smalto, che alla musica.
Una delle ragioni per cui ho tagliato i capelli è che non pensavo di stare bene con i capelli lunghi quando indossavo una giacca elegante (ride). Me li sono tagliati per stare meglio quando mettevo la giacca, giuro su Dio. Non c’era niente di grosso, dietro. Sono arrivato coi capelli corti e poi, letteralmente il giorno dopo Lars si è tagliato i capelli perché ci stava già pensando da un po’. James ha visto Lars e me e ha deciso di farlo anche lui. Jason Newsted aveva già i capelli corti a quel punto.
«La gente diceva: fanculo Reload e fanculo i Metallica. Ma oggi quando suoniamo Fuel la gente impazzisce»
The Memory Remains, da Reload, è una grande canzone e vede la partecipazione di Marianne Faithfull, che ci ha lasciato di recente. Hai qualche ricordo particolare legato a lei?
Una volta siamo andati a cena con lei e Anita Pallenberg… ragazzi, che cena! E le storie che abbiamo sentito! Ad Anita e Marianne piaceva molto uscire con me e Lars, perché stavamo al passo con loro. Le seguivamo in ogni cazzo di drink, in ogni battuta: tutto. Ci siamo fatti un sacco di droga quella sera. E poi Marianne, amico, era incredibile. Non ha mai rallentato il passo.
Per rimanere in tema di lavori dei Metallica criticati ingiustamente, ho sempre pensato che Lulu abbia una pessima reputazione immeritata. Se quell’album non fosse mai stato pubblicato e fosse stato scoperto oggi, tipo «Ehi, i Metallica hanno fatto un album con Lou Reed!», credo che la gente ne andrebbe matta.
Penso che tu abbia ragione. Noi abbiamo sempre detto che non era un album dei Metallica, ma una cosa nuova con Lou Reed. Insieme siamo una nuova entità che non è i Metallica e non è Lou Reed. Quell’album significa molto per me, per tutta una serie di ragioni. I testi sono incredibili. È poesia. Sono un grande fan di Lou Reed. Poter passare del tempo con lui e lavorarci assieme ha significato molto. E il pezzo Junior Dad, non riesco ad ascoltarlo, mi commuove. Ricordo quando Lou ci ha detto: «Ho una canzone per voi e vorrei che fosse nell’album». L’ha fatta sentire a me e James e alla fine del brano io ho guardato James e lui ha guardato me: avevamo tutti e due le lacrime agli occhi. Poi è arrivato Lou Reed e ci ha visti piangere in cucina. Sorridendo ha detto: «Vi ho fregati, vero?». E io: «Fanculo Lou. Sì, mi hai fregato. E anche lui».
Reed aveva bandito l’uso del wah-wah in quell’album e non era nemmeno molto favorevole agli assoli, giusto?
Mi ricordo che una volta ho iniziato a fare delle cose con il wah-wah e lui si è avvicinato al microfono dicendo: «No». E io: «Cosa?». E lui: «Niente assolo». A un certo punto, stavamo cercando una parte e ho suonato una scala frigia dominante… sai, è una specie di scala dal suono orientaleggiante. Lui si è avvicinato al microfono e ha detto: «Niente musica da danza del ventre». Oh mio Dio, sto ancora ridendo adesso.
Immagino che non sarebbe servito a niente fargli notare che proprio tu hai dato un grosso contributo alla popolarità el metal della scala frigia dominante.
Esatto. Poi abbiamo scritto una canzone e ho detto a tutti gli altri: «Qui voglio metterci un cazzo di assolo di chitarra». Perché sentivo che ci voleva. E tutti mi hanno chiesto: «Cosa dirai a Lou?». Così mi sono messo a scrivere una cazzo di e-mail lunghissima in cui gli spiegavo che questa canzone meritava un assolo di chitarra ed ero nervosissimo all’idea di mandarla. L’ho inviata e più tardi, lo stesso giorno, ho visto Lou. Niente. L’ho rivisto il giorno dopo, ancora niente. Il terzo giorno mi ha detto: «A proposito: ho ricevuto la tua e-mail». E mi ha detto che era tutto a posto. E così è stato: l’assolo è stato messo nell’album.
È strano, perché aveva una band con Mick Ronson e lo lasciava fare assoli per ore, quindi non capisco qual era il problema.
