Il canto dell’asino è un disco diverso. Lo è rispetto al panorama emergente italiano, per le sue influenze vastissime, nello spazio e nel tempo, che confluiscono in un suono per certi aspetti unico, in cui sono sintetizzate le esperienze che lo hanno formato; lo è rispetto alla parabola di Generic Animal, che per la prima volta gestisce personalmente il processo creativo, includendo anche la produzione (insieme a Yakamoto), e diventa così responsabile diretto di quasi tutte le scelte relative a testi e musiche. Ne risulta quindi un disco che si discosta molto dai precedenti per quanto riguarda il sound, un disco che riflette il desiderio di non prendere scorciatoie e di lasciare che la musica si prenda il suo tempo e imponga la sua durata. Suono e strutture sono dettati dalle urgenze comunicative, per nulla disposte a scendere a compromessi con il controllo delle forme.
Sullo sfondo, la forza motrice del dubbio di essere patetici e inutili, costante della poetica di Luca Galizia, che si concretizza nell’immagine dell’asino che canta («o raglia soltanto?»). È un disco ben scritto, fatto di sporcizia sonora, strutture e macrostrutture musicali ricercate e mai banali. Ogni pezzo mostra il suo “numero 10”, quel dettaglio caratterizzante che reclama e giustifica l’ascolto, mentre di traccia in traccia si esplorano amarezze esistenziali, ironia e riscontri sarcastici delle emanazioni quotidiane dei grandi sistemi e dei temi universali come amore e morte. Resta riconoscibile l’approccio alla voce di matrice cantautorale e r&b; vale la pena prestare attenzione al lavoro chitarristico, dal quale emerge una serie di nuovi elementi che riportano alle radici shoegaze e noise rock di Luca Galizia. Queste influenze sono state approfondite negli ultimi anni principalmente in altri progetti – “ufficiali”, come i Liquami, o come turnista, per esempio in Dati di Montag – e sono state introdotte gradualmente fino all’apice raggiunto in questo disco, in cui tutti i punti seminati nei quattro dischi precedenti si uniscono.
Insomma, un disco importante per la crescita artistica di Generic Animal, arricchito dalla presenza di una sola ospite, Marta Del Grandi, nel brano Karaoke. Abbiamo così invitato i due musicisti, tra un impegno e l’altro (Generic Animal alle prese con la promozione del nuovo disco e Marta Del Grandi che ha appena pubblicato l’edizione deluxe di Selva, una riedizione del suo ultimo disco con brani inediti, demo e spezzoni live dal tour di oltre 70 date in Italia e in Europa), a ritrovarsi per parlare di musica, vita, amore e morte. Marta ha condotto questa intervista (le domande in neretto sono sue), Luca ha risposto e ribaltato alcune domande. E noi? Abbiamo origliato e preso nota.
Luca, ma ti rendi conto che il giorno in cui è uscito il nostro pezzo è uscito anche Karaoke de La Rappresentante di Lista? Secondo te quanto conta l’influenza di Fiorello in tutto questo? Intendo proprio in senso freudiano.
Non ho ancora ascoltato il loro brano, quindi non so di cosa parli nello specifico, ma più che Fiorello, tutto questo dimostra che noi cantanti italiani diciamo sempre le stesse cose: la noia delle nostre vite misere, trovarsi a un karaoke a fare i pazzi o autocommiserarci. Siamo tutti uguali e noiosi! Scherzo…
Però so che in questo disco ti sei annoiato poco: è la prima volta che lo produci, e la cosa mi ha un po’ sorpreso, perché conoscendoti pensavo lo facessi già da prima. Probabilmente hai sempre partecipato comunque ai processi, ma mi dicevi che è la prima volta che tieni tu stesso le redini, che hai i progetti sui software di produzione… insomma, sei anche produttore a tutti gli effetti. Ti sei chiesto perché proprio ora?
Sì, è stato un vero e proprio ping-pong di produzione, sempre monitorato da Giacomo (Yakamoto Kotzuga, ndr), ma alla fine, quando si trattava di approvazioni finali, le decisioni erano equamente spartite tra me e lui. A livello di singole decisioni sugli arrangiamenti, ci sono pezzi in cui prevalgono le mie idee e pezzi in cui prevalgono le sue. Non c’è un vero e proprio perché; semplicemente, a un certo punto gli amici con cui lavoro di solito hanno iniziato a spronarmi a fare certe cose da solo e a diventare più indipendente. La cosa è stata tipo: ah, ok, quindi ho il permesso di lavorarci da solo? Questo supporto, soprattutto da parte di Giacomo e Carlo (Fight Pausa, ndr), mi ha sbloccato molte inibizioni che avevo. Infatti, proprio nello stesso periodo, ho iniziato anche a lavorare come produttore per altri. Penso di essere riuscito a raggiungere una buona consapevolezza delle cose che mi piacciono e di come vorrei suonassero, e questo ha aiutato molto.
Tra l’altro, io ti ammiro molto come chitarrista e ammiro molto i chitarristi in generale (perché dico spesso di non esserlo). Volevo chiederti, anche alla luce di questo disco in cui ci sono tante chitarre, più che in passato, se ti senti principalmente un chitarrista e se senti che la chitarra porti ancora lo stendardo nelle tue canzoni.
