Requiem, il quattordicesimo album in studio dei Korn, fuori domani, segna una ripartenza per la band di Bakersfield. Dopo aver imposto mode e stili nella prima parte di carriera, ed aver esplorato generi e sfumature, non sempre con successo, Jonathan Davis e soci hanno girato pagina e scelto di ricominciare da capo. Certo, per farlo si sono dovuti ritrovare con le spalle al muro: senza etichetta, senza concerti e, forse, senza futuro. Come per centinaia di altre band, anche per i Korn il lockdown del 2020 è stata un’occasione per guardarsi dentro nel tentativo di disegnare un domani differente. Il risultato è un disco che segna un ritorno alle origini: zero featuring, zero elettronica, zero divagazioni in direzioni altre, zero concessioni al pop, zero inseguimenti al sound del momento nel tentativo disperato di rimanere rilevanti. Tutto questo, a fronte del minutaggio più breve di sempre: siamo poco sopra ai 32 minuti. Un ritorno all’essenzialità che premia la band col disco migliore da anni a questa parte.
Nel futuro prossimo ci sono quattro date in America e poi – almeno sulla carta – un tour mondiale di passaggio anche in Europa. In attesa del ritorno di Fieldy, storico bassista della band al momento in una struttura per il rehab, il clima in casa Korn è elettrico, con sorrisi che spuntano ovunque e una gran voglia di tornare a suonare dal vivo.
Per lanciare il disco i Korn hanno annunciato una messa requiem, uno speciale concerto – per soli 300 fortunati – che si terrà oggi e che sarà possibile seguire da casa in streaming sul canale YouTube della band. Lo show sarà curato da Richard Gibbs, già curatore della colonna sonora de La regina dei dannati, cantata in gran parte dallo stesso Jonathan Davis.
A raccontare la genesi del lavoro sono Davis e Munky (James Shaffer), chitarrista e membro fondatore della band.
Come nasce Requiem?
Jonathan Davis: Non ci aspettavamo di fare questo disco. Siamo tornati dal tour e subito dopo si è abbattuta la pandemia. Non si poteva andare da nessuna parte e ci siamo chiusi in casa. Abbiamo capito che non ci sarebbero stati tour e abbiamo scelto di scrivere un altro disco per dare un senso al tempo che stavamo buttando. Sono venuti tutti in città, siamo andati in studio e abbiamo cominciato a lavorare. Quel che è stato fico è che andavamo in studio 10 giorni e poi tornavamo a casa dalle nostre famiglie fino al mese seguente. Lo abbiamo fatto quattro o cinque volte per registrare tutte le parti suonate, poi è arrivato il mio turno per scrivere i testi e provare le melodie. Abbiamo scritto 15 pezzi, ne abbiamo registrati 13/14 e poi nove di questi son finiti sul disco (10 nell’edizione giapponese, nda). Non sapevamo se qualcuno lo avrebbe mai sentito, non era questo lo scopo. L’idea era di trovarsi in studio per provare a isolarsi da quello che stava accadendo. È stato un periodo orribile, eravamo davvero convinti di morire. Il disco invece ha rappresentato un luogo dove essere felici e creativi, facendo solo quello che mi ha fatto sempre stare bene.
Munky: La musica è la nostra vita, ed è così che è nato il disco. C’è stato un giorno in cui mi sono ritrovato a pensare e ho realizzato cosa la musica significhi realmente per me: non c’è solo il concerto. Ci sono anche la scrittura delle canzoni, le prove, lo stare insieme nella stessa stanza, coi propri amici, anche solo a cazzeggiare. Condivisione. Riff, storie, tutto. Questi sono i momenti felici e non li avevo più. Per cui ho chiamato Head (Brian Welch, chitarrista della band, nda) e Jonathan chiedendo loro se fosse possibile trovarsi tutti nello studio di Los Angeles per scrivere un pezzo. O anche solo per suonarne uno. Trovare un tecnico delle chitarre, un ingegnere del suono, qualcuno che abbia voglia di lavorare e ricominciare a fare quel che sappiamo fare. Non sapevamo se avremmo mai scritto questo disco. Francamente, non sapevamo neanche se qualcuno lo avrebbe mai sentito. Siamo qui per noi, ci ha fatto sentire vivi. Il virus ci ha portato a mettere in discussione tutti. Non solo gli sconosciuti, anche le persone che ami. È come un cazzo di boogieman invisibile che ti sta sempre dietro. E poi c’è Jonathan. Negli ultimi due dischi non lo abbiamo praticamente mai avuto, perché era perso fra i suoi problemi personali. In questo disco è sempre stato in studio con noi, ogni giorno, è stato bellissimo. Anche perché lo studio di registrazione stava nella strada di casa sua, per cui.. (ride) È stato bello vederlo nuovamente così presente e così energico e creativo.
