Jack Garratt è la cartina di tornasole di quanto fatto da MTV su noi nati nei primi ’90, cresciuti cioè a 5 centimetri da uno schermo che spara un video di Justin Timberlake, che balla con addosso uno smoking, o di Usher, che esce da un Suv grande come sua nonna.
Certo, dall’R&B a un certo punto della vita ci si schioda – è successo all’inglese Jack (nato a High Wycombe l’11 ottobre 1991, ndr) come a tutti gli altri – ma prima o poi emerge dal subconscio quell’imprinting che con falsetti e vocalizzi ammiccanti riesce non solo a risultarti piacevole, ma pure familiare. Jack poi ci ha messo del suo, incorporando una componente dubstep/chill e chiamando il tutto Phase, il primo di una (si spera) lunga serie di album. Fra uno scatto e l’altro dello shooting, il ragazzo dalla barbetta rossa mi accoglie con un sorrisone.
In una precedente intervista ti avevo chiesto se avessi festeggiato la vittoria al BBC Sound Of 2016. Mi avevi risposto di non averlo ancora fatto, che prima bisognava pensare all’album. Ora che l’album è uscito, ti rifaccio la stessa domanda.
Ufficialmente ho festeggiato con qualcuno, ma non c’è ancora stato un bel party come si deve. Comunque sono contento di non aver esultato granché all’epoca del BBC Sound, perché non meritava grandi festeggiamenti. Vado fiero del premio, ma penso valga di più festeggiare perché l’album è schizzato al numero 1 Inghilterra per un paio di giorni, per poi assestarsi al terzo posto dietro Adele e Bowie. Questa sì è roba per cui vale la pena bersi una birretta!
Com’è stato il live al Fabrique di Milano?
Fantastico! La data doveva svolgersi in un luogo più piccolo, ma visto il numero di biglietti venduti si è dovuto cercare un posto più grande. Il Fabrique, appunto. Avevo già suonato in Italia, al Club To Club di Torino, però mai a Milano. Mi ha stupito il calore con cui sono stato accolto, e non parlo solo di stampa e radio che passavano le mie tracce in continuazione, ma proprio del pubblico. Credo che, alla fine, non siano le persone a venire al mio live, piuttosto sono io a venire a vedere loro come ospite. Solo perché hai pagato un biglietto non significa che non possa essere tu il protagonista. I milanesi sono ottimi padroni di casa, mi hanno trattato con i guanti.
Hai fatto anche delle cover, giusto?
Le cover non sono state apprezzate del tutto al Fabrique, però ci siamo divertiti. Mi piace molto interagire col pubblico cercando di accontentare il più possibile le richieste. Molto spesso le cover sono doppie, nel senso che unisco i brani fra loro – tracce che si sposano bene l’una con l’altra. Suono spesso un mashup fra Sorry di Justin Bieber e Africa dei Toto. Al Fabrique invece…
…C’era di mezzo Craig David.
Giusto! Ho unito Señorita di Justin Timberlake e 7 Days di Craig David. Mi piace fantasticare sul fatto che, in un qualche universo parallelo, la stessa ragazza abbia fatto innamorare sia David che Timberlake. Tipo che Craig incontra per strada questa bellezza assurda e riesce pure a farsi dare il numero di telefono. Poi lei salta su un treno e capita nello stesso bar di Justin, che le dice cose come: “Lascia stare quello lì, non si merita il tuo tempo. Esci con me”.
Cazzo, se fosse un film lo andrei a vedere. Hai sentito che Craig David è tornato?
Sì, sono troppo contento. Pensa che, quando ho fatto la cover di 7 Days a BBC Radio One nella mia prima apparizione radio di sempre, Craig mi ha chiamato poco dopo. Aveva sentito la cover e gli era piaciuta tantissimo. Seriamente, è una delle persone più genuine che abbia mai conosciuto.
E poi è tornato a fare UK garage, quindi… ciao!
Nello stesso modo in cui all’epoca l’aveva portato nel pop inglese, tra l’altro. Una delle sue ultime tracce, When the Bassline Drops, mi manda letteralmente fuori, soprattutto per il lungo crescendo che finisce per collassare in una struttura al contempo dubstep e UK garage. E poi, ascoltare Craig David e Justin Timberlake mi riporta all’infanzia. Sono un fan della nostalgia e di ciò che sento familiare: è musica che rende felice il 14enne che è in me.
