Musicisti, produttori, talent scout, discografici, autori di hit mondiali per sé e per altri, compositori di colonne sonore. Nella lunghissima parabola dei fratelli La Bionda trovano spazio i Beatles e i Depeche Mode, Bud Spencer e Terence Hill e la Domenica Sportiva, i Righeira e Giorgio Moroder, Amanda Lear e Paolo Nutini, spot televisivi e pop d’autore. Alto e basso che si mescolano senza imbarazzi, a dimostrazione di quanto sia inutile e dannoso mettere paletti e precludersi occasioni.
Ai lettori più giovani, molto probabilmente, i nomi di Carmelo e Michelangelo La Bionda diranno poco, ma se si parla di eccellenze italiane – una volta tanto slegate dal mondo della moda, del cinema o del cibo – non si può ignorarli. La loro storia, fatta di tenacia, applicazione, furbizia, talento, intuito e tantissimo successo è una di quelle che è un piacere ascoltare e, successivamente, scrivere. Questo è il riassunto di due ore al telefono con Carmelo La Bionda.
Le vostre origini sono siciliane, ma voi siete milanesi d’adozione, se così possiamo dire. Quando si è trasferita a Milano la vostra famiglia?
Sono nato nel 1949 e mio fratello tre anni e mezzo più tardi, dopodiché i miei si sono trasferiti al nord credo intorno al 1954. In Sicilia, mio padre era agricoltore e mediatori di animali come buoi e cavalli. Qui a Milano, invece, diventò subito un impiegato alla Edison prima che cambiasse nome in Eni. Un cambiamento radicale…
Come hai scoperto la musica?
A casa, tramite la radio, quello che passava il convento insomma. A 7, 8 anni ero impazzito per Elvis Presley, Fats Domino e Little Richard. La mia fortuna era quella di avere una vicina di casa che, per qualche motivo che non conosco, possedeva i 45 giri usati nei jukebox e un giradischi. Da lei scoprii Celentano, Mina, quando ancora si faceva chiamare Baby Gate, e i cosiddetti urlatori, tutti quei cantanti influenzati dal rock’n’roll. Ecco, io ero attratto in maniera fatale dal ritmo e da quel suono, anche se mio padre mi faceva ascoltare musica napoletana e Carosone, che pure apprezzavo. Nei bar, poi, c’erano i jukebox appunto, e ogni tanto si scoprivano cose pazzesche, italiane e straniere; mi dovevo nascondere tra la folla perché ero troppo piccolo per stare lì, ma ho imparato molte cose in quel periodo. Poi sono arrivati i Beatles ed è cambiato tutto quanto, compresa la mia vita…
Li hai scoperti grazie alla radio?
No, stavolta fu la televisione ad aiutarmi, mi ricordo anche il titolo del servizio con cui si parlava di questa nuova moda inglese: “Perché urlano?” (ride). Il giorno dopo diventai Beatles-dipendente, per me era come se si fosse rivoltato il mondo, non esisteva nient’altro oltre a loro. Non sono certo l’unico, anzi, a testimonianza di come Lennon e soci siano stati uno dei momenti fondamentali della cultura popolare. Arrivarono al momento giusto nel posto giusto e intercettarono i bisogni della mia generazione, quella post ricostruzione bellica, in maniera totale.
Tu suonavi già qualche strumento?
Ho iniziato poco dopo a suonare la chitarra, mio padre mi ha insegnato i primi accordi e mio fratello ha seguito le mie orme. Con grande disdetta per mia madre, che non voleva, mio papà ci comprò una chitarra acustica che suonavamo a turno. Mi ricordo che aveva delle corde durissime, mi spaccarono tutte le dita fino a quando scoprii che ne esistevano altre più leggere. Abitavamo a Milano in zona Corvetto e io e mio fratello giocavamo ai giardini e ci portavamo dietro la chitarra. Ogni tanto trovavamo qualcuno appassionato come noi e ci scambiavano suggerimenti da autodidatta. Quelli furono i nostri inizi e dopo i Beatles arrivarono i Rolling Stones, gli Hollies, poi gli Who e via via tutti gli altri della British Invasion. C’era un gran fermento, specialmente nelle cantine delle case, prima che a qualcuno venisse in mente di affittarle a 1000 euro al mese a uno studente fuorisede della Bocconi… (risate)
Come hai vissuto tu i “meravigliosi anni ’60”?
