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La confessione di Random, il rapper stritolato dal flop a Sanremo

L’ascesa grazie al passaparola, ‘Amici’, un successo dietro l’altro, accordi milionari. Poi il Festival sbagliato «per colpa mia». Depressione, errori, cause legali: ecco cosa succede quando smetti di “funzionare” e pensi che i numeri siano tutto

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«Col passare del tempo, ho cercato di guardare indietro e quindi, insomma, di capire». Non è la frase che di solito senti pronunciare da un ventiduenne, no? Ma quella di Emanuele Caso in arte Random è una storia un po’ particolare. Per molti, lui è giusto uno dei tanti rapper emersi negli ultimi anni, nella categoria di quelli meno truci e più o meno invece incorporati dal pop – uno di quelli finiti a Sanremo sulla spinta di essere un fenomeno del web. Il che sarebbe un grande salto, un grande risultato. Nel momento però in cui Random a Sanremo non ha lasciato particolare traccia, finendo ultimo e venendo sfottuto moderatamente nelle varie pagelle in tempo reale che fioriscono attorno al festival, il massimo che si può fare oggi sarebbe: un’alzata di spalle. La tentazione cioè di dire che, per fortuna, ogni tanto i miracolati del web e i rapper edulcorati a un certo punto vengono bastonati dal destino, nel momento in cui incontrano sfide musicali che vanno al di là degli stream e delle view e della corrispettiva comfort zone.

Potremmo chiuderla qui. Ma faremmo un errore, e un torto. Il torto lo faremmo a Random stesso, ovvio; ma anche alla fanbase che gli è rimasta fedele, piccola o grande che sia. L’errore invece lo faremmo perché il risultato sarebbe quello di perdersi una storia interessante. Una di quelle fatte di ascesa, caduta e redenzione che alla fine hanno un loro perché.

Anche perché la caduta di Random ha significato una depressione, un essere abbandonato da (quasi) tutti, incappare anche in guai con la legge, la totale distruzione dell’autostima. Mentre la nostra vita continua e le pagelle sanremesi si susseguono edizione dopo edizione, ci sono delle vite reali che dal grande carrozzone prendono ma che, in qualche caso, dal grande carrozzone sono triturate. Ricordiamocelo, la prossima volta che sghignazziamo di fronte a un’esibizione un po’ così, di fronte a un outfit pacchiano, di fronte a un tonfo artistico.

Non che sghignazzare sia sbagliato: Sanremo nasce (anche) per questo, per i nostri sghignazzi cioè, e (anche) a questo deve le sue fortune, il suo essere fenomeno di costume e trasversale catalizzatore d’attenzione senza pari: quindi chi accetta di salirci a bordo deve essere pronto anche a pagarne il prezzo. Questa è la storia di Random. Uno che su Sanremo ha investito per fare il definitivo salto di qualità, ma che invece da Sanremo è stato investito, e investito male. Chi sarà il Random dell’edizione 2024? Ce ne sarà uno? Ci saranno dei Tananai in grado di crescere partendo da una disfatta e da una propria inadeguatezza, o ci sarà chi invece da Sanremo sarà sfregiato, umiliato, senza che noi manco ce ne accorgiamo?

«Mio padre fa il muratore, e anche io l’ho aiutato più volte. Quindi so bene che per fare bene una casa prima devi gettare le fondamenta, poi mettere i primi mattoni, poi costruire piano piano tutto il resto, fino ad arrivare al tetto. Ecco: per me è successo invece esattamente il contrario. Perché “casa Random” abbiamo iniziato a costruirla dal tetto, in fretta e furia: doveva essere subito sul mercato, e tutti si aspettavano venisse venduta molto bene».

