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La decrescita felice di Rkomi

In un periodo in cui bisogna essere sempre connessi e presenti, lui è sparito per un anno dai social, dai palchi, dai media. «Avevo bisogno di decrescere, tornare indietro per riuscire a guardare al futuro». Dopo il Sanremo ‘Insuperabile’ del 2022, il più anticonformista dei cantanti usciti dalla scena rap milanese è andato in India, ha ascoltato i Velvet Underground, ha letto Burroughs, ha cercato d’incasinarsi una vita che stava diventando troppo comoda. Al Festival porta ‘Il ritmo delle cose’, una canzone piena di domande, perché è quando smetti di fartene che sei fregato

Foto: Clara Borrelli per Rolling Stone Italia

Quando ho incontrato per la prima volta Mirko/Rkomi era il 2016, l’anno zero della trap in Italia. Era venuto a trovarci in redazione nei giorni in cui la sua Aeroplanini di carta era al numero uno della classifica Viral di Spotify. Aveva 21 anni, era timidissimo, col cappuccio della felpa calato sulla fronte, ma una cosa era già chiara: la penna di Rkomi, la sua scrittura lirica, sghemba e anticonformista rispetto ai canoni del rap. Qualità che avevano attirato l’attenzione di Calcutta, fan della prima ora che lo portò ad aprire i suoi concerti. In pochi avrebbero pronosticato che il rapper del quartiere milanese di Calvairate, che scriveva i testi al parco da solo con le cuffiette e leggeva Osho, Kundera e I fratelli Karamazov di Dostoevskij, sarebbe diventato una pop star da classifica.

«Poco tempo fa mi hanno dato un giubbotto da 1000 euro per un video e non l’ho messo, non ce l’ho fatta. Gli occhiali da sole ai concerti non riesco a metterli: sono molto fissato con l’energia e ti devo guardare in faccia. L’energia – quella positiva o negativa – viene dagli occhi, per me è fondamentale come gli esercizi per il karma e la respirazione, la muay thai (la boxe thailandese) e la lettura». Questo era il Mirko del 2016 alla sua prima intervista, sembra un’era geologica fa.

Qualche anno dopo la svolta pop, più o meno consapevole, sicuramente naturale e non artificiosa, spinta anche dagli incontri con Elisa e Jovanotti. Poi il successo di numeri e pubblico di Taxi Driver nel 2021, streammato ovunque, e il Sanremo Insuperabile del 2022, fino ai live nei palazzetti a torso nudo e al disco il coppia con Irama. E dopo un anno in cui ha fatto perdere le tracce – in tempi social una magia alla Copperfield – viaggiando tra l’India e Calvairate, eccolo di nuovo a Sanremo 2025.

Foto: Clara Borrelli per Rolling Stone Italia. Trench: Alexander McQueen. Tank top: Alyx. Jeans: Levi’s. Cintura: Ann Demeulemeester. Scarpe: Guidi

Che versione di Rkomi ci ritroveremo davanti? Qualche traccia – più o meno attendibile, anche se le sue canzoni sono portatrici sane di autofiction – l’ha seminata in quella manciata di rime che ha pubblicato nel disco di Night Skinny (Fuck Tomorrow 2): “Mi sento così bene che quasi quasi mi ammazzo”, “Mi manca Calvairate incalcolabile emozione”… Nostalgia del passato e problemi a godersi il successo? C’è anche Odio, quindi sono, canzone pubblicata qualche settimana fa in cui riflette sull’odio come motore della nostra società giocando con rime politicamente scorrette, e con un video ambientato in un distopico quiz game della tv che come scenografia ha l’iconica scritta “Tutto ha un prezzo”. Che la vena dark abbia preso il posto di quella sentimentale? O sono una faccia della stessa medaglia? Le domande su e per Rkomi sono tante, pronte per questa lunga chiacchierata pre Sanremo.

