Nelle settimane di lockdown è successo a tanti di piazzarsi sul divano e abbuffarsi di serie tv per intere giornate. Lo ha fatto anche Marissa Nadler con le repliche di Unsolved Mysteries, ma la songwriter originaria di Washington non si è fermata lì: a furia di immergersi in storie di omicidi, sparizioni e incontri paranormali, ha trovato l’ispirazione per il suo nono album The Path of The Clouds. Forse il suo disco migliore, di sicuro una raccolta di canzoni lontane dalle scarne ballate goth-folk degli esordi e scritte al pianoforte invece che alla chitarra, il che ha permesso a Nadler di addentrarsi in nuovi territori ed espandere la sua palette sonora.
Le atmosfere noir che continuano a intrigarla ancora oggi si fondono con venature sognanti ed eteree e arrangiamenti ricchi di sfumature, curati nei dettagli con la complicità di musicisti come l’arpista Mary Lattimore, Simon Raymonde (Cocteau Twins, Lost Horizons), Jesse Chandler (Mercury Rev, Midlake) e Amber Webber dei Black Mountain. Intrecciando la sua voce da mezzosoprano con riverberi shoegaze, chitarre distorte, synth maestosi, fiati dolenti, la 40enne Nadler – qui anche produttrice – ci accompagna in un mondo noir pregno di mistero, in bilico tra realtà e fantasia, tra passato e presente, tra vita e sogno. «Avere un disco su cui concentrarmi durante i periodi di isolamento cui ci ha costretti la pandemia è stata indubbiamente una buona cosa», dice in collegamento su Zoom. «Visto che non si poteva viaggiare liberamente, sono contenta di aver potuto viaggiare dentro la mia testa, tra i ricordi, nel passato, ma anche nel futuro, con l’immaginazione».
Il Covid ti ha anche spinta a imparare a suonare il pianoforte, ho letto. E con un insegnante come Jesse Chandler, che conosciamo bene per la militanza nei Mercury Rev e nei Midlake: com’è andata?
Per questo disco volevo esplorare, provare cose nuove dal punto di vista del sound, era qualcosa a cui pensavo sin dall’uscita dell’album precedente, For My Crimes. Il pianoforte era lo strumento musicale dei miei sogni, lo considero lo strumento più bello in assoluto, ma non avevo mai avuto modo di prendere lezioni… È stato bello e anche utile: imparare a suonare i Notturni di Chopin mi ha aperto il cervello, mi ha consentito un diverso approccio alla composizione. Come pianista mi sento ancora una principiante, perciò nel disco non suono io il piano, ma solo il fatto di aver scritto le nuove canzoni partendo da lì e non dalla chitarra mi ha permesso di ottenere risultati diversi a livello melodico. Sarà che dopo più di 20 anni di attività quando suono la chitarra la memoria muscolare mi porta a progressioni simili tra loro.
Con la chitarra che rapporto hai adesso?
Ho fatto così tanti dischi con la chitarra acustica… Al momento mi intriga di più scrivere canzoni e soprattutto creare melodie, è questo che mi interessa e mi prende maggiormente. Tant’è che i brani inclusi in The Path of The Clouds potrei proporli con differenti tipi di strumentazione e mi piacerebbero comunque. Devo anche ammettere che quando pubblicai For My Crimes lessi qualche recensione in cui si diceva che avrei dovuto provare qualcosa di nuovo e questo mi ha condizionata, mi ha stimolata a farlo sul serio. Ora qualcuno scriverà che mi preferiva in versione songwriter con la chitarra acustica (ride), ma pazienza, non si può accontentare tutti, l’importante è che sia contenta io.
Dal tuo debutto discografico in avanti la tua musica si è evoluta, ma il lato noir resta: a cosa si lega?
Non saprei, probabilmente alla mia fascinazione per certe tematiche forti, intense, sono sempre stata attratta dai mondi enigmatici, che possono fare paura. Non è un caso che per la maggior parte delle tracce di The Path of The Clouds mi sia ispirata alla docuserie Unsolved Mysteries: anche se poi nei pezzi c’è sempre un secondo significato legato alla mia vita personale, è stato quello il punto di partenza. Se sono davvero di buonumore non mi viene da scrivere. Ma a parte questo, ciò che conta è che la musica e l’arte in generale sono linguaggi che ti aiutano a tirare fuori quello che hai dentro: se da ragazzina ho iniziato a scrivere canzoni è stato per esprimere quello che non riuscivo a dire con le parole e nemmeno con la pittura.