Sono stati belli, non posso lamentarmi. All’epoca andavo all’Istituto Feltrinelli, una scuola superiore che mi teneva impegnato per 36 ore alla settimana, era praticamente un lavoro. Suonavamo solo nei weekend, ma non ci facevamo scappare nessuna occasione e iniziammo a frequentare i locali dove si tenevano concerti delle band di beat locali. Conoscemmo i Camaleonti, i Quelli, prima che si trasformassero in Premiata Forneria Marconi, i Ribelli e fummo fortunati perché sotto casa nostra, in Piazzale Bonomelli, aprì un club chiamato Whiskey A Go-Go, come quello di Los Angeles. All’inizio era solo un bar, soprattutto notturno, in cui bere e ascoltare musica di sottofondo, ma presto il proprietario capì che i gruppi portavano molta gente e quindi diventò uno dei punti nevralgici del beat milanese. Quasi subito molti di quei complessi diventarono famosi, troppo per il locale sotto casa mia, ma c’era un continuo ricambio, non solo di italiani. Vidi spesso i Rokes, i Casuals e molti altri che arrivavano dal Regno Unito…
Immagino che tu e tuo fratello abbiate visto i Beatles al Vigorelli…
Assolutamente sì, e questo grazie alla mamma di una compagna di classe proprio di mio fratello che, in quel periodo, faceva ancora le medie. La signora ci accompagnò al concerto pomeridiano, tutti urlavano come pazzi e lo spettacolo fu molto breve, circa 40 minuti. Sto cercando di ricordare come fosse mentre ti sto parlando, ma faccio fatica a visualizzare quel momento, ho solo dei flash. Pagherei qualunque cifra per potermelo rivedere con calma, ma non succederà mai credo.
Parliamo finalmente di voi due come musicisti: il primo pezzo professionale, se così possiamo dire, che avete scritto, l’avete dato da cantare ai Ricchi e Poveri, giusto?
Esatto, nel 1970. Eravamo finiti per caso in una società di edizioni musicali che stava cercando autori dopo aver messo in piedi, qualche tempo prima, un gruppo assieme a un’altra coppia di fratelli, Salvatore e Maurizio Fabrizio. Quest’ultimo era un musicista del conservatorio e finì per scrivere Almeno tu nell’universo, tanto per dire. Ci incontrammo per caso e iniziammo a collaborare nonostante io e Michelangelo, mio fratello, non fossimo proprio dei fan di Gigliola Cinquetti. Ci invitarono nel loro ufficio e il loro editore, Michele Delvecchio, ci chiese di fargli sentire i nostri pezzi. Per fortuna, mio fratello aveva un accenno di canzone un po’ cantautorale e la cosa li colpì in qualche modo. Ci dissero che tipo di suoni e pezzi stavano cercando e ci sentimmo invitati a proporgli altre cose, seppure non avessimo mai pensato di diventare autori per conto di altri. Alla fine, dopo un po’ di lavoro, venne fuori Primo sole, primo fiore, che fu cantata dai Ricchi e Poveri e partecipò al Festival di Venezia. Fu una grossa opportunità per noi, soprattutto perché eravamo due sconosciuti senza esperienza.
Quale fu il passo successivo della vostra carriera?
