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La musica del futuro: la trap in Italia secondo Shablo

Il produttore di Roccia Music ci parla delle nuove leve del rap e di quella che sarà una delle più belle rivoluzioni della nostra discografia

Shablo in studio. Foto di Luca Panegatti

Secondo Shablo la rivoluzione è vicina e presto il nostro mercato discografico non sarà più quella triste macchina che produce prodotti tutti uguali nella speranza di stare a galla nella crisi più nera. L’Italia è un paese per anziani dove «se tu azzecchi una cosa, per trenta-quaranta-cinquant’anni mantieni il tuo posto» – dice – e dove le sagre di paese sono ancora piene di persone che hanno voglia di cantare e di cantanti che vivono ancora sulle hit scritte negli ’80. Ma è solo questione di qualche anno, poi si cambia. Shablo è uno dei pochi che può permettersi previsioni di questo tipo con la dovuta autorevolezza: ha prodotto dischi che hanno segnato la storia del nostro rap e la sua agenzia Thaurus ha firmato in tempi non sospetti tutti i nomi che oggi stanno ridefinendo il suono della trap in Europa e che nelle classifiche FIMI rubano la top ten ai vecchi. Il futuro è alle porte.

Sei un produttore che punta più alle idee e meno a seguire le mode del momento, sbaglio?
In realtà il top è trovare l’unione delle due cose perché sì, mi piace fare musica senza tempo, che la puoi sentire oggi come tra dieci anni, ma voglio anche trovare un vestito contemporaneo alle mie idee. Mi interessa arrivare all’essenza della canzone: una buona produzione si può reggere anche su pochissimi elementi, ma è anche giusto contornarla di dettagli che possano incontrare determinati gusti e far arrivare la tua idea a più persone possibili.

Hai voce in capitolo sui testi?
Se c’è qualcosa da dire, lo dico, e parallelamente ascolto ogni tipo suggerimento da parte del rapper. È importante lavorare a stretto contatto con lui e arrivare insieme ad una idea comune.

Che poi è la differenza tra il produttore e il beatmaker, no?
Esattamente, il produttore deve avere una visione più a 360° del brano. Può anche non avere competenze tecniche: Rick Rubin non tocca un computer, non tocca una chitarra, non tocca niente, ma sa esattamente cosa vuole. La preparazione tecnica era molto importante prima, quando tutto era basato sul sound e ognuno aveva i propri trick per ottenere determinati effetti, oggi è molto più importante avere una cultura musicale, avere le idee chiare, capire fino a dove vuoi arrivare e come arrivarci.

È possibile definire quali sono le caratteristiche della trap in Italia?
È una domanda difficile. Se dovessi trovare degli elementi comuni sarebbero quasi tutti negativi: le basi trap oggi si assomigliano un po’ tutte, hanno giri banalucci, sono scure, usano sempre gli stessi accordi e gli stessi synth. Siamo passati dagli anni ’90 dove c’era un uso spropositato del sample – anche in modo banale: nove secondi di fila messi a loop – ad oggi dove c’è un abuso di batterie 808 o di suoni tutti uguali. Ma è così dappertutto, in ogni paese trovi tanta mediocrità e poi ci sono le eccellenze.

I nostri producer sono all’altezza di quelli stranieri?
Sì, assolutamente. Abbiamo nomi che non hanno niente da invidiare rispetto al resto del mondo. Io sto curando il management di Charlie Charles e ricevo richieste dalla Francia, dall’Inghilterra, dagli Stati Uniti, ecc. Non si può dire che Charlie abbia inventato un suono ma, a soli 23 anni, è stato in grado di prendere sonorità che erano già in voga in America e le ha portate a dei livelli mai visti, non dico solo per l’Italia ma anche per l’Europa.

Foto di Luca Panegatti

Oggi il lavoro del produttore è decisamente più accessibile, sei d’accordo?
Una volta dovevi comprare le macchine e costruirti uno studio, oggi basta scaricare un software e fai tutto via internet. L’estrema accessibilità delle tecnologie, però, ha sminuito l’attenzione nei confronti del messaggio. Il rap è nato come un genere di protesta dove le parole avevano un’importanza fondamentale e oggi quest’importanza si è persa. Ci sono certi personaggi al limite del lol rap che hanno delle produzioni formalmente perfette ma non capisci cosa dicono. Il contenuto ha lasciato spazio alla forma.

Ti riferisci all’Italia o è così in tutto il mondo?
Penso sia una tendenza mondiale ma, se devo essere sincero, l’Italia non è messa bene. Un Kendrick Lamar da noi non c’è e, più in generale, all’estero trovi una vivacità diversa. Sia chiaro, abbiamo tante belle penne: l’elenco è lungo, a partire da Marracash e Gué Pequeno, fino a nomi più giovani come Izi, Rkomi, Sfera Ebbasta e molti altri ancora. È tutta gente che all’apparenza può anche sembrare leggera ma non è mai banale e propone sempre cose di grande qualità.