Ci ha messo lo zampino Leonard Cohen, se non ricordo male.
Già, all’epoca ero un’adolescente fissata col grunge, infatti ho scoperto Cohen tramite i Nirvana, con Pennyroyal Tea: “Give me a Leonard Cohen afterworld”, cantava Cobain. Non l’avevo mai sentito nominare, Cohen, erano gli anni ’90, io avevo una rock band… Ma le sue canzoni e la sua poetica mi hanno letteralmente spinta verso un altro tipo di musica. Poi ci si è messa anche mia mamma con Carole King, Joni Mitchell, non vedeva l’ora: era stufa marcia di sentirmi ascoltare grunge dalla mattina alla sera.
Tornando a The Path of The Clouds, la title track prende spunto dalla vicenda di D. B. Cooper, criminale americano che nel 1971 dirottò un Boeing 727 per poi chiedere un riscatto di 200 mila dollari e sparire nel nulla col malloppo: come mai questa storia?
Il significato della canzone è doppio. Da un lato, sì, parla di D. B. Cooper e della sua scomparsa dopo essersi paracadutato da un velivolo con i soldi del riscatto. Nonostante il paracadute sia stato ritrovato, non si è più saputo nulla di lui, non ha lasciato tracce: potrebbe essere morto dopo il lancio, però il corpo non è stato rinvenuto, oppure chissà, magari si è rifatto una vita con una nuova identità ricominciando tutto daccapo. Di certo se ce l’ha fatta a sopravvivere… Non sto romanticizzando, sia chiaro, ha dirottato un aereo ed è un reato, ma, a parte che non ha ucciso, né fatto male a nessuno, è l’alone di mistero che avvolge la sua figura che mi intriga e la sua è una storia emblematica anche perché – e qui c’è il secondo significato del brano – parla di tutte quelle persone che a un certo punto della loro esistenza si sono reinventate: figure che mi affascinano molto.
In fondo credo sia un desiderio segreto di molti, quello di sparire e ricominciare, però mi chiedo: a te piacerebbe davvero cambiare vita?
Non a livello professionale o di carriera, ma a livello personale forse sì. Non so, mi sa che sto vivendo una fase di transizione, non mi va di approfondire, ma ho un po’ di fantasie di evasione. Anche il singolo Bessie, Did You Make It? c’entra con tutto questo, è anch’esso tratto da una storia vera.
Un’altra storia misteriosa, quella di Glen e Bessie Hyde, scomparsi nel 1928 durante un viaggio di nozze attraverso il Grand Canyon, su una barca fabbricata ad hoc per contrastare le rapide del fiume Colorado. Nella canzone l’hai ribaltata partendo da alcune teorie riguardanti un presunto litigio della coppia e immaginandoti che Bessie abbia ucciso il marito. E così c’è chi commentando il brano ha parlato di vendetta femminista: ti piace come definizione?
Sì, voglio dire… La maggior parte delle murder ballad parla di un uomo che uccide una donna, perlopiù si tratta di canzoni in cui c’è una bella donna in un bosco che viene aggredita. La mia non è esattamente una murder ballad e ciò che è successo a Glen e Bessie è un mistero rimasto irrisolto, ma mi piaceva l’idea di ribaltare quel tipo di narrazione per dare idealmente a Bessie, in quanto figura femminile, un’altra vita possibile.
Per te che cosa vuol dire essere femminista?
Posso fare degli esempi. Nel mio percorso artistico cerco sempre di aiutare altre donne, di solidarizzare con loro anche coinvolgendole come professioniste nella mia attività, quindi avviando collaborazioni per i miei video, i servizi fotografici e altro ancora. Tutto questo nell’ottica di un femminismo che per me oggi è sinonimo di egualitarismo e va di pari passo anche con una concezione non binaria dell’identità, per cui una persona può anche non sentirsi né soltanto donna, né soltanto uomo, ciò che conta è come si evolve la sua personalità nel corso della sua vita. Sai, oggi è normale sentire parlare di donne femministe e io sono questo da molti punti di vista: scrivo i miei dischi, li produco, mi mantengo con la mia musica. Ma le cose sono cambiate, anni fa il solo fatto di essere donna ti destituiva sempre un po’ e questo rendeva ogni mossa più difficile.