In sintesi: un album, Giovane oro, ancora da minorenne, ma soprattutto subito dopo appena compiuti i 18 anni un singolo, Chiasso, che diventa per solo passaparola da web doppio platino. Così, dal nulla. Quello che arriva dopo, nella carriera di Random, è il classico cursus honorum del rapper-per-famiglie: la chiamata di Maria De Filippi a una edizione speciale di Amici, poi un EP con delle tracce tutte piuttosto fortunate (dai titoli che sono un programma: Rossetto, Sono un bravo ragazzo un po’ fuori di testa, Soli al mondo, Scusa a a a) e subito impreziosito dai featuring che fanno bene ai numeri e danno pure credibilità (Emis Killa, Ernia, Carl Brave). «Quando hai 18 anni appena compiuti e ti ritrovi all’improvviso in mezzo alle attenzioni di chiunque, e vedi anche che i tuoi idoli diventano i tuoi colleghi e ci parli da pari a pari, beh, tu puoi anche ripeterti di sentirti umile e di essere quello di prima, credendoci più o meno o no, ma prima di tutto sono gli altri a non vederti più come quello di prima. Che tu lo voglia o no. Diventi un marchio. E magari pure tu ti vedi come tale».

«Cioè, pensaci. Fai una canzone: vai in classifica. Fai la seconda: funziona pure quella. Fai la terza: idem. La quarta: pure. Ti chiama direttamente Maria De Filippi, per chiederti di partecipare in una versione speciale di Amici, non un semplice concorrente fra tanti. Ecco: lì inizi a pensare che qualsiasi cosa tu faccia sia oro. E che per produrlo, questo oro, basti fare le cose così come ti vengono: tanto spaccano comunque, no? Perché magari senti dire che invece c’è bisogno di mesi e mesi di lavoro, di concentrazione, di focus sugli obiettivi, ma tu stai facendo tutto velocemente e funziona, funziona sempre. Credi di essere il più forte in assoluto. E credi che il più forte in assoluto sia anche il tuo team. Un team fatto da persone di cui ti puoi fidare: perché sono prima di tutti i tuoi amici, i tuoi parenti, le persone che fin da quando eri ragazzino sono state con te, e ti hanno seguito nel tuo tentativo di portare un po’ di canzoni e di rap in un mondo, quello di Riccione, dove sembrava esserci posto solo per la dance, solo per la house e la techno. Metti insieme te, tuo fratello, tuo cugino, in realtà rispettivamente un muratore, un pescatore, uno che zappa la terra, e pensi comunque che sia il team più forte d’Italia. Del resto le cose funzionano alla grande: perché pensare il contrario? Ma se la tua squadra è forte davvero, lo capisci solo quando arrivano i problemi. E io contro questa cosa ci ho sbattuto contro».

«La verità? Da un certo punto in avanti, abbiamo preso semplicemente sottogamba le cose. Io ero un ragazzino. Ero completamente fuori di testa, e al tempo stesso volevo essere generoso con tutti: appena il successo e i soldi sono arrivati, ho cercato di darne una fetta a tutti. Uno dei miei migliori amici è diventato il mio fotografo; un altro è diventato il mio dj; un altro ancora il mio autista tuttofare; un altro ancora era quello che mi curava la comunicazione. E sì che mio padre me l’aveva anche detto: “Mai, mai mischiare lavoro e amicizia. Mai”. Ma io ho fatto di testa mia, perché volevo condividere con più persone possibili la fortuna che mi era caduta addosso. Più le cose andavano bene, più io condividevo, coinvolgevo. E stavo già diventando un po’ pieno di me, sarò sincero: quando è arrivata la chiamata di Maria De Filippi io inizialmente le avevo detto di no, ci credi? Me lo ricordo ancora adesso quel giorno: ero in bagno, squilla il telefono, mi chiama il suo braccio destro e mi propone di fare appunto Amici speciali e io all’inizio gli faccio “Ma no, non ci penso nemmeno sinceramente, io cantare delle cover? Anche no, guardate…”. Meno male che poi ho cambiato idea: perché è stata Maria a far esplodere Sono un bravo ragazzo, è stata lei a farmi diventare non più solo un fenomeno da YouTube fatto solo di stream, ma un artista con un pubblico vero, trasversale, più adulto. Le sarò sempre grato. Sono un bravo ragazzo un po’ fuori di testa è la mia prima canzone andata in radio. Sono diventato così un artista a tutto tondo, non solo il fenomeno da web. Inizio a sognare definitivamente in grande. Anzi: iniziamo a sognare in grande».