Che ricordi hai dell’infanzia?
Ho avuto un’infanzia molto fortunata. I miei facevano qualsiasi cosa per sostenere le scelte mie e dei miei fratelli maggiori. Ci davano qualsiasi cosa volessimo, e ci hanno permesso di sviluppare degli interessi, come la musica nel mio caso. I primi accordi di chitarra me li ha insegnati mio padre, più tardi sono arrivati batteria, piano e persino trombone. Ma c’era un problema: per me gli strumenti erano qualcosa di istintivo, rigettavo qualsiasi tipo di lezione teorica. Non riuscivo a capire perché un oggetto con cui potevo esprimermi liberamente dovesse per forza avere un manuale di istruzioni. Per fortuna, pian piano ho imparato, anche perché mia madre insegna musica.
E poi ti sei trasferito a Londra.
Da piccolo, la musica si è manifestata in me con due facce opposte: una stimolante e positiva, l’altra un po’ distruttiva: adoravo troppo avere tutta l’attenzione su di me. Nel tempo, mi sono reso conto che l’essere così immersi nell’autocompiacimento è piuttosto strano. Crescendo, ho provato a entrare in mille università, ovviamente senza successo. Mi sono iscritto a una scuola di formazione primaria per fare l’insegnante, ma dopo tre mesi mi sono trasferito a Londra per fare musica. Scrivere canzoni è qualcosa che posso contenere, volevo diventare un musicista.
Quindi hai realizzato il tuo sogno?
Non esattamente.
In che senso?
Nel senso che l’ho realizzato a metà. Adoro come sta andando – il mio lavoro è fantastico, sono a Milano dopo un bellissimo concerto e ora sono seduto a parlare con te, è assurdo! – però non sento di avercela ancora fatta. Se pensassi di essere arrivato, cosa farei domani? È fondamentale mantenere sempre un obiettivo, spingersi sempre più in là.
Torniamo a Londra: è stato eletto per la prima volta un sindaco musulmano. Cosa pensi?
Sapere che una città importante a livello mondiale come Londra abbia compiuto un passo così importante, anche grazie ai giovani elettori, mi manda sulla Luna. Personalmente non sono stato abbastanza a Londra per poter avere un’opinione più articolata, ma la notizia in sé è incredibile. Hanno eletto un sindaco che crede nell’uguaglianza, crede nella sua fede religiosa, ma rispetta le altre. Una persona molto speciale della mia vita è musulmana e, frequentando nel tempo lei e la sua famiglia, mi sono reso conto di quanto l’amore sia radicato nella loro cultura. Cazzo, sono stato davvero fiero quando ho sentito la notizia!
Ti appoggerai mai a un produttore per i tuoi dischi?
Non credo, perché non li sentirei più miei. Non voglio sminuire chi si fa produrre, ma non potrei mai mettere il mio nome su qualcosa che non ho fatto. In questo album c’è solo una canzone che ho scritto a quattro mani con un’altra persona. Cerco di limitare al minimo l’apporto esterno e comunque te ne accorgi subito che il testo non è completamente mio. Sto molto attento ai dettagli. Qualcuno dice persino che io sia un maniaco del controllo (ride).
Nei tuoi testi ho notato che ricorre spessissimo il tema della sinestesia. Come mai?
Ne sono semplicemente affascinato. Trovo intrigante come, da fenomeno scientifico spiegabile con la chimica, la sinestesia si traduca in qualcosa di così intenso, un’emozione particolare. Non sono un sinesteta, quindi la mia rimane una semplice ammirazione dall’esterno.
Vorresti esserlo?
Non credo che mi piacerebbe, perché so cosa si prova, la mia ragazza lo è. È una cosa che non puoi controllare, quindi chi ce l’ha non è poi così felice. Però resta il fascino: pensa come dev’essere vedere una persona a cui tieni e al contempo avvertirne l’abbraccio. Impressionante, no? Oppure, immaginati come dev’essere gustarsi la musica col palato… Il vero motivo per cui uso così tanto la sinestesia è per il suo significato allegorico: l’amore, un sentimento così potente da coinvolgere tutti i sensi. Proprio come la sinestesia, potresti non volerla, ma è del tutto irrilevante: there’s no fucking choice.
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