Il nome Acid Arab contiene già tutte le informazioni necessarie a decodificare il duo francese, che nel live diventa un trio. Partendo infatti da un linguaggio acid house, Guido Minisky ed Hervé Carvalho sono riusciti a creare un nesso solidissimo fra due mondi apparentemente distanti come la club culture e la musica araba, ovvero della zona compresa fra il Nordafrica e il Medio Oriente, fino ad addentrarsi nei territori sperduti del Corno d’Africa. Tutto ciò si traduce in inesorabili strumenti di danza, fatti con campioni di ballate berbere, libanesi o turche caricati dai bleep acidi di una Roland TB-303. Il resto lo fanno le scarrellate di Kenzi Bourras, il tastierista algerino che Hervé e Guido si portano in giro per i live da qualche tempo.
Trovo i tre seduti a fumare sigarette fuori dal Maxxi, il museo delle arti del XXI secolo di Roma progettato dalla compianta Zaha Hadid. Hanno appena finito il soundcheck per la serata inaugurale dello Spring Attitude (19 maggio) realizzata in collaborazione con Red Bull Music Academy e “La Francia In Scena”, stagione artistica dell’Institut Français su iniziativa dell’Ambasciata di francese in Italia.
Quindi c’è un terzo Acid Arab?
Guido: Siamo due nei DJ Set, ma per i live ci portiamo dietro un tastierista.
Hervé: A cui poi si aggiungono altri due quando siamo in studio, come una specie di collettivo aperto. Un insieme di menti a lavoro sui progetti.
Perché unire proprio l’acid house con la musica araba?
Guido: È nato tutto da un invito a suonare in un festival tunisino, quando ancora mettevo dischi per conto mio. Ho pensato che fosse il caso di combinare sample orientali e techno, e sono finito per suonare in back to back con Hervé—anche lui era ospite del festival—e Gilbert della Versatile Records. Quel giorno ci siamo resi conto che quello che stavamo suonando, cioè temi arabi insieme all’acid house, era davvero una figata, qualcosa che non sarebbe dovuto finire lì al festival.
Nessuno di voi però ha origini arabe, giusto?
Hervé: No, nessuno di noi due. Però, sai, vivendo in Francia non abbiamo alcun bisogno di avere origini arabe per sentirne l’influenza. Mio nonno è portoghese, mia madre armena e io sono cresciuto a Nizza. Nel sud della Francia è lo stesso che nel sud dell’Italia o nel Portogallo: grandi comunità nordafricane che condividono le stesse abitudini, stesso cibo, stessi pensieri. L’avventura Acid Arab è iniziata per andare a riscoprire tutto ciò.
Quindi in un certo senso c’è anche la volontà di promuovere la cultura araba.
Hervé: Dopo oltre tre anni di tour e DJ set un po’ in giro per il mondo ci siamo convinti di poter mostrare la cultura araba in un mondo del tutto inusuale, con mezzi di cui nessuno si era ancora servito. Parliamo di cultura araba senza doverci sporcare le mani con religione, guerra o terrorismo. La cultura araba è parte integrante di quella francese, perciò è un po’ come se stessimo parlando anche di noi. Ci chiamiamo Acid Arab e non Acid Muslim o chissà cos’altro.
Avete molte date in Medio Oriente?
Guido: Non troppe, però ne abbiamo. Abbiamo suonato in Giordania, Libano, Marocco, Tunisia. Persino in Israele, visto che a Tel Aviv c’è una grandissima comunità di ebrei magrebini e tunisini. Alla fine, culturalmente, gli israeliani sono arabi e viceversa, solo che lo dovrebbero capire anche loro.
Chi apprezza di più invece in Occidente?
Hervé: Francia!
Guido: Svizzera!
Hervé: Beh, in effetti gli svizzeri ci vanno parecchio fuori. Poi, ovvio, ci sono i francesi e anche gli europei dell’Est. Pensa che attualmente a Belgrado questa musica sta fiorendo, c’è una scena in continua crescita anche per via del terreno fertile su cui si trova. I turchi avranno invaso quelle zone mille volte. Anche in Belgio ci chiamano spesso…
Il setup dal vivo prevede solo roba digitale o vi portate dietro qualche macchinetta?
Hervé: Abbiamo sia Ableton che qualche macchinetta attaccata al mixer. Ovvio che uno non può chiamarsi Acid Arab e andare in giro senza una 303. Però devo confessarti che è un clone. Quella vera non si può muovere dallo studio, costa 2,500 euro e non possiamo permetterci di perderla, rovinarla o farcela rubare. Il clone da 500 euro va benissimo.
Che significa La Hafla?
Guido: Significa “La festa”, molto semplicemente. Kenzi [tastierista] ha scritto tutte le parti di tastiera e synth, oltre che aver dato il nome alla traccia. Fa parte di un nuovo album che uscirà a ottobre, il nostro primo disco. In realtà siamo già a quota tre EP più qualche compilation di tracce che abbiamo recuperato da vari amici e producer. Li abbiamo riuniti sotto la stessa compilation.
Nell’album ci saranno anche molti featuring, come Rizan Said, che è il tastierista siriano di Omar Souleyman. Lui è il vero genio davvero il suono di Souleyman. Poi abbiamo contattato anche due sorelle israeliane che cantano e Rachid Taha, un cantante algerino che come noi vive in Francia e poi anche Aphex Twin. Uno di questi nomi potrebbe non esserci per davvero.
Voi stasera siete qui anche grazie all’Institut Français, giusto?
Hervé: Sì, a volte ci aiutano a organizzare il tour e ci mettono pure qualche soldino. È un’iniziativa puramente culturale, non è nulla di politicizzato. Non abbiamo bandiere e ci teniamo alla larga dalla politica nonostante qualcuno crede che la nostra musica abbia un fondo di impegno politico o sociale. La nostra bandiera è quella della festa, dello stare insieme, de La Hafla.
C’è una qualche regione araba che influenza più delle altre le vostre tracce?
Guido: Se devo essere sincero, andiamo molto a periodi.
Hervé: All’inizio ascoltavamo tonnellate di musica libanese, poi ci siamo spostati, scavando a fondo nella musica persiana. Quindi, Turchia e Iran. Da lì in poi abbiamo spaziato in tutto il Medio Oriente, con particolare attenzione al Nordafrica che alla fine influenza più di tutto il resto la cultura araba, soprattutto in Francia.
Guido: È importante sottolineare che eravamo immersi nell’oriental funk libanese e nel jazz funk solo all’inizio. L’abbiamo usato come punto di appoggio per iniziare, per partire da qualcosa a noi più familiare. Dopodiché abbiamo abbandonato quel suono arab disco, adottando definitivamente quello attuale. L’arab funk non ci va più a genio, ora solo roba vera.