E qui arriva a Sanremo, la voglia di parteciparci, e il fatto alla fine di essere presi, sull’onda appunto di questa crescita esponenziale (e perfettamente strategica nel riposizionamento di Sanremo varato dal regno Amadeus). «Quello è stato l’inizio della fine. Il massimo traguardo è stato anche il momento in cui ha iniziato ad andare tutto male, ci pensi?».

Ok: rewind. Riavvolgiamo il nastro. Controlliamo diapositiva per diapositiva quello che è successo, in quel 2021. «Anzi, facciamo un passo indietro: 2020. Ho tre canzoni in classifica ma, per colpa del Covid, non posso suonare in giro: la cosa mi manda via di testa. Inizio a smaniare. Però ecco, arriva la cosa di Maria, arriva poi questa possibilità di partecipare a Sanremo: ovviamente la prendo. Ma sbaglio tutto. A 19 anni, sbaglio tutto. E la colpa è solo mia, eh, non voglio dare la colpa a nessuno. Il punto è che nel momento in cui arriva questa possibilità di partecipare a Sanremo, io che faccio? Scelgo di fare una canzone da Sanremo. Non era Random va a Sanremo, ma era Random va a Sanremo adeguandosi, facendo la canzone da Sanremo. Capisci la differenza?».

«In realtà l’edizione 2021 fu quella del grande rinnovamento imposto da Amadeus, della grande svecchiata, ma che ne sapevo io? Avevo pensato che l’unico modo per starci dentro in modo sensato era invece adeguarsi un po’. Che errore. Avevo due pezzi: scelsi quello più classico, la classica cosa terzinata, con gli accordi semplici semplici, che ci metti sopra l’orchestra e prende tutto vita senza troppi sforzi. Arrivo lì, canto, e capisco fin da subito che in realtà quel vestito sonoro mi stava addosso male, malissimo. E l’avevo scelto io! Che poi guarda, non era quel pezzo ad essere debole, ad esempio fosse finito in mano ad Ultimo sarebbe stato perfetto, ma su di me era davvero sbagliato. Cioè, in un mio album ci può anche stare, ma se deve essere il pezzo che mi rappresenta, no. Non mi sento a mio agio sul palco dell’Ariston, per usare un eufemismo. Una sensazione ulteriormente peggiorata dal fatto che noi come team eravamo completamente nuovi, lì a Sanremo, e sarò sincero: non eravamo pronti ad affrontare una cosa del genere. Un evento di questa portata, con un questo tipo di dinamiche».

Bene. Cosa succede a questo punto? «Al Festival arrivo ultimo. Che poi, ti dirò: col senno di poi non mi vergogno per niente di questo risultato, sai? Un po’ per il fatto che in passato c’è chi è arrivato ultimo ma ha fatto una carriera strepitosa, un po’ perché mi dico: non sono arrivato ultimo, sono arrivato solo ventiquattresimo, davanti a tutti gli altri cantanti che sono stati scartati, è comunque un grande risultato. Ma gli altri, gli altri…». Gli altri? «Gli altri non la pensavano così, in quel momento. E, sarò sincero, lì per lì nemmeno io. Ero preso male. Critiche ovunque. Anche qualche derisione, diciamolo. Per la prima volta, il mio mondo magnifico in cui andava tutto sempre bene e tutto sempre in crescendo prendeva una batosta. La prima scossa di terremoto subita dalla mia casa, bella forte; e, costruita com’era, ovvero dal tetto e non dalle fondamenta e pure in tutta fretta, ha iniziato subito a sgretolarsi».