Credo che negli anni ’80 un qualche suo chitarrista l’abbia deluso. Credo sia andata così, perché quando parlava di chitarra e chitarristi sembrava farne una questione personale. Ma lui era Lou Reed e poteva pensare il cazzo che gli pareva: non volevo certamente mettergli pressione o sfidarlo su questo tema. Non gli piacevano gli assoli? Bene: il mio compito era trovarne uno che gli piacesse e alla fine ci sono riuscito.
Ci sono dei fan che hanno provato a identificare i riff delle canzoni dei Metallica che hai scritto tu. E online girano delle liste…
Tutte sbagliate. C’è una montagna di riff e la gente prova a capire, un po’ a caso, quali ho scritto io. Buona fortuna, cazzo.
C’è qualche riff, in particolare, che sei orgoglioso di aver scritto e che la gente dovrebbe sapere che è farina del tuo sacco?
Be’, ho scritto la maggior parte di Death Magnetic. Quell’album è pieno zeppo di riff e tanti arrivano dalla mia riserva di circa 400. C’è stato un periodo in cui Rob ha preso quei nastri coi riff e li ha passati tutti in rassegna. Spesso, quando avevamo bisogno di un riff, guardavano tutti Rob perché aveva un intero archivio di riff che aveva selezionato e lui diceva: «Ok, c’era questo, dovrebbe funzionare». E quando mi suonava qualcosa, gli chiedevo sempre: «Ma questo è un mio mio riff?». E lui rispondeva di sì.
Ti dirò, credo che uno dei riff più pesanti che abbia mai ideato sia quello del bridge di The Thing That Should Not Be. Ancora oggi lo adoro, non abbiamo più scritto un riff del genere. Penso che sia una delle cose più heavy in assoluto. E sto ancora cercando di scrivere un riff che possa anche solo avvicinarsi alla maestosità di quello. Ecco perché spesso mi ritrovo a cercare di catturare il fuoco di certi riff che abbiamo inventato in passato e a scriverne di simili, ma diversi. Sono un acceso sostenitore dell’idea di rubare a noi stessi. Ho visto altre band farlo. Così, quando qualcuno mi dice che una certa cosa l’abbiamo già fatta, rispondo: «Abbiamo tutto il diritto di ripeterci quando vogliamo, perché fa parte del nostro linguaggio, del nostro vocabolario, del nostro bagaglio di strumenti». Non ci ripetiamo mai palesemente clonando nota per nota, ma facciamo qualcosa di simile a qualcosa d’altro.
I Rolling Stones sono appena diventati il primo gruppo a incidere un album rock di grande impatto a 80 anni d’età. In modo simile, anche voi siete dei pionieri, una band metal che va ancora forte a 60 anni, che continua a fare tour e a produrre nuova musica. Per quanto tempo pensate di poter continuare a mantenere questa carica?
Molto ha a che fare con la salute fisica. Siamo tutti abbastanza sani e in forma. A volte mi dimentico di quanti anni ho, non mi sembra di averne 62. Mi sento come se ne avessi ancora 30, vado a fare surf, in bici, corro, cammino, di tutto. Faccio yoga tutti i giorni, medito tutti i giorni e non mi sembra di essere in declino. E so di non essere l’unico membro della band a sentirsi così. Anche Lars è in gran forma. Finché abbiamo la salute e la testa ci assiste, possiamo andare avanti. Anche Rob Trujillo gode di ottima salute e non ha nemmeno i capelli grigi, non è incredibile? Non so cosa sia: forse suonare questa musica o essere in questa band è una sorta di elisir di giovinezza e ci fa sentire giovani. Perché come ti senti è un buon indicatore di quanti anni hai davvero, fisicamente, mentalmente, emotivamente e spiritualmente. Mi sento come se avessi ancora 30 anni e non ho intenzione di rinunciare a nulla. Questa è la mia vita: lavoro, suono la chitarra ogni cazzo di giorno. Ho una chitarra in mano anche in questo momento. Sono ossessivo-compulsivo e non posso farci niente, ma amo quello che faccio. Amo la musica.
Ricordo che da bambino sentivo bossa nova, jazz, Broadway, classica. Ricordo le canzoni che ascoltavo quando avevo 5 o 6 anni. Conosco i pezzi dei Beatles e di Hendrix che ascoltavo all’epoca. E non so se vale per tutti i musicisti, ma nella mia testa c’è sempre musica, c’è un maledetto jukebox che suona lì dentro. Se si parla di una canzone di uno dei miei gruppi preferiti, la sento in testa. Posso scrivere e comporre senza chitarra, solo visualizzando e sentendo le cose nella mia testa. Mi sento fortunatissimo. È quasi una sensazione paranormale, ma a me sembra naturale, come se lo facessi da più tempo degli anni che effettivamente ho e visto che credo nella reincarnazione, sto iniziando a pensare di essere già stato un musicista.
