La Sierra Leone è apparsa nei notiziari degli ultimi decenni per motivi non proprio allegri; si è parlato spesso di diamanti insanguinati, della guerra civile che ha travolto il paese per il controllo delle miniere delle pietre più preziose al mondo, per i crimini atroci commessi da bambini soldato, per un susseguirsi di governi corrotti e così via. In mezzo alle macerie della guerra e alla povertà estrema, un non vedente di nome Sorie Kondi ha trovato il suo sfogo nella musica, imparando a suonare la Kondi e diventando compositore e strumentista molto noto nel suo paese, al punto da essere soprannominato “lo Stevie Wonder del Sierra Leone”. Pochi anni dopo la fine della guerra, nel 2006, un giovane aspirante dj e produttore cresciuto nel Milwaukee ma di origini sierraleonesi, si trovava in paese e rimaneva folgorato dalla scena musicale e artistica, non solo del Sierra Leone, ma del continente in generale. Successivamente, Tucker Boima sarebbe diventato uno dei maggiori esperti di musiche e culture africane negli States, portando le sonorità afro nei suoi dj set, nei suoi podcast, nei suoi scritti e ospitate sui tanti magazine e blog con cui collabora.
La Kondi Band nasce proprio dall’incontro tra Boima e Sorie Kondi. Il loro primo album uscirà a febbraio 2017 su Strut Records, la label che ha pubblicato, tra gli altri, anche Sun Ra, Pat Thomas, Ebo Taylor e The Soul Jazz Orchestra. Ho incontrato Boima al Biko Club a Milano prima del concerto che vede sul palco anche Will del duo inglese LV. Abbiamo parlato non solo di questa sua nuova avventura, ma anche di un fenomeno di cui ultimamente si discute parecchio negli USA e non solo, la culture appropriation. Non a caso, Boima ha più volte alzato la voce contro l’appropriazione ingiusta del patrimonio culturale africano da parte di grandi nomi della musica pop.
Facendo un po’ di ricerca online su di te, Boima, mi viene fuori di tutto; sei un editor, dj, podcast host, producer e la lista va avanti. Cosa stai facendo esattamente in questo momento?
Mi sono trasferito a Rio de Janeiro. Da lì, scrivo regolarmente per il blog che si occupa di critica e riflessioni socio-politiche sull’Africa contemporanea “Africa Is a Country” . Ma soprattutto il mio focus in questo momento è questo progetto, che abbiamo appena presentato in Italia: si chiama Kondi Band e i live che stiamo facendo anticipano il nostro album, in arrivo a Febbraio. Settimana prossima andremo a Womex (The World Music Expo), dopodiché saremo in tour.
Nel frattempo curo anche ‘International Black’, che vorrei diventasse un’etichetta e una piattaforma per dare voce e promuovere giovani artisti.
Perché mai hai voluto iniziare un altro progetto e perché proprio un progetto di questo tipo?
È partito tutto nel 2006, durante un viaggio per trovare dei parenti in Sierra Leone. Prima di quella visita mi ero imbarcato nella carriera di dj hip hop, insomma, non avevo ancora una buona percezione di tutto l’universo musicale africano. Il 2006 coincideva anche con un periodo molto importante per il paese: era appena uscito da una guerra civile e stava per affrontare le elezioni. Questo clima politico e sociale delicato fu caratterizzato da una sorta di rivoluzione musicale in ogni parte del Sierra Leone. Trovandomi lì, proprio in quel contesto storico, mi è subito venuta voglia di fare qualcosa, di legarmi a questo momento e magari dargli una voce. Quando scoprii la musica di Sori Kondi rimasi particolarmente colpito, perché parlava di storie semplici e molto profonde, toccava temi sociali, al contrario di altri artisti pop del Sierra Leone che spesso scimmiottano i rapper americani parlando di soldi e bottiglie di champagne.
Il progetto è diventato importante anche dopo aver conosciuto la storia di Sorie, musicista e compositore non vedente che ha sofferto le pene dell’inferno durante una delle guerre più feroci della storia dell’umanità, e nonostante tutto, continua a comporre e sorridere alla vita. Vorrei che si conoscesse la sua storia, si apprezzasse il suo genio e allo stesso tempo, dare una mano alla sua famiglia
Che cos’è esattamente una Kondi?
