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La bella vita di merda dei Brucherò nei pascoli

La loro base è un bar in via Padova a Milano ma non vogliono sentir parlare di riqualificazione. Fanno rock ma non sanno suonare. Vengono dal rap ma il loro motto è Punk Is Dad. Pazza musica, ma davvero

Foto press

Tra un’ordinazione e l’altra, seduti ai tavoli all’aperto del bar Adriana con le cuffie nelle orecchie, Davide e Stefano aspettano che a minuti esca il videoclip, autoprodotto come ogni video della band, di Ghicci ghicci. È uno dei tanti di cui i Brucherò nei pascoli pensano che, riguardandolo tra vent’anni, andrebbero fieri perché girato con una grande attenzione a non prestare il fianco a facili stereotipi o spettacolarizzazioni. Dallo schermo della videochiamata mi saluta – «Ciao cara!» – con un gran sorriso e in mano un bicchiere di vino bianco per il clienti anche Luigi, che lavora nel bar di via Padova che per il duo è un po’ una casa.

Il bar è a nord di piazzale Loreto ma l’espressione NoLo qui non suona bene, non trova nessuna eco. Lo stesso bar Adriana non è per nulla allineato con i trend della gentrificazione. È un locale semplice, di quartiere, banale in un universo, quello dei Brucherò nei pascoli, in cui essere banale è un pregio. Probabilmente un artista non lo sceglierebbe per il suo happening e una band non lo sceglierebbe per ambientarci un videoclip. A meno che non si tratti di loro.

Il video di Bar Adriana l’avete girato anche qui, dove venite spesso. Il mio preferito però è quello di Immenso, dove le protagoniste sono delle giovani pallavoliste. Una delle ragazze controlla spesso le notifiche dello smartphone, è turbata da qualcosa. Solo alla fine compare la ragazza che si lascia intendere sia dietro ai suoi pensieri scuri e la clip si chiude con una ripresa da lontano di loro due che discutono. Parlano tra loro, noi non possiamo ascoltarle né seguire la fine della storia. Guardandolo ho pensato che il video avrebbe avuto più successo se ci avesse mostrato il passaggio successivo, se avesse reso più stuzzicante questo finale. Invece la chiusura che avete scelto sembra dire che sono cazzi loro, che non c’è niente di morboso da raccontare, che il punto giusto da cui seguire la storia è quello che le lascia libere di non essere guardate.
Davide Perego: Mi fa molto piacere che dici questa cosa. C’entra in pieno anche con il video di Ghicci ghicci perché il protagonista ha un potenziale scandalistico e di aggancio altissimo per un certo tipo di mercato e promozione, cosa che invece noi vogliamo tenere a distanza. Anche se ci piace essere provocatori cerchiamo sempre l’aspetto più umano e naturale, meno spettacolare, in quello che facciamo. Tra l’altro non lavoriamo mai con attori professionisti. È la naturalezza che trovi nella quotidianità che vogliamo raccontare, anche se non è la via più semplice.

Potremmo dire che raccontate anche le loro storie?
Davide: Sì, parlare per altri è una cosa a cui teniamo molto. Pensiamo che ci contraddistingua considerando che la musica italiana di oggi è molto autoreferenziale, soprattutto nell’indie. È un desiderio legato anche al quartiere di via Padova, dove viviamo e lavoriamo. Ci piace l’idea che le persone prendano le nostre canzoni e le facciano loro. Anche per questo noi non compariamo quasi mai nei nostri video.
Stefano Rettura: Non ci arroghiamo il diritto di parlare al posto loro, non siamo politici, ma c’è un forte bisogno di comunicare il nostro pensiero su quello che ci sta succedendo intorno e dare voce attraverso di noi anche ad altri.

Parlate spesso di via Padova con grande affetto. Siete molto legati al quartiere?
Davide: Per risponderti ti dico che io faccio anche cinema e mi capita di organizzare in zona eventi di cinema indipendente. Quando lo faccio mi dicono che è bello che io porti cultura in questo quartiere. Io ho sempre detto il contrario: è il quartiere che rende speciale quello che facciamo. Per questo non capiamo, per esempio, il concetto di riqualificazione. Cosa vuoi riqualificare qui? Questo posto è così denso di umanità, di diversità. Anche di povertà, di cose brutte, però anche di queste ci nutriamo.

Ascoltandovi e vedendo le vostre esibizioni si respira un’atmosfera molto underground, anche un po’ da sound system, grezza e cruda. È una cifra stilistica o è semplicemente quello che vi viene più naturale fare?
Stefano: Di base è un’attitudine che ci è sempre venuta molto naturale. Però facendolo da tanto tempo ci siamo resi conto che è anche diventata una cifra stilistica che ci differenzia. La spontaneità c’è sempre ma con una coscienza differente.
Davide: C’è da dire che questa sporcatura che senti è anche una scelta legata al tipo di sound che vogliamo portare. In Ghicci ghicci per esempio abbiamo distorto in maniera pesante le voci. C’è anche una ricerca da parte nostra.