In che senso?
L’atto di suonare mi sembra naturale. Quando sono ispirato, niente può fermarmi finché non ho dato sfogo a quell’ispirazione. E vorrei riuscire a ispirare i musicisti che ci sono là fuori a scrivere la musica del futuro. Non mi piace la celebrità. È davvero difficile trovare un equilibrio tra le due cose: voglio essere d’ispirazione, ma non voglio attirare l’attenzione. Voglio solo poter fare quello che faccio, buttarlo nel mondo e poi passare alla cosa successiva. Perché sento di essere qui per questo. Tutto il resto è contorno. Non ho aspettative economiche. Voglio solo creare la migliore arte possibile, senza ego, perché l’ego, i soldi e l’avidità sporcano il processo. Negli ultimi dieci anni ho cercato di essere il più puro possibile e di suonare solo per la musica. È una posizione fantastica per me, perché non devo preoccuparmi di tutte le cose per cui pensavo di dovermi preoccupare.

Con James Hetfield nel 1984. Foto: Pete Cronin/Redferns
Tim Henson, il chitarrista dei Polyphia che ha uno stile molto futuristico, ha definito il bending tipico del blues «bending da boomer». Cosa ne pensi?
Bello. Ma sai, significa che Eddie Van Halen era un chitarrista boomer? Mi piace lo stile di Henson: è unico e ha una tecnica incredibile. Ma poi c’è l’annosa questione: quanto è coinvolgente? È bello da ascoltare tre o quattro volte, sì, ma ci si può davvero immedesimare? A volte le persone vogliono ascoltare musica semplice, provare emozioni dirette. Quella roba le trasmette? No. Evoca un tipo di emozione accessibile solo alle persone a cui piace quella roba o che possono capirla. È una categoria molto ristretta, ma va benissimo se lui vuole arrivare solo a quelle persone. Certo, suona da Dio. Ma alla fine dei conti la gente vuole qualcosa con cui ha familiarità, che sia piacevole e appagante, che soddisfi i suoi bisogni e non sia così difficile. I Polyphia sono bravissimi in quello che fanno, ma solo un certo numero di persone sono in grado di comprenderlo. Una volta che ci arrivi, scopri una musica fantastica, meravigliosa. Mi piace guardarlo suonare, ma, amico, dopo un po’ mi viene voglia di mettere su un cazzo di album di Jeff Beck, di Stevie Ray Vaughan o dei Misfits. E devo dire che mi godo di più un cazzo di album dei Misfits, su cui canto e urlo, che roba troppo impegnativa dal punto di vista tecnico.
Però sia tu che io amiamo i Rush, quindi c’è sempre spazio per la complessità.
A me piace molto la jazz fusion. Adoro i Return to Forever, i Weather Report. Tony Williams è uno dei miei batteristi preferiti. Mi piace Allan Holdsworth. Adoro tutta questa roba complicatissima. Ma richiede che l’ascoltatore faccia un certo sforzo. Molte persone si impegnano in questo senso, molte altre non se la sentono. E chi ha già una vita complicata dice: «Voglio solo sentire i Green Day» (ride).
Nel tuo libro c’è una chitarra con un’immagine del Joker della serie televisiva di Batman, presa dall’episodio in cui fa surf. Qual è la storia?
Adoro quell’episodio. È divertente perché è stato girato a Malibu: Caesar Romero e Adam West hanno fatto tutte le riprese sulla spiaggia, poi hanno ingaggiato dei surfisti professionisti e li hanno vestiti come Batman e Joker per fare surf. Ed è un modo di surfare vintage, tipico della metà anni ’60. È stato un episodio esilarante e mi è piaciuto molto il fatto che il Joker avesse la sua tavola da surf col suo marchio. Così ho voluto immortalare su una chitarra la scena di lui con una tavola da surf. Tanti vorrebbero che diventasse una chitarra prodotta in serie, ma è difficile per via dei diritti d’autore. Ricevo un sacco di richieste per la produzione in serie di quella chitarra, è un’immagine bellissima.