«Due mesi dopo la partecipazione a Sanremo esce l’album Nuvole, che ovviamente avevo preparato prima del festival. Contavo parecchio su quel disco lì, sai? Rivisto oggi, capisco che molte cose non andavano invece. Non andavo io, perché in quel disco lì ora sento chiaramente che avevo iniziato a dare molta meno importanza alle cose che scrivevo, procedevo un po’ col pilota automatico. E questo sai perché? Perché nel periodo di lavorazione di questo disco vivevo in una continua “presa bene”, totale, assoluta, era tutto bello, era tutto perfetto, era tutto una figata. Ma questo mi faceva passare la voglia di scavare davvero dentro di me. D’altro canto perché farlo, se stai bene come stai e se tutto sembra andare alla grande? Scavare dentro di te inizia a sembrarti una perdita di tempo: sei troppo occupato a goderti tutte le cose fantastiche ti stanno succedendo senza sforzo alcuno. Ma non andavano anche altre cose, in quell’album lì. Ad esempio musicalmente era troppo semplice: ok che la semplicità sa anche essere un pregio, ma diciamolo, si poteva fare meglio».

«Io e Zenit, che di quel disco è produttore, eravamo praticamente un duo. Una entità inscindibile. Del resto, avevamo cominciato praticamente assieme. Non solo: ci eravamo fatti la promessa “Io lavorerò solo con te, per tutta la mia vita, e tu farai lo stesso”. Ce l’eravamo pure tatuati, pensa. Ecco, questa promessa è stata una rovina. Nuvole non è un brutto disco, ha anzi un paio di pezzi che reputo ancora oggi molto belli, ma di sicuro si poteva fare sicuramente molto meglio se solo ci fossimo confrontati con qualcuno di esterno, con qualcuno che poteva dare un parere oggettivo da fuori e farci capire dove ci fossero ancora margini di miglioramento, perché accidenti se ce n’erano. Ma figurati: noi – non solo io e Zenit, ma proprio tutto il team – eravamo sempre nel viaggio che bastavamo a noi stessi. Del resto fino a quel momento era andato tutto alla grande, no? Perché metterlo in dubbio, perché metterci in dubbio…».

«Anche dopo la botta di Sanremo, invece di imparare, pecchiamo di superficialità: affrontiamo il lancio di Nuvole con troppa leggerezza e, sì, un po’ di supponenza. Lo facciamo uscire e basta, credendo fosse sufficiente. Invece magari era il caso di far uscire prima qualche singolo a preparare il terreno, fare magari qualche collaborazione, fare qualche concerto… Bene: non facemmo nulla di tutto questo. Nulla. E il disco, beh… Non era magari un disco da primi posti in classifica, come ti dicevo io per primo oggi ci sento dei limiti, figurati. Ma non eravamo certo preparati ai risultati che arrivarono. Io per primo, non ero preparato. Risultato? Il mondo mi crolla letteralmente sotto i piedi».

«Allora cosa fai? Inizi a pensare che devi pensare di cambiare qualcosa. Magari se finora il tuo fotografo è stato uno dei tuoi migliori amici d’infanzia, pensi che potrebbe essere il caso di chiamare un professionista, visto che è una fase della tua carriera in cui devi rimettere un po’ di cose a posto; e pensi pure di fare lo stesso con la musica, non è che vuoi sostituire Zenit e non lavorare più con lui, no, ma pensi che magari c’è bisogno dell’intervento di qualcun altro; e uguale per il management, per tutta una serie di piccole cose. Sei convinto in tutto questo che i tuoi amici possano capirti al 100%: del resto hanno vissuto tutta la tua parabola assieme a te, no? Si renderanno conto anche loro che magari bisogna provare a cambiare qualcosa, per rimettere la macchina in carreggiata. Anche perché questa macchina era comunque un peso e una responsabilità enormi per me: cioè, prova a pensarci, avevo 19 anni e avevo un team di 20 persone che dipendeva tutto da me, dai miei risultati, così come avevo degli accordi milionari – non dico tanto per dire: erano davvero milioni di euro – che ovviamente mi facevano cadere addosso il peso delle aspettative. Capisci? Non potevo prendere le cose alla leggera. Non potevo fare finta di niente, se all’improvviso iniziavano ad esserci dei problemi. E ho pensato: dobbiamo farci affiancare da persone con esperienza, da persone che ne sanno, da cui possiamo imparare. Così come ho pensato: i miei amici saranno i primi capirlo, loro che da sempre sono con me».