Direi che fu l’incontro con Bruno Lauzi, musicista e uomo di grande cultura. Si interessò a noi perché eravamo diversi dagli autori con cui era solito collaborare e finimmo per diventare i suoi chitarristi per tre anni. Bruno aveva scritto Amore caro, amore bello per Lucio Battisti ed era piuttosto conosciuto all’epoca. Avevamo approntato uno spettacolo con tre chitarre, sulla scia di Crosby, Stills & Nash, di cui eravamo tutti appassionati, una cosa completamente diversa da quello che si vedeva in giro. Con lui scrivemmo il nostro primo album, Fratelli La Bionda S.r.l., ispirato all’America e al sound acustico della West Coast, e Bruno si occupò dei testi. Sempre tramite Lauzi, conoscemmo Mia Martini, e mio fratello scrisse le parole di Piccolo uomo, che fu un grande successo, oltre ad altri brani. Noi la vedevamo come una sorta di Joni Mitchell italiana, ma i suoi produttori preferirono per lei un repertorio molto tradizionale, nonostante sperassero di venderla anche all’estero. Il cognome, Martini, era riferito ovviamente al liquore, mentre Mia ricordava quello della Farrow, e suonava meglio di Mimì…
Incredibilmente, il vostro debutto dal vivo come La Bionda fu al Festival di Musica d’Avanguardia e di Nuove Tendenze a Roma, nel 1972. Che rapporto avevate con quel tipo di scena, quella prog di Balletto di Bronzo, Banco del Mutuo Soccorso, Stormy Six, e con un movimento in cui la politica stava cominciando ad assumere un’importanza capitale?
Noi ci presentammo con un repertorio folk e acustico, sulla scia delle band americane West Coast del periodo, anche se il trend era chiaramente un altro. In qualche modo, le nuove sonorità e i cambiamenti ci influenzarono e credo che si senta nel nostro secondo disco, Tutto va bene, del 1975, registrato agli Apple Studios di Londra e con la partecipazione di Nicky Hopkins al piano. Fu in quel momento che ascoltammo per la prima volta la black music che stava cominciando a filtrare dagli Stati Uniti: Barry White, il Philadelphia sound, Isaac Hayes, tutti musicisti che stavano a metà tra il soul e la nascente disco music. Provammo anche a sperimentare i primi testi in inglese, un altro segno dei tempi, e ci distanziammo subito da una scena a cui non appartenevamo.
Che tipo di accoglienza ci fu per i vostri primi due album?
Gli appassionati ci seguivano, ma certo non eravamo dei musicisti da classifica, potremmo dire di nicchia, ecco. Però riuscivamo a campare di musica, da professionisti, soprattutto grazie al lavoro come turnisti e arrangiatori, principalmente per Bruno, come raccontato in precedenza, ma anche con Fabrizio De André – suonammo la chitarra su Volume 8 – e qualche altro. La svolta, in qualche modo, arrivò in Inghilterra quando, durante la registrazione del nostro secondo disco, conoscemmo per la prima volta la nostra amica/nemica Amanda Lear.
Lei fu il primo vero successo internazionale targato La Bionda.
La incontrammo grazie al nostro pigmalione/produttore che aveva conoscenze nel jet set e quindi ci presentò Amanda prima a Londra e poi a St. Tropez, qualche mese più tardi. Lei frequentava la scena rock, dai Roxy Music a David Bowie e John Lennon, era modella e amica di Salvador Dalí e una grande promotrice di se stessa. A Londra andava tutte le sere o quasi a teatro a vedere il Rocky Horror Show, con il cast originale che poi finì nel film, e quindi ci andammo pure noi. Non avevamo alcuna idea di produrla, non era nei nostri pensieri, non credevamo neppure che potesse essere interessata a noi. D’altronde era amica di Bryan Ferry e Bowie e aveva conoscenze ovunque, aveva anche inciso un pezzo intitolato Star, che fu un insuccesso. A noi interessava andare a Monaco di Baviera, dove stava nascendo la disco music europea, con Moroder che lavorava con Donna Summer e i Silver Convention, basata sugli stilemi americani, ma senza la connotazione tipica di cose come Sylvester o Barry White.
La grande intuizione di Giorgio Moroder, italiano pure lui, vale la pena ricordarlo, fu quella di personalizzare quel sound, togliendogli una parte di connotazioni prettamente nere e di emancipazione omosessuale, inserendo al contempo elementi tipicamente bianchi e marziali, tipici della Germania per esempio. Una strada che, a modo vostro, e con altri accenti – italiani, addirittura country, molto melodici – avete seguito anche voi come La Bionda.