Tempo fa Ketama ci aveva detto che se in America la trap è davvero la musica dei rinnegati, da noi è più edulcorata, è più un compitino ben fatto. A suo avviso un genitore americano – anche il più liberale – non sarà mai contento che il figlio ascolti Gucci Mane, mentre da noi Ghali lo ascoltano sia le mamme che i bambini. Che ne pensi?
Bisogna tener presente che in America il livello di ignoranza è sconfortante. Per determinate fasce della popolazione la trap racconta davvero la quotidianità: sentire un cantante che parla solo di soldi, troie e droga può piacere o meno, ma quella è la loro vita reale e la musica diventa l’unica speranza per uscirne. Gucci Mane è un bell’esempio in tal senso, faceva le sparatorie nelle gang e adesso scrive libri e lo chiamano come modello alle sfilate. Il nostro rap, per quanto popolare e street, non toccherà mai quei livelli di disagio, gli stessi Enzo Dong o i Co’Sang, pur appartenendo a realtà molto difficili come possono essere Scampia e dintorni, non hanno mai fatto le rapine a mano armata.

Foto di Luca Panegatti

In questo scenario Ghali dove lo posizioneresti?
A mio avviso Ghali appartiene più al pop mainstream che alla trap. Trovo che il suo sia un progetto molto ambizioso: ha un look da paura, ogni dettaglio è al posto giusto, per me è il nuovo Jovanotti. Ha portato una ventata di freschezza nella nostra musica, ma se ti dovessi indicare un nome che ha davvero cambiato le cose nel rap degli ultimi anni, quello è Sfera. È riuscito a sdoganare un linguaggio tipicamente americano come la trap e l’ha fatto piacere a tutti, a partire dai ragazzini fino a quelli che non ascoltavano nemmeno il rap. Ha fatto davvero la rivoluzione.

Siamo d’accordo però sul fatto che le storie di spaccio e di rivalsa nella trap hanno stancato?
Per me il rap è un genere letterario a tutti gli effetti, ha lo stesso spessore culturale di un libro. È una narrazione di strada ma ti dà la possibilità di sviluppare al massimo la tua fantasia. Lo storytelling di chi fa trap oggi mi piace, certo, se si parla sempre solo di spaccio e di rivalsa si rischia di diventare noiosi, ma lo si era anche nei ’90 per altri argomenti, l’autocelebrazione in primis. È normale che quando una cosa funziona poi tutti provino a copiarla. Per questo l’originalità è fondamentale, se trovi un modo unico di fare le cose allora hai vinto.

L’eterna lotta tra old e new school è una cosa tipicamente italiana o tutto il mondo è paese?
Direi che è più una cosa nostra. Facciamo difficoltà ad andare avanti, siamo un paese molto tradizionale e, per quanto adesso le nuove generazioni stiano cercando di cambiare le cose, tutto accade con decenni di ritardo. Da noi il rap è diventato mainstream solo negli ultimi due-tre anni, mentre nel resto mondo veniva già considerato una musica “per tutti” dall’inizio dei 2000.

Il rap in Italia è davvero mainstream?
Da quando la FIMI ha modificato il conteggio delle sue certificazioni includendo lo streaming nella classifica degli album è cambiato tutto. Se prima era normale che uno come Renato Zero rimanesse nella top ten per mesi di fila, adesso quella classifica rappresenta la reale fotografia della musica in Italia. Zero su Spotify fa risultati pari al suo nome – zero – ed è capitato, ad esempio, che per alcune settimane sia stato sorpassato da Ernia che all’attivo ha solo due ep digitali. In Italia, i numeri che fa il rap non li fa nessun altro.

Se all’estero Taylor Swift fa i featuring con Kendrick Lamar, da noi Laura Pausini non canterà mai con Sfera Ebbasta, e non c’è bisogno di citare Marracash e Gué Pequeno per ricordarti come in radio passino sono le canzoni rap con il ritornello facile. Non metto in dubbio le certificazioni FIMI, ma possiamo davvero dire che il rap sia diventato nazionalpopolare?
Da noi dischi di platino come Santeria o tracce come Tran Tran di Sfera, che ha fatto dodici milioni su Spotify e venti su YouTube, faticano a passare anche solo su Deejay o su 105. Le radio hanno un target più adulto, mentre il rap viene ascoltato principalmente nella fascia che va dagli 8 ai 25 anni. Ma sono questi ragazzi che oggi fanno il mercato: sono loro che guardano un video dieci volte al giorno, che tengono sempre Spotify acceso e che vanno ai concerti, non certo la massaia di cinquant’anni che ascolta la Pausini. Non è facile avere un quadro completo della situazione, è vero, e non dimentichiamoci che l’Italia non è solo Roma e Milano ma tutta una costellazione di paesi di provincia dove nomi come Ron, Tozzi e altri, hanno ancora successo e riempiono le piazze. Ma ormai per loro è finita, è solo una questione di anni e vedrai che le cose cambieranno.