In un’intervista che ti feci nel 2016 ricordo che ti lamentasti perché dopo i concerti capitava spesso che qualcuno del pubblico venisse da te per complimentarsi per il look: «Oh, eri così carina sul palco, stavi così bene con quel vestito»…
Già, e la musica? Sono dinamiche da cui ci si difende come si può, è come quando pubblico un post su Instagram con una mia foto: ok, questa sono io, ora però ascoltate i miei dischi. Però stiamo migliorando, il movimento MeToo ha aiutato dando voce a molte donne, per esempio ultimamente mi capita sempre più di frequente di essere intervistata da giornaliste donne come te, è un buon segno.
Nell’album c’è anche un pezzo, If I Could Breathe Underwater, in cui rifletti sulle opportunità che potrebbe darti il fatto di avere dei superpoteri: respirare sott’acqua, cambiare forma, predire il futuro…
È che nei mesi scorsi mi sono sentita spesso intrappolata, così ho cominciato a immaginarmi delle vie per sfuggire a quello stato mentale. Vale per questa canzone come per altre del disco: come mi sono identificata con D. B. Cooper che si lancia da un aereo, per If I Could Breathe Underwater mi sono immaginata di poter volare o vivere nel mare. Voi italiani credo possiate capire bene a cosa mi riferisco quando parlo di sentirsi in trappola, so che il Covid vi ha costretti a molte restrizioni soprattutto all’inizio. Purtroppo negli Stati Uniti adesso abbiamo quasi la metà degli americani che non credono nei vaccini.
Hai una supereroina preferita?
Wonder Woman è la prima che mi viene in mente, ma più che altro mi piacerebbe essere una sirena o poter volare, per provare a vivere il mio corpo senza gravità, in una maniera diversa da quella cui sono abituata.
Sei pronta a tornare in tour?
Sono un po’ traumatizzata, a dire il vero, sebbene sia vaccinata pensare ai concerti è un po’ strano. Non so nemmeno se riuscirei a dire alla gente di venire a vedermi, insomma, posso comprendere chi non se la sente, chi ha paura.
Non ti manca suonare dal vivo?
Non esattamente. Sarò onesta: sono timida e ho sempre vissuto le performance live in maniera controversa, sotto questo aspetto mi sento vicina a Kate Bush. Ciò che adoro del fare musica è il processo di scrittura, sono molto distante da quegli artisti che si trovano a proprio agio sotto ai riflettori. In ogni caso ho una data a novembre, vedremo…
La tua prima passione è stata la pittura, hai studiato alla Rhode Island School of Design. Dipingi ancora, giusto?
Sì, come mia mamma. Vedi quel dipinto alle mie spalle? È suo: questa è casa dei miei genitori, sono venuta a trovarli dopo tanto che mancavo. Ma abbiamo gusti diversi, io e lei: mia madre adora mischiare tanti colori, io l’opposto. Ad ogni modo, è vero, mi sono avvicina alla musica da ragazzina, ma per me non era che un hobby, il mio sogno era diventare una grande pittrice. Così ho studiato arte e per un periodo ho insegnato arte alle superiori. Ho smesso perché è un mestiere a cui devi dedicarti con tutta l’anima ed ero troppo presa dalla musica, che per qualche ragione ha preso il sopravvento su tutto il resto.
Ma insegnare ti piaceva?
Tantissimo, tant’è che ho ancora un bel rapporto con alcuni dei miei ex studenti, alcuni di loro arrivavano da contesti borderline. Insegnare può darti delle soddisfazioni incredibili, due giorni fa ho incontrato un vecchio alunno che avevo aiutato a entrare nell’istituto d’arte in cui insegnavo in una fase in cui era nei guai, era stato anche arrestato, aveva 14 anni ed era davvero un talento, ma nessuno gliel’aveva mai detto. Ebbene, siamo rimasti in contatto, lui in seguito ha continuato a studiare arte, si è laureato e ora ha un suo studio a New York, sono andata a trovarlo, vende i suoi dipinti, è felice. E lo sono anch’io, sono sicura che non avrebbe mai intrapreso questa strada se non ci fossimo incrociati e adesso è meraviglioso vedere i risultati: non c’è niente di più bello che aiutare gli altri a migliorare la loro vita, vale di più di qualsiasi carriera musicale.
Oggi tutti insegnano qualcosa, tutti tengono corsi, workshop…
Negli Stati Uniti più che altrove. A me non convince quest’idea che tutti possono insegnare. L’insegnamento è una cosa seria, ho un fratello che vive di questo, è una professione da prendere con estremo rigore, è lo stesso che fare il dottore, perché educando curi la società.