Nel preparare l’intervista ragionavo sul concetto di melodia. Non definirei la vostra musica melodica però nonostante questo ascoltandovi, anche se i vostri brani sono molto vicini al rock duro e all’hardcore, sotto al casino – in senso buono chiaramente – arriva sempre una bella linea melodica che ti fa canticchiare. Non è così semplice in brani come i vostri. Che rapporto avete con la melodia?
Stefano: Siamo contenti che ti arrivi questo perché fondamentalmente tutti i pezzi hanno questo ritorno alla melodia. Anche perché arrivando dalla scuola rap questo ritorno al melodico c’è sempre stato. Ora che stiamo sperimentando nuovi progetti questo aspetto dell’hip hop ce lo portiamo dietro volentieri.
Davide: Sì, io e Stefano veniamo dal rap underground e siamo sempre stati abituati a scrivere. Non sappiamo suonare nessuno strumento ma la parola porta con sé una melodia. Ce l’abbiamo già in testa quando andiamo da Nic, il terzo membro del gruppo e l’unico che sa suonare diversi strumenti, e gliela canticchiamo. Sulla base dei nostri mugugni lui lavora agli arrangiamenti e alla produzione. Una volta creata la demo del pezzo chiamiamo poi i musicisti che fanno parte della famiglia per suonarla insieme. Quindi melodia e testi arrivano da noi due, arrangiamenti e canzone finale sono frutto del lavoro collettivo. Noi diciamo sempre che nella band il 25% lo faccio io, il 25% Stefano e il 50% Niccolò.

Oltre agli strumenti non utilizzate nemmeno il computer per buttare giù una prima bozza della canzone?
Davide: No no, anche per questo in molti definiscono punk il nostro progetto. È più per l’atteggiamento che per il sound, che nel nostro caso segue diversi filoni: rap, rock, jazz. Alla fine il punk è stato inventato da giovani ragazzi che non sapevano suonare. Noi facciamo la stessa cosa senza nemmeno le chitarre.

Rolling Stone vi ha messi nell’elenco di Classe 2023, la lista di artisti che quest’anno potrebbero fare la differenza. Sostanzialmente hanno scommesso su di voi. Cosa ne pensate?
Davide: Mah, andare alla Snai non è poi così diverso. No, dai, siamo contenti, vuol dire che l’impegno che ci stiamo mettendo sta dando frutti. Tieni conto che anche se abbiamo 30 anni e questo vuol dire che stiamo facendo sacrifici importanti. È bello che una realtà come Rolling Stone stia facendo questa scommessa, ma la scommessa più grossa la stiamo facendo noi.

Si sente il peso delle aspettative?
Stefano: Non avendo vent’anni l’aspettativa è grande. Stiamo mettendo da parte molte cose come il posto fisso, la casa e la famiglia per puntare sul progetto. Non c’è possibilità che non funzioni perché stiamo scommettendo tutto. Da questo punto di vista Nic è stato una manna dal cielo quando è comparso perché ci ha permesso tanta libertà e si rispecchia nei nostri obiettivi, sempre legati ai nostri mezzi e possibilità.
Davide: Prima di incontrare Nic ci siamo interfacciati con altri produttori, ma alla fine non si mettevano mai a lavorare con noi e non capivamo perché. Per anni – e abbiamo iniziato a 13 anni circa facendo autoproduzioni rap – abbiamo cercato dannatamente un produttore che credesse nel progetto.

Mi sembrano però aspettative molto concrete e personali, legate all’investimento che state facendo. Non hanno niente a che fare con l’idea di dover dimostrare ad altri di riuscire a raggiungere un obiettivo. Dall’esterno date l’impressione di essere molto centrati su quello che volete fare ed essere, tenendo a debita distanza le interferenze e i condizionamenti esterni.
Davide: Assolutamente, aspettativa per noi vuol dire solo che lo facciamo da tanto e crediamo che il progetto possa funzionare. Alla base c’è un bisogno di sfogarci e di voler dire qualcosa, anche grazie alla vita di merda che facciamo tutti i giorni. Il fatto per esempio che adesso siamo qui nel nostro ufficio, il bar Adriana, è un modo per preservare la nostra unicità. Raramente usciamo, ci piace molto la vita di strada che c’è qua, è una grande ispirazione. Il costo della vita tra l’altro è ancora abbordabile, continua a essere un piccolo paradiso nonostante i prezzi purtroppo si stiano alzando.

