Beatrice Antolini canta, compone, arrangia, registra, mixa. In più, negli anni ha messo a disposizione il suo talento come polistrumentista per altri artisti. Qualche nome? Vasco Rossi, Manuel Agnelli, Baustelle, Bugo, A Toys Orchestra, Lydia Lunch, Ben Frost, Emis Killa, Angela Baraldi. Per non farsi mancare nulla ha anche diretto l’orchestra per Achille Lauro al Festival di Sanremo del 2020, l’anno di Me ne frego. C’è molto altro, ma credo che tutto ciò basti per riconoscerla come caso unico di musicista italiana a 360 gradi.
Tutto passa però in secondo piano quando si tratta di parlare della sua carriera solista, che è ciò che le sta più a cuore. Beatrice ha infatti inciso, dal 2006 a oggi, una serie di album uno più avventuroso dell’altro, ritagliandosi uno spazio importate all’interno della scena “alternativa” italiana e rincorrendo il suo ideale di artista libera, che accoglie una miriade di influenze e le condensa in modo originale.
Dal 5 ottobre è disponibile (in formato fisico, dal 25 anche in digitale) il suo nuovo lavoro Iperborea, nel quale la Antolini canta (per la prima volta in italiano) in un flusso infuocato e sereno al tempo stesso. È uno di quei dischi che lascia a chi lo ascolta una sensazione di profondità e quiete, di trasparenza, quasi. Nove canzoni in cui sono mixati pop, elettronica, classica, etnica, urban, sperimentazione. Ma che soprattuto cercano un ri-allineamento tra le alienazioni della modernità e la parte più profonda del nostro essere. «Il lavoro è stato bello, veloce, sano. Ci ho dedicato tanto tempo, ma felicemente», dice Beatrice.
Ho apprezzato il fatto che tu sia passata all’italiano. C’è una volontà comunicativa in più.
L’avevo sempre detto che a un certo punto avrei fatto un album in italiano, però volevo realizzarlo al momento giusto. Considera che negli ultimi anni non mi sono fermata un minuto, quindi appena sono riuscita ad avere quei due, tre mesi per scriverlo mi ci sono buttata.
Hai avuto voglia di dire le cose in maniera più diretta?
Non è che con l’inglese non cercassi di comunicare stati d’animo che ritenevo importanti, ma questa volta ho voluto essere ancora più accessibile. Ci ho messo dentro una cura maniacale in questi testi.
Quale è il messaggio del disco?
È un invito ad aprire il cuore e a resistere al male, in un certo senso. Ad aprirsi alla bellezza. Mi sembra che a volte la bellezza sia diventata quasi un’offesa in un mondo che ci vuole brutti. Io ho provato a stare nella bellezza, è il mio obiettivo di vita. A volte vedo che intorno a me c’è tanta depravazione, da tutti i punti di vista.
Mi ha dato l’impressione di essere un disco di serena protesta.
Non lo definirei un disco di protesta. Come il precedente L’AB, Iperborea è un lavoro che osserva la società e i suoi cambiamenti. E li osserva dall’interno, con cuore e consapevolezza, non c’è mai rabbia, zero.
Potresti definirlo una sorta di punto di arrivo per quello che riguarda la tua ricerca?
Tutti i dischi fanno parte di un percorso per chi vuole evolvere, crescere, per chi non ha paura di mutare costantemente. Ho sempre bisogno di nuovi stimoli, nuovi obiettivi per l’allineamento della mia persona alla mia anima. Non credo nella cosiddetta legge dell’attrazione, quella per la quale fai una lista di desideri sperando che si avverino. Se non c’è allineamento puoi scrivere tutte le liste della spesa che vuoi, ma non succederà niente. In questo disco ho scritto un pezzo che si chiama Farsi raggiungere che parla proprio di questo, se c’è armonia tra se stessi e la propria anima le cose ti raggiungono, non le devi neanche cercare.
La tua carriera va in mille direzioni…
La mia stramba carriera, veramente anomala, ogni tanto me lo dico da sola, praticamente sono un ninja (ride). È bellissimo e faticosissimo. Ma ognuno ha il suo percorso, quindi va bene così e non mi lamento. Ed effettivamente tante cose che mi sono successe non le ho mai cercate. Le ho desiderate magari nel cuore, e poi mi hanno raggiunto.
Come ti definiresti?
Forse è meglio dire come non mi definirei. Non sono un’arrivista, non sono una wannabe che va nel locale a cercare di conoscere quello e quell’altro, non l’ho mai fatto. Quando posso, preferisco un certo tipo di solitudine, mi piace tantissimo. Poi studio, leggo, ho una mia vita privata di cui sono felice. In definitiva mi sento una persona libera e questo mi piace molto. Ma non la libertà di fare chissà cosa. La libertà è altro, vuol dire non aver paura, vuol dire volersi bene e avere un’autostima che non c’entra niente con l’egocentrismo. È l’essere felici di quello che si è.