Credo che sia il vostro disco migliore da anni a questa parte. Dritto al punto, senza orpelli, è probabilmente il disco più breve della vostra carriera. C’è un forte senso di urgenza.
Jonathan: Era lo scopo che volevamo raggiungere. Come ti ho detto, avevamo registrato anche altri pezzi ma volevamo tenere solo i migliori e arrivare con un disco breve e compatto, perché le persone non hanno più una soglia di attenzione. Quella ormai è andata. Volevamo un disco che ti tirasse dentro e te ne facesse chiedere ancora. Tutti hanno 30 minuti da dedicare un disco, un’ora no.
Munky: Volevamo tornare alle origini, non in termini di suono, volevamo tornare ad essere semplicemente cinque songwriter. Niente ospiti, niente robe digitali, niente elettronica. Solo noi cinque in studio. Volevamo rapire l’attenzione dell’ascoltatore, anche solo per un singolo pezzo, colpirlo duramente, abbiamo adottato una mentalità da pugile, uno-due e sei in terra. Una roba alla Mike Tyson.
Qual è stato l’ultimo disco registrato in questo modo?
Munky: Probabilmente… Untouchables? Ci sono stati anche altri dischi con un approccio simile dopo quello, ma in questo caso abbiamo portato tutto al massimo. È tutto analogico, dalla soundboard ai microfoni della batteria, ogni elemento attraversato da elettricità è analogico. C’è stata anche una maggiore libertà artistica dato che eravamo senza etichetta, penso ad esempio a un pezzo come Disconnect che è praticamente un 6/8 con elementi quasi orchestrali.
Se i risultati sono questi, spero che lo farete ancora. E pazienza l’etichetta discografica.
Munky: Ah ah, è il male necessario. Loro mettono i soldi, e li rivogliono il prima possibile. Tutto qui.
La parola requiem richiama cla hiusura di una fase o la morte di qualcosa. Detto questo, nel disco c’è anche il concetto della guarigione. Come vedete il bicchiere, mezzo pieno o mezzo vuoto?
Jonathan: Per me è sempre stato mezzo pieno. Ma in questo caso l’album riflette il tema della morte, la morte di un mio vecchio modo di essere e, in un certo senso, anche un’idea di rinascita. Come band, volevamo invece onorare le morti di tutti coloro che sono scomparsi nel 2020 e nel 2021 e così il titolo ci è sembrato azzeccato.
Munky: Mezzo pieno anche per me. Siamo tornati al vintage, è stata una roba old school per noi, tutto quel che senti è stato catturato in analogico sull’Ampex da due pollici, con le bobine che girano. È così che registravamo i dischi una volta, era eccitante. Ci è servito a catturare l’energia del momento, come a dire: ragazzi, il nastro sta andando, è il momento di suonare, ORA! È stato come tornare a quando avevamo vent’anni.
A proposito di guarigione, come sta Fieldy?
Jonathan: Aveva bisogno di tempo per rimettersi in sesto. Sta facendo quel che deve fare e gli auguro il meglio. Voglio solo che stia bene, per cui quando avrà risolto le sue cose saremo a posto.
Munky: È ok. Ogni tanto gli mando un messaggio, a volte risponde a volte no. Gli ho scritto per il compleanno, per l’ultimo dell’anno, cose così. Voglio mantenere una certa leggerezza, ma voglio anche essere sicuro che il canale di comunicazione fra noi sia sempre aperto, che abbia la possibilità di farsi sentire e di dirci quello che gli passa per la testa. Quando abbiamo iniziato a riflettere sulla longevità di questa band abbiamo capito che la comunicazione fra noi era la chiave.
Come vedete i Korn oggi? Come valutate la vostra carriera, una band pioniera di un sound che ha a sua volta ha generato molti imitatori, oggi però praticamente scomparsi?
Munky: C’è un senso di longevità che poi si trasforma in gratitudine per quel che abbiamo ottenuto e che la vita ci ha dato. Voglio dire, c’era una probabilità su un miliardo che una band con questo suono, proveniente da un piccolo paesino della California, potesse creare questo tipo di eredità artistica. Siamo anche più maturi per cui siamo maggiormente consapevoli di questo. E tutto questo ci era stato portato via a inizio pandemia. Questo è un disco di cui siamo molto orgogliosi. Non è scontato avere questa energia e questa passione in questo punto della carriera. C’erano momenti in studio in cui guardavo Jonathan e pensavo: ma chi cazzo è questo!? (Ride) Non l’ho mai visto così felice!