In un brano cantate “fanculo il rap italiano”. Cosa volete dire?
Davide: Da una parte è per il nostro percorso rap che non è mai stato capito, lasciandoci una sorta di amarezza per il fatto che non ci ha ripagati. Magari semplicemente non siamo stati al posto giusto al momento giusto. Questo è l’aspetto più personale. L’altro invece è legato al fatto che quando avevamo iniziato a fare rap erano tempi in cui eri uno sfigato mentre adesso è la musica più ascoltata al mondo. Però a parte qualche raro esempio che spacca il culo, il resto è tutta roba uguale, artisti che fanno milioni con materiale super stereotipato. Anche se vieni dalla strada non ci vuole molto ad aprire un libro e fare attenzione a quello che dici, a evolverti. Quindi fanculo il rap italiano.
Stefano: Dopodiché ci compriamo tutti i dischi nuovi e ascoltiamo tutto, trap inclusa.

Ho visto su YouTube una vostra performance su un terrazzo a Las Palmas, alle Canarie. È davvero sbracata, a tratti surreale, ma la qualità, la sostanza delle canzoni non perde niente. Possiamo aspettarci qualcosa di vagamente simile a quello per il tour in arrivo o farete i conti con contesti più impostati e strutturati?
Davide: C’è da aspettarsi molto di più. Quella performance in cui ci siamo io e Stefano che cantiamo, Nic che griglia la carne e Fabio – ovvero Fabio Senna, il nostro co-produttore, quella è la terrazza dove vive – che mette le basi è quello che noi abbiamo fatto fino a questo momento. Adesso invece suoniamo in full band, anche se non so se sarà così tutta l’estate. L’atteggiamento sarà sempre quello, ma crediamo tanto nel live con la band al completo sia per la qualità del risultato che per l’esperienza collettiva.

Avete battezzato il tour Punk Is Dad. La mamma chi è?
Davide: Siamo noi. Il punk è il papà e noi siamo i mammi. E quest’estate partoriremo dalle nostre pance il punk sul palco.

Mi sono fatta l’idea che vi piaccia molto perdere il controllo. Lasciarvi andare, lasciare che la musica fluisca quasi al di là della vostra volontà. È il vostro approccio alla vita?
Stefano: Se ti riferisci ai live noi non ne siamo troppo consapevoli nel senso che sul palco scompariamo. Dopo i concerti siamo degli angioletti perché abbiamo sputato fuori tutto, siamo molto più leggeri. Il pubblico ci dice che abbiamo un’energia particolare.
Davide: C’è anche da dire che i musicisti sono bravissimi, credono nella nostra spontaneità e ci fanno sentire a nostro agio e al sicuro. Personalmente non vedo l’ora che finisca il live per ascoltare le loro parti strumentali.

Pensate che le cose migliori vengano esercitando il maggior controllo possibile, lavorando ossessivamente a qualcosa fino a raggiungere la forma perfetta, o che vengano dalla più totale libertà espressiva, libertà anche da se stessi e dai limiti che la testa a volte ci impone?
Stefano: In certi progetti c’è la ricerca della perfezione però a volte si perde la naturalezza con cui erano stati concepiti. A noi è capitato spesso di tornare indietro a una prima versione perché era più diretta.
Davide: Quando scriviamo le canzoni la briglia è scioltissima però siamo anche dei perfezionisti. Quello che manca nel 90% dei casi è per mancanza di mezzi. La musica, come molte forme d’arte, è anche fatta da quello che hai a disposizione, da quello che non c’è. Capita che ci diciamo «qui ci starebbe bene un synth, ce l’abbiamo? No, allora non si fa».

Bestemmie e vaffanculo: mi sembra che nella scrittura non vi poniate grossi limiti.
Davide: Siamo dei provocatori, sì, ma la provocazione non è mai fine a se stessa. Vorremmo che fossero spunti di riflessione. Anche quando magari diciamo cose maschiliste lo facciamo per far scattare nel pubblico quella scintilla che gli faccia dire che questa cosa non va bene. Da questo punto di vista ci identifichiamo molto in quello che avevi scritto sui Viagra Boys.
Stefano: Sì, anche riguardo alle loro pance. Al concerto che abbiamo fatto al Biko per esempio per mostrare la mia bella pancia mi sono messo una maglietta da ciclista molto aderente. Era un modo per dire che non mi prendo troppo sul serio. Anche perché quello che sto facendo sta già dicendo che a modo nostro siamo delle persone serie.

Il vostro nome è piuttosto insolito, com’è nato?
Stefano: Ci pensiamo da molto a questa risposta. Brucherò nei pascoli è un nome molto inclusivo. È al plurale ed è un invito a fare questa cosa con noi. Non è né maschio né femmina. È un sogno, un’aspirazione, collettiva. È un riferimento alle nostre radici.
Davide: Ed è pure animalista.

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