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Invece? «Con Zenit il rapporto si è distrutto. Per lui, io avevo semplicemente infranto la nostra promessa, il nostro giuramento: avevo iniziato a lavorare anche con altre persone, e questo lui non lo accettava. Fino ad allora, per quanto riguarda la musica, era lui a guidare la macchina: io non volevo che scendesse dalla macchina ma, almeno, che stesse accanto a me, che fossimo un po’ più alla pari. E che magari anche lui imparasse da persone che ne sapevano più di noi. Lui invece non accettò in nessun modo questa cosa. E si trasferì a Milano, mettendo una pietra tombale sul nostro rapporto».

«Contemporaneamente succedeva la stessa cosa con un altro dei miei migliori amici, quello che mi faceva da fotografo: anche lui deluso dal fatto che avessi chiesto di affidarmi ad altre persone che non fossero lui. Proprio perché era uno dei miei migliori amici, da lui all’epoca mi aspettavo vicinanza e comprensione in un momento di difficoltà… Ma in realtà nemmeno io mi rendevo conto di quanto la vita potesse essere complicata, di quanto nella vita delle altre persone non ci fossi solo io, ma potevano esserci il lavoro, la fidanzata. E quando a un certo punto ho visto che lui non c’era come prima, per me, proprio l’aver troppo bisogno di lui mi ha portato a perderlo, il nostro rapporto si è guastato. Ancora: pure con quello che era il mio dj ho sbagliato. Gli ho tolto il ruolo, cosa che magari in sé poteva pure starci visto che cercavo qualcuno di più esperto, ma il problema è che gliel’ho tolto nel modo sbagliato, non mi sono comportato bene. Quando dopo un po’ ho capito il suo punto di vista su quello che era successo fra noi, ci sono rimasto molto male. Con lui, come con tutti altri, si stava assieme da quando avevo 14 anni. Capisci? Sembravamo indistruttibili, sempre uniti. Invece, in poco tempo è crollato tutto».

«Sono rimasto da solo. Molti dicevano che ero diventato un pezzo di merda, ma anche io ce l’avevo col mondo, perché dal mio punto di vista io avevo sempre condiviso tutto quando le cose andavano bene coi miei amici, e ora che invece avevano preso ad andare male, beh, loro mi avevano abbandonato. Mi è venuta una totale crisi d’identità artistica, poi. Non sapevo più quello che ero, quello che volevo fare, dove volevo farlo: ho speso un anno per fare un disco prettamente rock – sì, praticamente punk-rock – per poi rendermi conto che non mi rappresentava, non mi ci ritrovavo in nessun modo (anche se alcuni pezzi continuo a considerarli molto riusciti, e prima o poi li farò uscire da qualche parte). Poi ho fatto un intero disco trap: anche lì nulla, ho semplicemente lavorato a vuoto. Mesi buttati al vento».

«Non mi fidavo più di nessuno, facevo saltare in aria le cose, tutti gli impegni presi, col risultato che oltre ad essere solo all’improvviso ero pure ricoperto di cause intentate contro di me. E questo significa soldi, tanti soldi da cacciare. Soldi che stavano invece finendo. Ho fatto cazzate, cazzate di cui non voglio manco parlare, tipo quella con la macchina (Random ha guidato un’auto senza patente, spacciandosi per suo fratello ad un controllo dei Carabinieri, nda). Stavo male. Stavo veramente male. Continuavo a ripetermi: non so cosa fare, ogni cosa che faccio non va bene. Sono andato in depressione. Fino a quando…».