La Kondi è una tastierina che si suona con il pollice. È simile alla Kalimba e alla Mbira, nel senso che è fatto di una base di legno su cui sono fissate delle lamelle metalliche, ma la Kondi è accordata in modo diverso ed emette una tonalità si suono diversa. La Kondi è tipica di alcune parti del Sierra Leone, le parti dove Sorie è cresciuto.
Come siete riusciti a realizzare un disco vivendo in 2 continenti diversi (e considerando che Sorie è non vedente)?
Quando l’ho incontrato, Sorie aveva già un manager, Luke Wassermann, un ragazzo americano che vive a Freetown. Con Wasserman ci siamo scambiati degli ‘stem’ (n.d.r. file audio che contengono una track divisa in 4 flussi separati, sviluppato dalla Native Instruments). Grazie a una campagna Kickstarter, Sorie è riuscito a venire in America in tour e per l’occasione abbiamo registrato alcuni pezzi composti da lui a casa mia – anche se, in futuro, spero di riuscire a registrare direttamente in Sierra Leone. Con i file stem del manager e le registrazioni fatte direttamente con lui, mi sono messo a studiare le sue composizioni, per capire come aveva pensato gli arrangiamenti. Poi ho interpretato le composizioni – le ho trovate molto affascinanti perché lui ragiona come se fosse un produttore di musica tecno.
Ci ho impiegato quattro anni per avere una demo soddisfacente, che mandai subito alla Strut Records, ed eccoci qua.
Sei stato più volte in Italia? Cosa ne pensi del pubblico qui?
Sì, sono stato qui più volte grazie a Simone Bertuzzi di Palmwine, che stimo per l’ampia conoscenza e continua ricerca in ambito musicale. Ieri ero a Budapest ma non vedevo l’ora di arrivare a Milano. Mi sento molto a casa, qui.
Volevo aprire con te anche una parentesi sulla culture appropriation, cioè l’appropriazione e lo sfruttamento del patrimonio culturale di altre (piccole e meno avvantaggiate) etnie, e l’utilizzo in contesti sconnessi per pura vanità. Nella storia della musica non è una novità che i grandi artisti pop peschino idee tra le piccole nicchie – vedi Madonna e il ‘Vogueging’, nato nelle comunità gay nere e latine della New York degli anni ’80, oppure Diplo e le sue produzioni di musica dancehall che suonano come un’appropriamento di un sound che lo fa guadagnare bene, più che un tentativo di valorizzare la musica giamaicana. Cosa ne pensi?
La culture appropriation è molto diffusa in America e potrei citarti mille esempi, a partire da Elvis e il suo ruolo nell’invenzione del rock’n’roll. Qual è il problema? La storia degli Stati Uniti è ricca di fenomeni come la schiavitù, la segregazione e il genocidio razziale. Come artisti con una voce e un seguito, quello che facciamo deve riflettere il nostro patrimonio culturale, la nostra storia, nel bene e nel male, e lottare contro questi paragrafi che ci hanno divisi per secoli, e che purtroppo, rimangono ancora aperti. Se guardi 13th (n.d.r. il documentario scritto e diretto da Ava DuVerney appena uscito su Netflix), ti rendi conto che questo paese non ha mai superato veramente il problema della segregazione razziale. La mia domanda agli artisti che cercano spunti qua e là è la seguente: con la tua arte, stai contribuendo all’abbattimento di queste barriere razziali?
Gli USA sono un superpotere economico e tu come cittadino americano hai dei vantaggi solo perché sei nato qui; puoi viaggiare dove e quando vuoi, puoi avere accesso a tutto, puoi permetterti di lavorare con artisti giamaicani, africani o quelli che vuoi, ma hai pensato alle loro condizioni di vita e al fatto che questi artisti non possono nemmeno uscire dai loro paesi se volessero farlo? Per questo motivo ho fatto di tutto per far uscire Sorie dal Sierra Leone. Volevo che anche lui avesse un’opportunità di farsi vedere e conoscere nel mondo.
E siccome siamo a due passi dalle elezioni presidenziali, ti va di fare due risate e provare a immaginare un’America guidata da Trump?
(ride) In quel caso, confiderei nella mobilitazione sociale.