Allora, diciamo che mi piace pensare di essere percepito come chitarrista, anche se, in realtà, ho iniziato suonando il basso. All’inizio il mio approccio alla chitarra era quello di un bassista che si sforzava di suonare le ultime due corde alte dello strumento. Dopo il basso, sono passato alla chitarra classica, quando avevo la mia prima band emocore; praticamente, suonavo questa chitarra classica scordata in basso, quasi baritona, dal suono scassatissimo. Solo dopo ho iniziato a interessarmi alla chitarra elettrica. Diciamo che, se ogni tanto il mio modo di suonare viene descritto in termini di sporcizia, credo che sia proprio per via di questo percorso, oltre che per le cose che mi piacciono.
A proposito di cose che ti piacciono: quando scrivo musica amo rubare senza farmi vedere, credo sia una parte fondamentale della composizione. Magari neanche lo sai, ma a forza di ascoltare e prendere familiarità con certe scelte, certe progressioni armoniche, certe strutture, ti ritrovi in un secondo momento a riconoscere le fonti da cui hai rubato. Volevo chiederti: se in questo disco sai di aver rubato qualcosa senza farti vedere e, in caso, da chi.
Sono abbastanza d’accordo, credo sia inevitabile. La cosa bella è che spesso le lavorazioni hanno così tanti layer che la fonte originaria la senti solo tu. Per esempio, Karaoke, giusto per parlare del nostro pezzo insieme, era nata come una ballad vintage e ha cambiato faccia tante volte dal momento in cui l’ho scritta. Pensavo a Gino Paoli e a Dark Side of the Gym dei National. Penso che nessuno ci arriverebbe ascoltandola, eppure è andata così.
Ma tu ascolti tanta musica? Sembra scontato, ma ci sono artisti che preferiscono ascoltarne di meno.
Sì, ascolto in modo abbastanza maniacale, cercando di prendermi del tempo per sentire i dischi per intero, di riflettere su quello che sento e, se mi colpisce, di consumarlo per bene.
Oltre alla musica degli altri, cosa ti aiuta a scrivere la tua? Della tua scrittura ammiro molto l’evocatività visiva di molte cose che dici e dei suoni che le accompagnano.
Grazie, per me è importante partire da immagini emblematiche che vivo e costruire un discorso da lì. Ad esempio, in un brano di questo ultimo disco, 27, c’è un’immagine in cui mi sveglio la notte e busso sul muro del vicino di casa cinquantenne che sta facendo festa e ascoltando gli Wham. Più ci penso, più mi rendo conto di quanto sia patetico da parte mia, che non ho nemmeno trent’anni, fare una cosa del genere. Questi spunti visivi sono fondamentali per iniziare a scrivere canzoni. Anche il titolo del disco spesso determina molti simboli e metafore nei testi. L’asino, in particolare, ci ha messo tanto tempo ad arrivare. Altre cose che mi aiutano sono disegnare, guardare film, leggere, lasciarmi sorprendere dalle storie degli altri.
Comunque volevo chiederti da un po’ come mai hai scelto me come unica ospite di questo disco. L’ho apprezzato molto.
Perché spacchi, perché abbiamo parlato tanto di musica, e mi ha aiutato molto ritrovare quella leggerezza che cercavo nel comporre. Quando è uscito il tuo disco, abbiamo parlato tanto e da quei confronti sono nate tante idee sia musicali che di approccio. Selva è un disco che ho ascoltato molto ed è la prima volta che mi sento fan e testimone di un grande disco che accade nella realtà. Verso la fine del disco, sentivo che una collaborazione con te fosse l’ultima gemma mancante, e quindi ti ho invitata. Tu piuttosto, perché hai accettato?
Per motivi simili. Sai che scrivo pochissimo in italiano e, quando lo faccio, uso un linguaggio diverso dal tuo, forse più letterario. Ma appena ho sentito il pezzo, mi sono sentita sbloccata e incentivata a usare un linguaggio diverso. Quando ho ricevuto le demo, nonostante fossi piena di impegni, la scrittura mi è cascata tra le braccia da sola, e infatti abbiamo finito il pezzo in pochissimo tempo. Questo perché c’era una connessione che era stata costruita prima. Cambiando argomento, mi sembra che tu cerchi di cogliere l’ironia per gestire i grandi temi della vita. Per esempio, a me piace molto Eric, che fai?, dove parli della morte di un amico in un linguaggio molto ironico e quasi infantile.
Quella canzone parla di una morte che ho vissuto in maniera non troppo diretta: era una persona che conoscevo e con cui ho iniziato a suonare da adolescente, ma che non vedevo da anni. Un giorno mia mamma mi ha telefonato per dirmi che era morto, e quel modo di vivere la morte mi ha colpito: non era né un lutto in senso stretto, né indifferenza, era più la sensazione di aver perso un pezzo della mia infanzia. Ho voluto dedicargli una specie di memoriale, cercando di far rivivere i giorni sereni di quel rapporto.