Fino a quando? «Mi ha salvato la fede». La fede? «Io sono molto religioso, sai? Sono figlio tra l’altro di due pastori evangelici. Mi ha salvato la fede, credimi. Me lo ricordo come fosse ieri. Stavo pregando, ero in quei giorni al massimo della disperazione ma non ne parlavo con nessuno, nemmeno con la mia famiglia, e allora pregando ho fatto una cosa molto semplice: ho chiesto un segno. In quell’istante, è entrata in camera mia madre e mi ha detto “Sai, credo che sia arrivato il momento che tu faccia qualcosa con Mattia. È arrivato il suo tempo. Me lo sento”».

«Mattia era un mio amico, ci conoscevamo da tempo, ma era di un giro completamente diverso: lui era legato appunto al clubbing, alle discoteche, come un po’ tutti quelli che fanno qualcosa dalle mie parti. Dopo che mia madre mi ha detto questa frase, l’ho chiamato: “Come stai bro, come va?”. Ci siamo dati appuntamento. Abbiamo parlato a lungo. Sono ripartito da zero. Ho capito che dovevo farlo. E ho capito che farlo non mi doveva spaventare: perché se mi fossi spaventato, avrei continuato a fare lo stesso errore che aveva finito coll’affossarmi. Quello cioè del volere sempre di più, del non accontentarsi, del pensare sempre e solo a crescere, ad essere un vincente ed accettarmi solo come tale».

«Avevo perso tutto in poco tempo? Non avevo più nessuno? Né soldi, né amici? Però avevo una casa, di tutte le cose fatte quando tutto girava bene questa è rimasta, una casa grande, comprata non solo per me ma per tutta la mia famiglia. E a proposito di famiglia, ne avevo una che mi voleva bene. Avevo poi finalmente una fidanzata giusta: perché una donna accanto a te può essere la tua fortuna come la tua condanna, e quella precedente era stata una condanna. Ma soprattutto: non era vero che partivo da zero, dirlo e pensarlo era irrispettoso verso chi da zero parte veramente, è stato fondamentale capirlo. Io comunque avevo un nome; la gente bene o male mi conosceva. Con tutte queste consapevolezze, riprendo a lavorare. E resto scioccato».

«Resto scioccato, perché all’improvviso mi rendo conto che riesco di nuovo a tirare fuori quello che ho dentro davvero, dopo chissà quanto tempo. Resto scioccato, perché non mi capacito di come sia possibile tirare fuori il bene dal male, di come una situazione così disperata mi abbia permesso di ripartire nel modo migliore, nel modo più sereno. Resto scioccato perché quando vado da Francesco Facchinetti – a cui d’accordo con Mattia avevo chiesto di darmi una mano in questa nuova fase, perché è l’unico che non mi aveva chiesto mai nulla e anzi mi aveva fatto solo favori anche se non ero mai stato sotto contratto per lui – con una trentina di pezzi e lui mi dice che no, non vanno bene, sono anche belli ma non sono quello di cui io ho bisogno di adesso, io invece di incazzarmi a morte come mi sarei incazzato un tempo capisco quello che intende e torno a lavorarci sopra contento che qualcuno mi abbia spronato a farlo».

E ora? «Intanto ho fatto uscire un brano, Diamanti, e mi sento come uno che ha vissuto tre vite e ormai non ha più paura di niente: succeda quel che succeda. Sono sereno. Il fine non sono più i numeri. Il fine – so che ti sembrerà stupido, ma se mi conoscessi bene capiresti, e prima o poi spero che ci conosceremo meglio – è aiutare le persone attorno a me, il più possibile. I numeri, se servono, servono solo a questo. Che era quello che pensavo all’inizio. Ed è quello che sono tornato a pensare».

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