Eccolo. Riappare all’ora di pranzo in uno studio fotografico di Milano sud, già acceso per gli scatti di questa cover di Rolling: la faccia da working class hero che ricordavo fa un po’ a cazzotti con i vestiti alla moda, ma lui allenatissimo, non solo fisicamente, nelle contraddizioni ci sguazza. È sempre timido, si arrovella, si perde, si fa mille domande, ed essendo un’intervista in cerca di risposte ci sistemiamo in un ring dialettico, ai lati di un divano di finta pelle, registratore al centro.

Ripenso a quando ci siamo visti la prima volta nel 2016, in redazione a Rolling Stone. Mi è rimasta impressa la tua timidezza. Che ricordi hai di quel periodo, quando artisticamente tutto per te è cominciato?
In quel periodo – stava per uscire il mio album d’esordio Dasein Sollen – continuavo a farmi tante domande, sul mondo e su me stesso. Ed è la stessa cosa che mi è successa ora, dopo nove anni, con il pezzo che porto a Sanremo, Il ritmo delle cose, e con l’album che seguirà. È stato un anno di scavo ed esplorazione, di nuovo dentro di me. Ho approfondito i rapporti con la mia famiglia, mia madre e mio fratello, ho sviscerato un sacco di cose di cui non avevo mai parlato e ho esplorato sia il mio vecchio quartiere, dove continuo a tornare sempre, sia l’India durante un viaggio. Non voglio paragonare Calvairate all’India, ma ho trovato delle similitudini per il trambusto e il disordine… Avevo proprio bisogno di un po’ di casino.

Troppa quiete nella casa nuova?
Mi stavo rendendo le cose un po’ troppo dritte, lineari. Avevo una vita comoda e semplice, non solo dal punto di vista economico, e avevo poco tempo per stare con me stesso. Poi mancavano i momenti di noia, che sono quelli a cui artisticamente devo di più. Non mi facevo più domande né sgambetti per mettermi in difficoltà e rendermi conto di aver bisogno di studiare musica, leggere.

Che lacune volevi colmare?
Non una in particolare. Io ho la terza media, è la prima volta che lo dico in un’intervista. Ho lasciato al terzo anno di alberghiero accettando il lavoro del ristorante in cui avevo fatto lo stage, quindi non ho preso nessun diploma. Ho tante lacune e mi dico tante bugie, lo facciamo tutti. Il problema è che le dico ad alta voce, nelle canzoni… Sono una persona anche troppo genuina: il fatto che lo dica magari non mi rende tale agli occhi degli altri, ma in realtà so di esserlo.

Questa genuinità molto emotiva non è solo una debolezza, è la forza delle tue canzoni. Anche quando facevi solo rap…

Arrivando da un quartiere popolare, conoscendo determinati personaggi e avendo vissuto determinate situazioni tipo mangiare ogni giorno pasta al burro, non avevo proprio stimoli per darmi all’ostentazione tipica di certo rap. Ho sempre avuto uno spirito alla Robin Hood, mi affezionavo ai buoni, a chi resisteva nella giungla di cemento.

Cosa intendi per spirito alla Robin Hood?
Hai presente il film L’odio? Io mi sono sentito Hubert, il ragazzo che faceva pugilato, che cercava di dare un senso al casino che lo circondava, canalizzandone le energie e facendolo diventare un valore aggiunto. Quindi sì, ho sempre fatto fatica a perdermi in certe stronzate del rap.

Foto: Clara Borrelli per Rolling Stone Italia. Pantaloni: Vivienne Westwood. Cintura: Ann Demeulemeester. Scarpe: Guidi

Nell’ultimo anno sei sparito – dai social, dai palchi e dai media – e oggi non è poi così facile. C’è una ragione particolare per questa sparizione?
Avevo bisogno di decrescere, è un termine che uso anche nel Ritmo delle cose e mi rappresenta molto: significa tornare indietro per riuscire a guardare al futuro.