Come sempre anche in Iperborea ti occupi di suonare, registrare e non solo. Vuoi avere il controllo totale della tua musica?
Mi sento un tutt’uno con la mia musica, quindi trovo naturale occuparmi di ogni dettaglio. Mi faccio un bel mazzo però esprimo completamente me stessa. Detto ciò, non vedo l’ora di condividere il palco con gli altri musicisti. Suonare il mio disco con loro, visto che non posso fare tutto da sola anche in quel frangente (ride).
Se non sapessi nulla della tua musica e ti chiedessi che genere fai, cosa mi diresti?
Ti direi che non lo so. Non lo so e non l’ho mai saputo. Non faccio nessun genere e li faccio tutti. Scrivendo di me ne hanno tirati fuori 10 mila, quindi vanno bene tutti (ride).
Dal liscio al death metal.
Preferirei il death (ride).
Ho estrapolato un verso per analizzare ogni canzoni di Iperborea, vorrei sottoporteli.
Vai!
Ne Il timore, che è anche il singolo apripista, dici “Vorremmo oltrepassare il timore dell’amore”. Pensi che al giorno d’oggi l’amore faccia paura?
Il timore dell’amore è il male di questi tempi, per superarlo è necessario fare un salto dal ciglio di un burrone. In quel salto, forse, c’è la salvezza. Bisogna lasciare andare tutte quelle cose che ci distraggono dal vero obiettivo: la nostra crescita interiore.
Scavare nel profondo per rinascere?
Per operare una trasformazione, ritrovare la fiducia, l’amore per noi stessi. Come dicevamo prima, l’autostima, il non dover essere le pedine di qualcun altro, sapere dire anche dei no. Perché a volte questo mondo ci costringe a essere quelli che non siamo e questo può portare a sentirsi inadeguati. Io l’ho provato varie volte, perché spesso quando sei diverso ti fanno sentire inadeguato, ma forse in realtà poi gli inadeguati sono coloro che seguono tutti lo stesso modello di comportamento.
In L’idea del tutto cerchi di stabilire “un accordo tra me e quest’inferno”. Cos’è l’inferno?
Tante volte mi sono sentita di vivere in un inferno, non lo nego. Mi sono trovata in situazioni molto pesanti, quindi mi sono chiesta: perché devo sempre lottare così tanto? Però io alla fine sono coinvolta in tante cose, e più uno partecipa alla vita più c’è il rischio di soffrire, se stai a casa non corri questo pericolo. Non soffri, ma non vivi nemmeno, perché solo vivendo possono capitarti mille cose belle, conoscenze meravigliose. E anche le esperienze negative ti insegnano qualcosa. A volte bisogna benedire i nemici, perché ci aiutano a capire come non vogliamo essere, come non vorremmo mai vivere.
Lo diceva anche Battiato.
Sì vabbè, il maestro è intoccabile, non si può neanche nominare. Se qualcuno mi dicesse che lo ricordo gli direi di tacere, che mi vergogno anche solo a essere lontanamente accostata a lui. È un qualcosa di altissimo.
Eppure ti dirò che ritrovo in Iperborea la stessa filosofia che stava dietro al suo Orizzonti perduti, una denuncia del decadimento dell’era moderna espressa in maniera mai pesante, con la sensazione di respirare aria pulita, saggezza.
Mi fa piacere, anche se, ripeto, ritengo quello con Battiato un paragone altissimo.
In Farsi raggiungere canti “È questo andare a cercare che ci rivela”.
Si riferisce alle persone che si studiano e si osservano a vicenda, quelle che non hanno paraocchi. Che cercano un’armonia nella loro esistenza, anche magari badando a quello che mangiano. Perché il nostro corpo è un tempio, e tante volte non si pensa che se non stai bene nel tuo corpo non starai mai bene e non raggiungerai i tuoi obiettivi. La cosa negativa sai qual è? È che a volte proprio non ti vogliono se sei un “pulitore”. I “pulitori” non vanno bene. Purtroppo viviamo in un’epoca nella quale se sei in un certo modo dovresti cambiare, castrarti, spingerti verso il basso. Io invece mi ostino a non voler cedere a tutta una serie di forze, anche se, nella società in cui viviamo, a volte ciò comporta molta fatica.
Quando in Trionfo e rovina dici che “hai il cervello semplificato giovane” ti riferisci alle ultime generazioni?