Jonathan: C’è un forte senso di realizzazione, eppure ancora oggi faccio fatica a crederci. C’è sicuramente tanta fortuna, del talento, e molte scelte giuste fatte al momento giusto. Credo che fosse scritto da qualche parte nell’universo, ma questa band sicuramente proviene da un posto altro, è stata messa assieme da una mano altra. Detto questo, credo che la nostra scrittura sia buona, i nostri fan amano le nostre robe, ma la cosa più importante è che molte persone sentono una connessione con quel che facciamo, a livello emotivo. E questo crea un legame forte con la band che è quello che ci ha dato longevità. I ragazzi che venivano ai nostri primi concerti hanno avuto figli, e adesso anche quei figli hanno avuto figli! (Ride) Siamo arrivati alla terza generazione di fan dei Korn.
A proposito di ragazzi, adesso ci sono in giro un sacco di band di figli di. Penso ai Suspect208 o ai Mammoth di Wolfgang Van Halen. Ce li vedi i tuoi figli in una band?
Jonathan: Il mio figlio più grande, Nathan, è un dj e sta avendo successo, è sempre in giro e il suo progetto si chiama Hi! I’m Ghost. Pirate è malatissimo di rap, mentre Zeppelin ama cantare e ballare ma non penso sarà quella la sua strada (ride). Come genitore penso che il mio scopo sia trovare le passioni dei miei figli e spingerli verso quelle direzioni. Nathan aveva passione per la musica, per cui ok. Pirate lo vedo più lanciato verso economia e finanza, mentre Zeppelin adora… cucinare!? (ride) Per cui magari qualcosa che abbia a che fare col cibo, staremo a vedere.
Avete sentito parlare dei Måneskin?
Jonathan: Certamente! Li adoro! È stata la mia ragazza a farmeli scoprire, siamo anche andati a vederli dal vivo! Aprivano per i Rolling Stones a Las Vegas e siamo andati a vederli: sono rimasto impressionato. All’inizio ho pensato: cazzo è sta roba!? E invece son proprio bravi, suonano alla grande. È davvero una band fica.
Va bene, ma come ce ne liberiamo?
Jonathan: Come ve ne liberate!? (Ride) Non so che dirti, a me piacciono, ad altri no. Va bene così.
Non è questa la risposta che mi aspettavo da te, Jonathan!
Jonathan Lo so, e lo vedo che vuoi mettermi nei guai. Dovreste esserne orgogliosi, hanno vinto l’Eurovision e portano la musica italiana alle masse! Prova a sentire un americano che canta in italiano.
Non credo di volerlo sentire.
Jonathan: Credimi, è terribile.
Voi siete, se vogliamo, i sopravvissuti dei Korn. Siete gli unici, fra i membri fondatori, che non se ne sono mai andati. Qual è il vostro segreto?
Jonathan: Passione. La band è la mia famiglia e non farei mai niente che potrebbe metterla in pericolo. Questa band ha aiutato moltissime persone nel corso degli anni.
Munky: Non mi sono mai arreso. Non ci siamo mai arresi, non importa cosa stesse succedendo nelle nostre vite private. So che può suonare come un clichè, ma è esattamente questo. La musica ci porta felicità. Ed è così anche per gli altri. Penso a Brian che conosco da sempre, voglio dire lui mi ha insegnato a suonare la mia prima canzone…
Qual era?
Munky: Rock You Like a Hurricane degli Scorpions. Ricordo che un giorno lo vidi suonare quel pezzo a casa dei suoi genitori e pensai: è fichissimo! Insegnamelo! Ed è questo che ha acceso la mia scintilla, è stato lui la mia ispirazione per suonare.
Qual è il tuo disco preferito dei Korn?
Munky: Dev’essere necessariamente il primo. Perché c’era così tanta realness ed era così grezzo. Aveva anche un certo senso di innocenza, se vogliamo. Non sapevamo davvero cosa stessimo facendo, solo Ross (Robinson, il produttore, nda) lo sapeva.
Ogni volta che non sapete cosa fare, fate un gran disco.
Munky: Abbiamo bisogno l’uno dell’altro per raggiungere i nostri sogni. Lo abbiamo capito tardi, ma ci siamo arrivati.