È stato difficile sparire?
Ne avevo così bisogno che non ho fatto fatica. Con i social mi è venuto naturale, faccio una fatica bestiale a usarli e per questo vengo definito da chi mi circonda come l’anti-algoritmo. Magari posso lasciare un commento sulla pagina di un fotografo che mi piace e seguo, ma è difficile che passi il mio tempo su Instagram. Ogni tanto mi sento vecchio, temo di non capire cosa pensano e cosa piace ai più giovani e quindi credo che dovrei applicarmi di più sui social. Per fortuna ho due nipoti, di 6 e 12 anni, che mi raccontano cosa ascoltano…

E tu, da anti-algoritmo, che letture e ascolti hai fatto in questo periodo di disconnessione?
Ho letto cose più grandi di me, che all’inizio neanche capivo e ho preso in prestito visioni artistiche di grandi musicisti. Sono partito ascoltando i Velvet Underground e Patti Smith. Grazie a Lou Reed ho letto Delmore Schwartz che aveva ispirato molto i Velvet e a cascata Arthur Rimbaud, che Schwartz aveva tradotto. Delmore Schwartz aveva problemi di depressione e alcolismo, si suicidò a 53 anni, e aveva una dote innata nell’utilizzare le parole. Era distruttivo e cinico. Poi ho letto Burroughs e Paolo Nori, scoperto in rete a tarda notte: il suo Bassotuba non c’è è molto divertente. L’illuminazione è arrivata con un libro di Paolo Sorrentino Hanno tutti ragione: l’introduzione dove racconta una serie di malesseri mi è stata d’ispirazione nella scrittura di Odio, quindi sono.

A proposito di malessere, alcuni tuoi colleghi come Sangiovanni e Angelina Mango nell’ultimo anno hanno abbandonato temporaneamente le scene per burn-out, stress, ansia. Ti è capitato mai di vivere una situazione simile?
No, ho avuto la fortuna di lavorare prima di vivere con la mia musica e quindi non ho subito la pressione e lo stress che c’è dietro questo lavoro, che è enorme, molto più di fare il cameriere dalle 9 alle 15 e dalle alle 16 alle 23. Mi rendo conto che questo lavoro del cantante non finisce mai, che vai a casa e ti stressi, continuando a rimuginare su un brano… ma avendo già fatto un lavoro manuale poco retribuito certi malesseri non mi appartengono, non li capisco. È un limite mio, non sto giudicando nessuno, probabilmente sono stato solo più fortunato.

Foto: Clara Borrelli per Rolling Stone Italia. Cappotto: Jordan Luca. Pantaloni: Vintage. Cintura: Vintage. Scarpe: Guidi

Arriviamo a Sanremo. Il ritmo delle cose è un brano pop dove emerge la tua scrittura, anche nella sua complessità. In un posto dove basterebbe usare rime cuore/amore tu parli di “violento decrescendo”: ti piace complicarti la vita?
Questa canzone è un ponte, l’ennesimo della mia carriera. Sappiamo tutti, dai cantanti agli addetti ai lavori fino al pubblico, qual è la canzone giusta da portare in un contenitore come Sanremo… Ma io ho fatto semplicemente quello che mi sembrava giusto: è un brano che ti bombarda di domande, che affronta molti temi diversi – la pornografia, la dipendenza, la coppia, la solitudine – e non ha un vero e proprio capo, uno svolgimento e una fine.

“Esco da un’altra festa esco dall’algoritmo / ritrovo la bellezza solo dietro l’imprevisto”. Tu sei dentro o fuori l’algoritmo?
Qui ho citato il Jep Gambardella di Sorrentino. Sono l’anti-algoritmo.

“Ultimamente fumo ed esco veramente poco / sto in mutande mentre fisso stupidamente il vuoto”. Sei tu o Jep Gambardella?
Sono io. Nell’ultimo anno ho fatto una vita più casalinga, infatti nei prossimi pezzi la parola “casa” è molto presente.

E anche molto “interno” è il malessere che si percepisce nelle tue canzoni. Non guardi fuori, alla politica, alla società, ma al massimo ti guardi allo specchio….
La politica mi annoia, mi sento distante. Sono invece molto attaccato alla politica di quartiere, la conosco bene e riesco anche a fare qualcosa in termini sociali con la mia palestra, per aiutare i ragazzi restituendo loro un po’ di quello che il quartiere m’ha dato. La palestra e il quartiere sono un buon punto di osservazione.

Come trovi che stiano i ragazzi oggi?
Vedo dei ragazzi soli e soprattutto annoiati, che riescono però a farsi forza a vicenda, soprattutto in quartiere dove c’è un clima di famiglia, ci si dà sempre una mano.