No, in realtà mi riferisco a quelli che sono rincoglioniti da tutta questa tecnologia. Il cui pensiero non prevede sfumature, è tutto bianco e nero. Le sfumature sono emoticon, quindi tu devi essere in quell’emoticon, quando invece ci sono tremila stati d’animo nell’essere.
Da dove viene il titolo di questa canzone?
Dall’avere notato che nel potere e nel trionfo di alcune persone c’è la loro stessa rovina. Se ci pensi è spesso così, più in alto ti spingi più ce la possibilità che la caduta sia rovinosa.
In Generazione cosmico canti che la nostra evoluzione va oltre la scienza.
Il risveglio della coscienza implica un ciclo incessante di creazione, realizzazione e ritorno. Il concetto di ritornare, restare, ha una profonda rilevanza in questo lavoro. Personalmente, mi ritrovo in un periodo di ritorno e, spero, di permanenza. Dopo aver affrontato percorsi complessi e variati, ci si può trovare a risentire dei segni del burnout, sfibrati, con la chiarezza mentale compromessa. L’obiettivo è trovare un equilibrio: fare meno cose, ma farle meglio, con una maggiore serenità, altrimenti, rischi di diventare un automa. Ci sono stati periodi in cui ho fatto magari quattro tour diversi in un anno, cose così…
In L’arte dell’abbandono ci sono diversi riferimenti mistici.
Cito i Padri del deserto, il Buddha Gautama… tutto questo in raffronto alla società ipercapitalista nella quale viviamo, dove tutto è fatto per i soldi, comanda sempre la potenza economica. Noi però nasciamo orientati al bene, guarda i bambini, non provano razzismo, non sono malvagi. Non nasciamo cattivi, lo diventiamo, e a volte questi stati d’animo sono esasperati dalla musica. Nel rap, ad esempio, si mette in scena tanto disagio. A me il rap piace un casino, nel disco ci sono ritmi urban, per dire. Ma mi piacciono i rapper più conscious che comunicano anche cose positive. Non è che il rap debba per forza parlare di tre argomenti.
Come si va oltre la cattiveria?
Io a un certo punto sono diventata brava ad abbandonare le cose. E non soffrivo, che meraviglia. Ho imparato a lasciare andare quello che non è necessario. Perché a volte ci attacchiamo a cose o persone che non sono così necessarie.
Veniamo alla title track.
L’ho concepita come se fosse una sorta di “fuoco glaciale”, è incredibile. Mi è venuto come una preghiera. Ha un’atmosfera molto particolare.
Sicuramente è il pezzo più sperimentale del disco.
È uscito così, perché evidentemente dovevo uscire, cantando la parola “Iperborea”. Una parola bellissima che vuol dire “oltre il vento”. Si dice che Iperborea fosse una regione situata al nord della Grecia, illuminata dal sole sei mesi l’anno, forse era l’attuale Polo nord, oppure era Atlantide, non si sa… In ogni caso vivere oltre il vento mi ha ricordato me stessa: io veramente vivo oltre il vento, mi sento diversa, nel bene e nel male. Non sono migliore di nessuno, sono come tutti, però sono diversa, questo lo so, l’ho sempre saputo. Non mi diverto con le stesse cose con cui si divertono gli altri, ho tutto un mio mondo al quale tengo molto e non mi sento in difetto per questo, anzi sento che va bene così, che ho smesso di soffrirci, quindi è una figata pazzesca.
Ci avviciniamo alla fine dell’album. Di cosa parla Pensiero laterale?
Della società dell’algoritmo, dove, tra le altre cose, noi facciamo i dischi per darli ai social. Fa veramente tristezza, se ci pensi. Lo dai ai social e finisce lì. Tu speri che arrivi a più gente possibile, ma l’algoritmo lo canalizza, lo fa vedere a determinate persone, ad altre no. Nei social poi vieni giudicato a seconda del numero di follower, con un’idea di successo assolutamente deviata. Il mio successo sta nell’essere una persona libera che non ha paura, che sa creare il proprio posto nel mondo, che agisce nella propria etica e nella propria coscienza.
Quindi per te i social sono il demonio?
Assolutamente no, possono essere usati anche bene e Internet in questi anni ci ha dato dimostrazione di quanto è stato utile per trovare informazioni, aggregarsi, conoscere persone che la pensano come te. Insomma, è super positivo. Non sono contro la tecnologia, sono contro un certo uso della tecnologia.
Come ti adatti ai social?
Non mi adatto (ride). Sono 20 anni che faccio questo lavoro e c’è una cosa di cui sono fiera: più vado avanti più divento introversa, timida, più sul palco ho mille pensieri… Quando ero più giovane me ne fregavo. Credo che tutto questo sia bellissimo, vuol dire che non mi sono fatta cambiare, mi accetto per come sono, difendo le mie debolezze, che sono bellissime.