È vero, la disco in Europa fu piuttosto differente, anche la Francia aveva una scena di grande successo e con delle caratteristiche ben precise – vedi Baciotti o Cerrone – ma il primo a smarcarsi dall’America fu ovviamente Moroder con Donna Summer e I Feel Love. Amanda Lear fu il nostro primo esperimento, in tal senso, un tentativo di capire i limiti e le possibilità di una nuova musica. Andammo a Monaco di Baviera e trovammo un contratto con la Ariola, perché volevamo qualcuno che conoscesse bene l’ambiente. Noi abbiamo svolto il lavoro di produttori esecutivi, un modo per capire come muoversi in quell’ambito, che sfruttammo poi per i nostri lavori successivi. Decidemmo di puntare su Tomorrow per il mercato italiano e fu un successo enorme, che ci diede una grossa libertà creativa.
Prima di puntare sul vostro cognome, pubblicaste come D. D. Sound ovvero Disco Delivery Sound per la Baby Records…
Nacque tutto per caso, grazie alla nostra amicizia con Stephen Schlaks, che a quei tempi era appena arrivato in Italia e aveva trovato lavoro non come musicista, ma come centralinista proprio alla Baby Records. Questo senza sapere una parola di italiano, ovviamente (ride). In ogni caso, lui ci presentò al proprietario dell’etichetta, che era anche un grosso distributore di dischi, e così iniziammo a collaborare ad alcune produzioni disco music. Uno dei primi pezzi fu appunto Disco Bass, che diventò la sigla della Domenica Sportiva, una cosa molto semplice, una celebrazione del suono del basso, a cui seguì Shopping Baby, che finì in un altro programma a TeleMontecarlo. Il vero punto di svolta, però, fu 1, 2, 3, 4 Gimme Some More, con quel ritmo disco e l’armonica country, che ebbe un successo pazzesco in Italia e anche all’estero, seppur in maniera minore. Avevamo ancora delle remore a usare il nostro vero nome, pensando che fosse troppo legato a un passato acustico e folk, ma poco dopo decidemmo di incidere come La Bionda e diventammo immediatamente famosi in tutto il mondo.
Il singolo bomba fu One for You, One for Me del 1978, giusto?
Proprio lui, una cosa decisamente inaspettata perché diventò celebre in posti come Thailandia, India, America Latina oltre a Italia e Germania, due mercati su cui ovviamente puntavamo di più. Pensa che non doveva neppure uscire come singolo, fu mio fratello ad aggiungere il riff definitivo a un pezzo che non ci sembrava così forte. Volevamo puntare su un brano lento e che ci piaceva molto, There for Me, ma le cose spesso vanno per conto proprio e non come te le immagini. Nulla di cui lamentarsi, mi pare ovvio, ma diciamo che fu una straordinaria casualità.
Quindi One for You, One for Me ti ha cambiato la vita come i Beatles?
Direi di sì. Rappresenta il successo vero, quello che ti fa guadagnare soldi e che ti rende famoso agli occhi degli altri. È proprio un punto di svolta ben preciso.
Giusto per dare un’idea a chi sta leggendo oggi nel 2021: di quante copie vendute si sta parlando per un singolo di successo come fu il vostro?
Eh, piuttosto difficile capire quante siano le copie realmente vendute di un disco, in quegli anni poi c’erano dei calcoli strani che includevano LP e 45 giri negli stessi rendiconti, senza contare che involontariamente le cifre potevano essere molto approssimative. In ogni caso, siamo dalle parti di 3 milioni di copie, una bella soddisfazione, e dopo oltre 40 anni è ancora un brano che viene spesso usato nella pubblicità e nei film, un evergreen insomma.
Sembra incredibile a pensarci oggi, ma in quel periodo – si parla della fine dei ’70 – voi riuscivate a pubblicare due dischi all’anno, uno a nome La Bionda e l’altro come D.D. Sound.
Eravamo dei forzati della musica (ride). Tieni conto che non facevamo neppure delle serate, era tutto lavoro in studio, in cui passavamo la maggior parte del tempo. Nel 1979 pubblicammo Bandido, sempre scritto da noi due con Richard Palmer-Jones, ex dei Supertramp che si occupava dei nostri testi, in cui mescolavamo il cha-cha-cha con la disco. Avevamo la massima libertà artistica possibile e cacciavamo nei pezzi tutto quello che ci passava per la testa, bastava che ci convincesse a sufficienza. In contemporanea uscì anche l’album Cafè dei D.D. Sound, con cui esploravamo in altri modi la disco music europea.