Sei molto fiducioso.
È inevitabile che ci sarà una scrematura, per questo non bisogna mai accontentarsi, produrre cose di grande qualità e avere sempre le idee chiare sulla strategia da seguire. Non puoi sapere se uno come Capo Plaza – che fino a pochi mesi fa non era nessuno e adesso fa numeri interessanti – rimarrà nella storia del rap italiano, glielo auguro, ma non puoi dirlo; idem Tedua. Il successo di un artista dipende da molti fattori, non basta il talento: nei ’90 ce n’è stata di gente che non è riuscita ad andare avanti solo perché non aveva il carattere adatto, ma non gli mancava certo il talento.

Ovviamente negli anni ’90 i tempi erano decisamente più lenti rispetto ad oggi.
Pochi giorni fa ero con Fibra e parlavamo dei primi concerti fatti insieme nel ’99: anche se tu spaccavi e il tuo nome iniziava girare, prima che diventasse un vero lavoro passavano almeno quattro-cinque anni. Prima che Fabrizio diventasse il Fabri Fibra che conosciamo tutti, è andato in Inghilterra a fare il cameriere, ha affrontato depressioni, momenti difficili e ha pensato più volte di smetterla con il rap. Quando poi arriva il successo non ha mai la sicurezza di non ritornare nella merda, acquisisci sicuramente una consapevolezza diversa rispetto al lavoro, ai soldi e a tutto il resto.

E i rapper più giovani ce l’hanno questa consapevolezza?
Nì, pur essendo persone molto intelligenti non è facile per loro dare il giusto peso alle cose. Tutto accade fin troppo in fretta, pensa che all’inizio ero io a dover telefonare ai locali e convincerli che Sfera era bravo e meritava spazio, adesso fa tour da quaranta date e il suo cachet è quindici volte rispetto a quello di un anno e mezzo fa. I ragazzi di oggi sono molto ambiziosi e hanno le idee chiare perché utilizzano i mezzi dei loro tempi – i social, la monetizzazione da YouTube e dallo streaming, ecc – ma non sempre si rendono conto che quello che stanno ottenendo è già tanto, anzi credono che ce ne sarà sempre di più. Per questo importante che ci sia dietro un team che li segua.

Quali sono le principali entrate per un rapper?
Il live resta ancora una di quelle più sostanziose. Dallo streaming – se gestito bene – si possono ottenere percentuali interessanti ma non si diventa ricchi. Poi c’è il lavoro con i brand, oppure quello sul diritto d’autore, che spesso gli artisti ignorano totalmente. Oggi per vivere dignitosamente facendo il musicista devi conoscere a 360° tutti gli aspetti del business, non puoi permetterti di trascurarne nessuno.

Oggi è più importante creare una realtà del tutto indipendente o sperare di finire a lavorare per una major?

È un tema piuttosto attuale. A mio avviso in Italia mancano dei professionisti giovani che vogliano lavorare nel business del rap senza per forza fare gli artisti. Una volta tutti volevano fare i calciatori, adesso i ragazzini sognano di diventare rapper. Nel resto del mondo trovi tanti ventenni appassionatissimi che vogliono fare i manager o organizzare concerti, da noi no, vogliono solo cantare. Con Thaurus – la mia agenzia – faccio fatica a trovare collaboratori validi e sono spesso costretto ad appoggiarmi alle major. Io vorrei arrivare ad avere una struttura del tutto indipendente, spero che in futuro ci siano ragazzi che vogliano intraprendere questa strada e dimostrino di saper lavorare seriamente.

La trap sparirà del tutto come è successo con la dubstep?
Tutto è ciclico e finirà anche la trap, ma non penso che sparirà così velocemente. Ha radici molto più profonde, è un genere che esiste da quasi vent’anni, alcuni pezzi di Juvenile o di altri della Cash Money Records alla fine dei ’90 avevano già queste sonorità. In più la trap si presta meglio alle contaminazioni perché può rimescolarsi all’infinito. Se ascolti l’ultimo album di Lana Del Rey puoi trovare il pianoforte e gli strumenti acustici su elementi trap, pur essendo un disco pop elegante, a suo modo è trap. I generi stanno scomparendo, si arriverà ad una fusione totale. È forse la cosa che più mi piace in assoluto della musica.

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