Il disco termina con Restare e il suo incitamento a “stare nel sogno”, sorta di consapevolezza finale?
Al netto di tutte le storture del mondo, alla fine la cosa migliore è coltivare se stessi per far del bene agli altri. Perché in realtà chi si conosce e chi studia per migliorarsi poi fa molto più del bene di chi è inconsapevole. La parola “restare” va contro la tendenza a essere sempre in affanno per fare esperienze. A volte invece bisognerebbe fermarsi, restare nei propri desideri, restare nel proprio sogno. È l’unica arma che ci resta.
Quanto ti hanno arricchito le tue collaborazioni?
Le esperienze arricchiscono sempre, sono sempre positive e io ne ho bisogno, ne ho avuto bisogno per arrivare a questo disco. In certi momenti mi sono sentita nel posto giusto e nel momento giusto.
Hai suonato con le band di Vasco Rossi e di Manuel Agnelli, due esperienze musicalmente diversissime. Partiamo da Vasco: qual è stata la sfida maggiore?
In realtà, per non fare torto a nessuno, dobbiamo dire che ho collaborato anche con tanti altri artisti e band. Mi è sempre piaciuto suonare con e per altri, allargare i miei orizzonti. È una vita parallela alla carriera solista, anche se è nata proprio grazie alla mia attività da solista, che per me rimane comunque la più importante, e che mi ha portata ad essere conosciuta tra gli addetti ai lavori che a loro volta mi hanno chiamata per vivere queste magnifiche esperienze. Non parlerei proprio di sfide, ogni situazione in cui ho lavorato è diversissima dall’altra, e in ognuna ho avuto ruoli e responsabilità diverse, e anche set e strumentazioni diverse. Diciamo che mi metto molto a servizio.
Con Vasco era la prima volta che suonavi negli stadi? Che impressione ti ha fatto?
Meravigliosa! Negli stadi senti proprio la vibrazione dei corpi. Avendo iniziato più o meno nel 2006 con la promozione dei miei dischi con relativi tour e avendo già lavorato con altri artisti importanti, diciamo che le esperienze e i palchi non mi mancavano. Nel 2018 ero quindi già bella navigata arrivando, per così dire, pronta. Ma è stato comunque formativo e si imparano sempre cose nuove. Poi certo, Vasco è Vasco e quel palco è unico.
Nel tour di Manuel avevi un ruolo più importante rispetto ai tour con Vasco: qual è stata la soddisfazione più grande?
Manuel è un artista molto vero, sincero. La sua musica e i suoi testi sono sopraffini, mi hanno insegnato molto. La soddisfazione più grande per me è quella di aver suonato sul palco dei brani così raffinati. Voglio molto bene a Manuel e a tutta la banda, quello dell’alternative rock italiano è un tipo di ambiente musicale a me affine, è quello che ho frequentato di più e dove ho più amicizie perché ci sono cresciuta dentro.
Qual è la parte, diciamo così, nobile dell’attività di musicista per altri? E quella meno nobile?
Quella più nobile è il mettersi a disposizione e avere la cultura musicale necessaria per comprendere cosa si sta andando a fare. Nel mio caso anche decidere il tipo di strumentazione e il set. In questo sono molto dinamica e mi piace proporre set unici e anomali. A questo tipo di cose magari non ci si pensa mai, ma è un ulteriore impegno e attenzione nei confronti dell’artista e di tutta la produzione.
Quella meno nobile… diventare un gregario con la paura di perdere il posto.
Ricapitoliamo: suoni un sacco di strumenti, canti, componi, arrangi, scrivi testi, registri, mixi, produci (materiale tuo e altrui), sei ricercatissima come turnista…
(Mi interrompe) C’è solo un problema: sono una donna.
Pensi che ciò ti abbia sbarrato delle strade?
Forse sì, anche se non sono una che si piange addosso. So solo che le donne con impegno riescono a fare tantissime cose, quindi non bisogna lamentarsi, questo è il primo ragionamento. Il secondo però è inevitabile: lo sappiamo che a una donna si tende spesso a dare meno credibilità. Il perché non lo so, non l’ho mai capito, ancora oggi a volte subisco degli affronti da parte di uomini, che non chiamerei neanche uomini perché non lo sono. Anche nell’ambiente lavorativo ogni tanto mi sono capitate delle cose che se fossi una blogger, un’influencer ci costruirei dei casi, ci potrei scrivere dei libri. Cose inenarrabili, veramente. Detto questo ho una carriera e una credibilità, e ne sono felice, ma sono stufa di certi atteggiamenti, questo sì.