L’apice creativo, e non sono solo io a dirlo, arriva nel 1980 con un pezzo che è ormai un classico del techno pop, I Wanna Be Your Lover, che vi consacra definitivamente. Non è difficile immaginarsi quel singolo nella discoteca di gente come 2 Many DJs o Daft Punk…
Sono contento che tu lo dica, I Wanna Be Your Lover è uno dei primissimi esempi, se non il primo, di pop elettronico, ed è il brano a cui quasi tutti associano il nome dei La Bionda. Per quel pezzo girammo anche un videoclip molto bello, un cartone animato in stile giapponese in cui ogni tanto facciamo capolino noi due con i sintetizzatori. Qualche anno fa abbiamo incontrato Paolo Nutini che ci ha confessato di avere un’adorazione assoluta per quel pezzo e so per certo che i Daft Punk la conoscono molto bene…
Poteva essere l’inizio di un lungo viaggio e invece, un po’ a sorpresa, decideste di non proseguire su quella strada.
Incidemmo ancora un brano sulla falsariga, Boxes, ma poi chissà perché decidemmo di rallentare e cambiare orizzonti. Forse fu stanchezza, chi lo sa, fatto sta che ci dedicammo a costruire il nostro studio di registrazione e dedicarci alla produzione di altri artisti. Non esisteva una vera pianificazione, la Baby Records era un’etichetta composta da tre persone, diventò davvero grande quando cominciò a pubblicare i dischi dei Ricchi e Poveri o di Albano e Romina.
Prima di passare a questa nuova fase della vostra carriera, vorrei chiederti una cosa leggermente differente. Il racconto fino a ora si è svolto lungo gli anni ’70 e inizio degli ’80, un periodo politicamente molto turbolento in Italia e in Europa, culminato con la lotta armata e con la scolta del decennio successivo, quello edonista e del riflusso. Sebbene forse concettualmente molto distanti da tutto ciò, come li vivevate quegli anni e quegli avvenimenti?
In Italia si avvertiva una situazione pesantissima, da cui in qualche modo fuggimmo andando ad abitare in Germania. Ovviamente ci stabilimmo là per lavoro – ben consci del fatto che anche là ci fossero organizzazione terroristiche – ma devo dire che il clima era decisamente più rilassato che da noi. Quando tornavamo a trovare i nostri genitori a Milano, potevamo constatare di persona quel clima da cui cercammo di tenerci sempre lontani, in qualche modo. Noi non suonavamo neppure dal vivo, quindi non frequentavamo quel giro di musicisti, festival, organizzatori.
Ritorniamo alla vostra storia, nel momento in cui entrano in gioco i Righeira, con cui sbancaste nuovamente le classifiche di mezzo mondo.
I Righeira ci furono presentati da due amici comuni che lavoravano nel mondo della moda. Sapevamo che Johnson aveva inciso un 45 giri un po’ punk, Bianca surf, ma in quel momento ci sembravano solo dei rivali meno fortunati di Ivan Cattaneo che aveva appena avuto un successo enorme con Duemila60 Italian graffiati. Johnson e Michael, in attesa dell’occasione giusta, suonavano spesso alle feste con un repertorio di canzoni degli anni ’60, ma avevano qualcosa di strano e sorprendente che ci colpì. Io e mio fratello avevamo in mente di fare un programma televisivo musicale molto particolare, legato ai videoclip e alla grafica e pensammo ai Righeira come presentatori. Girammo anche una puntata zero che non ci portò da nessuna parte, ma Johnson ci chiese di produrre un pezzo che aveva scritto e di cui aveva inciso un provino, molto diverso da come lo conoscono tutti oggi, Vamos a la playa. La facemmo diventare l’inno dell’estate, nonostante non fossimo convinti che potesse realmente diventare un vero successo. Anche stavolta fummo smentiti e quel pezzo vendette oltre 3 milioni di copie, il primo di una buona serie, No tengo dinero e L’estate sta finendo soprattutto.