Foto: Clara Borrelli per Rolling Stone Italia. Total look: Vivienne Westwood. Cintura: Vivienne Westwood. Scarpe: Guidi

Si parla tanto, troppo, della trap e del rap per il loro linguaggio violento. Tu sei partito da lì nel 2016 ma non hai mai abbracciato quel tipo di linguaggio…
Perché la mia scrittura è tutta basata sullo scavare dentro, è più personale ed è tuttora la cosa che mi interessa di più.

Senti una vicinanza artistica con lo street rap di Papa V e Nerissima Serpe o la trap di Baby Gang e Simba La Rue?
No, quel mondo di base non mi è mai appartenuto.

Frequenti ancora qualcuno della famosa scena del 2016 di cui facevi parte?
Chi più chi meno. Mi sento con Mario (Tedua, nda), Sfera Ebbasta e ogni tanto con Ghali. Poi frequento molto sia Bresh che Ernia.

La tua timidezza, soprattutto nelle interviste, è cosa nota. Anche sul palco all’inizio ti presentavi col cappuccio calato in testa e dopo qualche anno ti abbiamo visto muoverti e ballare, pure a torso nudo. Cosa è successo?
È stato un lavoro, come studiare la chitarra. Di base mi piace scrivere e andare in studio, tutto il resto è una conseguenza necessaria. Dai primi palchi, col cappuccio calato dove non riuscivo a vedere né me stesso né le persone che avevo davanti, è stato un lungo processo per togliere gli strati che dividevano me dal pubblico, fino ad arrivare a petto nudo. Anche se all’inizio potevo sentirmi a disagio, il tutto era finalizzato a portare in giro la mia musica.

Alla fine, nonostante la timidezza, hai fatto pure X Factor.
E non rinnego nulla, mi ha dato tanto umanamente.

Foto: Clara Borrelli per Rolling Stone Italia. Cappotto: Jordan Luca. Pantaloni: Vintage. Cintura: Vintage. Scarpe: Guidi

Del nuovo album ci puoi dire qualcosa?
Se il brano che porto a Sanremo, come dicevamo, è pieno di domande, il disco conterrà anche delle risposte. Vedo tanta schifezza intorno a me nella vita di tutti i giorni. Vedo delle relazioni tossiche basate sulla paura della noia…

E le tue relazioni oggi quali sono?
Sono sempre le stesse persone; mia madre, mio fratello, il mio amico allenatore Giacomo, il manager Simone e la mia ragazza che è stata una rivelazione…

In che senso?
Credo di essermi innamorato davvero per la prima volta in questi ultimi mesi. Ed è strano perché più avanti uscirà un disco che parla poco d’amore, proprio in un momento in cui sono pieno di questo sentimento. Ne ho parlato di più in passato, quando ero meno preso, senza nulla togliere alle relazioni precedenti.

Come descriveresti questo momento della tua carriera e della tua vita? Hai detto prima che ogni disco, ogni canzone è un ponte da un luogo a un altro.
Adesso sono sfollato. Sono totalmente chiappe a terra, in mezzo alla strada con i blocchi di Calvairate a sinistra e il palazzo bello in cui vivo a destra.

È una bella sensazione l’essere chiappe a terra?
Assolutamente sì, è quello che mi dà forza.

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Photographer: Clara Borrelli
Art direction: Alex Calcatelli per LeftLoft
RS producer: Maria Rosaria Cautilli
Fashion editor: Francesca Piovano
Talkent stylists: Valentina Motta & Federica Olmi
Make-up artist: Orso Maria Caffi per Making Beauty
Hair styling: Giorgia Giommoni Making Beauty
Video production: Visionaria Film, Mauro Fabbri, Daniele Cantalupo
Video operator: Tommaso Ligorio
Video editing: Diego Marinello, Martina Longo, Davide Piunti
Studio manager: Ernestina Calciano, Team Visionaria Film
Studio assistant: Cecilia Anselmo
Photographer assistant: Alessandro Luisi
F.E. assistant: Elisa Brunello

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