Anche con i Righeira non durò molto, giusto una manciata di singoli e due album, il secondo dei quali, Bambini Forever, che non ebbe lo stesso clamore del debutto.
Uno dei singoli, Italians a Go-Go, lo incidemmo pensando ai Mondiali di calcio del 1986, ma la Nazionale fu buttata fuori quasi subito (ride). Trovo comunque che abbia dei bei pezzi, specialmente Oasi in città che, secondo me, andrebbe ritirata fuori e pubblicata nuovamente.
In effetti sembra quasi un pezzo dei Pet Shop Boys…
Mi fa piacere che ti piaccia, meritava davvero maggior fortuna e considerazione.
Contemporaneamente al lavoro con i due torinesi, avete iniziato a comporre colonne sonore per il cinema, riscuotendo anche in quel caso un egregio successo.
Soprattutto nella prima metà degli anni ’80 ci siamo dedicati alle colonne sonore, collaborando con Sergio Corbucci per i film di Bud Spencer e Terence Hill, ma non solo. Subentrammo ai fratelli De Angelis, gli Oliver Onions, e lavorammo a Poliziotto superpiù, Chi trova un amico trova un tesoro, Bello mio, bellezza mia con la Melato e Giannini, Cane e gatto, A tu per tu e Miami Supercops, che è diventato un vero e proprio culto negli anni recenti. Credo che a fare il nostro nome a Corbucci sia stato Renzo Arbore, almeno così ci hanno detto: ci presentammo a Roma per vedere un pre-montato del film, ma in quel giorno uno sciopero dei tecnici mandò a monte tutto quanto. Sergio ci portò a pranzo e ci raccontò per filo e per segno la storia e poi ci disse: «Siamo a posto, no? Ora potete comporre la musica» (ride).
Ha funzionato!
Eh sì, evidentemente gli siamo piaciuti! E tieni conto che i budget per la musica erano piuttosto risicati, spesso ci mettevamo dei soldi noi perché ci interessava fare bella figura e imporci come compositori di colonne sonore. Soprattutto in America piacque molto la nostra musica e molti si ricordano di noi per quei film. Ogni tanto ci invitano ancora agli Spencer & Hill festival in tutta Europa come ospiti.
Nel frattempo, il vostro studio di registrazione, Logic Studios, era diventato un’eccellenza non solo italiana, viste le frequentazioni internazionali.
Avere un proprio studio, in quegli anni, era il sogno di ogni musicista e produttore e noi fummo bravi e fortunati. Dai Logic Studios passarono Paul Young, Ray Charles, Pooh, Vasco Rossi, Renato Zero, Rihanna, Paolo Nutini, Robert Palmer, Lady Gaga, i Depeche Mode ci registrarono Violator. Rilevammo i locali all’interno della CGD/Messaggerie Musicali, in cui già sorgeva uno studio, e risistemammo tutto quanto, avvalendoci dei migliori architetti e tecnici. Il vero problema era che gli studi costavano una fortuna e spesso lavoravamo in perdita, poiché volevamo mantenere un livello tecnico molto alto. Abbiamo continuato, tra vari spostamenti, fino al 2013 con venti persone che si occupavano anche di mastering per CD e vinili, montaggio audio e video e altre cose ancora. Quando la CGD è stata ceduta alla Warner sono cambiate troppe cose e abbiamo preferito smettere.
Di cosa vi occupate ora?
Abbiamo composto molta musica per pubblicità nel corso degli anni, forse ti ricordi di Sorrisi Is Magic e qualcun’altra… In linea di massima però, amministriamo i La Bionda, il nostro patrimonio se così si può dire, e io continuo a comporre musica che al momento resta nel cassetto. Mi diverto ancora molto a scrivere, ma di sicuro il mondo è cambiato radicalmente rispetto a quando abbiamo avuto successo noi.
Come vorresti che fossero ricordati i La Bionda?
Come degli artisti internazionali estroversi e con molta fantasia, che hanno abbracciato generi e stili diversi con una bella ampiezza di vedute.