La musica di Tamino è un manuale di geopolitica sonora | Rolling Stone Italia
L’oud magico

La musica di Tamino è un manuale di geopolitica sonora

Con la profondità di un cantautore del passato e la sensibilità di un viaggiatore del presente, il musicista belga esplora lo spazio complesso della memoria, del desiderio e della perdita. La sua Babilonia è New York, la sua patria è la musica. Lo abbiamo incontrato

La musica di Tamino è un manuale di geopolitica sonora

Tamino

Foto: Kimberley Ross

Molti artisti sono significativi anche perché appartengono a un luogo preciso e lo sanno raccontare meglio di altri. Altri, come il musicista belga-egiziano Tamino-Amir Moharam Fouad, sembrano sospesi tra meridiani e paralleli, in un tempo indefinito, con una voce che riecheggia tra le epoche. Per questo non hanno una patria se non nell’arte che hanno scelto per esprimersi.

La sua musica è un manuale di geopolitica sonora, un trattato di diplomazia culturale; i suoi testi una convergenza di radici e derive, un ponte tra mondi che spesso si guardano con diffidenza; anzi, spesso sono in palese guerra tra loro. Con la profondità di un cantautore del passato e la sensibilità di un viaggiatore del presente, Tamino scrive canzoni semplici che esplorano lo spazio complesso della memoria, del desiderio o della perdita.

Nel suo nuovo album, Every Dawn’s a Mountain, la sua ricerca è diventata ancora più viscerale. Questo lavoro suona come un tentativo di costruire «un altare metafisico per ciò che è andato perduto», come lui stesso lo definisce. Il disco, nato e cresciuto tra città che sono state crocevia di storie altrui – New Orleans, Bruxelles, New York – che riflette sulla tensione tra la permanenza e la dipartita, tra il bisogno artistico e il piacere intellettuale di trattenere e la necessità morale di lasciare andare. L’oud, strumento ancestrale che ritorna come un fil rouge nella sua produzione, è qui più presente che mai, scolpendo il suono di brani come Babylon e Sanpaku, e riportandoci a un’idea di musica che non è solo ascolto, ma rito, evocazione, ultimo possibile atto sacro in un mondo ampiamente profanato.

Incontrarlo, mentre ci fissa con occhi stremati e dolci da cavallo di razza ancora schiumante, appena sottratto all’agone di un tutto esaurito al Parco della Musica di Roma, significa affacciarsi su un pensiero lucido e gentile, stratificato e diretto, che riflette sull’identità, sull’arte, sulla città e sul tempo con l’aria apparentemente remota – eppure umanissima – di chi porta il nome di un personaggio mozartiano che cercava la luce e il passo quieto di chi ha già viaggiato dentro molte vite.

Nelle sue risposte a questa intervista ci sono alcuni dei principi della sua filosofia: l’importanza di avere più patrie, fermo restando il domicilio artistico nella musica; la percezione del tempo e della memoria; la consapevolezza che l’ispirazione non segue logiche lineari; la fede profonda nell’arte come linguaggio astratto ma universale, capace di dire ciò che le parole non riescono a contenere, e di conservare la storia intima delle persone e dei popoli, più di qualsiasi archivio.

Foto: Kimberley Ross

Il tuo nome è ispirato a quello del protagonista del Flauto magico di Mozart. Come mai?
Lo scelse mia madre. Quando ero bambino lei cantava all’opera e io ne sono stato sempre un fan. Spesso mi chiedono se è il mio vero nome. Grazie a mia madre non ho dovuto cercarmi un nome d’arte: ce l’avevo sempre avuto.

Conosci altri Tamino nel mondo reale?
Credo che ce ne siano po’ in Germania e in Austria, per i motivi suddetti. Inoltre mi fa sorridere che moltissimi cavalli da corsa si chiamino come me. Spesso quei cavalli hanno nomi strani: Tamino è uno dei più gradevoli.

Molte delle tue canzoni esplorano il tema del passare del tempo, scomposto nelle sue caratteristiche paradossalmente opposte della gravosità e della transitorietà. Pensi al tempo come a una grandezza fisica che ti porta via qualcosa o come a un concetto che ti trasforma?
Per porla nel modo più ingenuo, forse sciocco: dal tempo perdi sempre qualcosa, per prendere qualcos’altro. Ci credo fermamente. Il peggiore consiglio che ti possano dare è di non cambiare mai. Se ci pensi bene, anche quando te danno con le intenzioni più premurose, non è mai, di fatto, un vero incoraggiamento. Non cambiare, restare chi sei per sempre, non permettere al tempo e alle esperienze di cambiarti significa impedire alla vita di insegnarti qualcosa. È da matti. Non augurerei a nessuno che non vedo da dieci anni di essere perfettamente riconoscibile ai miei occhi.

Il titolo del tuo nuovo album, Every Dawn’s a Mountain, evoca l’immagine di qualcosa che si erge imponente, una scalata difficoltosa. Cosa rappresenta per te questa montagna?
Amo l’ambiguità di questo titolo. Ogni giorno costituisce una lotta e un’opportunità. L’idea di scalare una montagna è invitante e ardua. Non importa se non sarai sempre in grado di raggiungerne la vetta, perché ci potrai riprovare l’indomani. Ogni giorno, ogni alba è una montagna.

Foto: Kimberley Ross

Hai scritto e prodotto questo disco in svariati angoli del mondo, ciascuno con la sua energia e la sua storia. Uno dei suoi pezzi più significativi, Babylon, è stato suonato per la prima volta in Italia. Dov’eri?
Ero all’interno della Rocca Malatestiana di Cesena, per un piccolo festival musicale. Ogni sera suonava un gruppo diverso. Erano un luogo e un tempo molto speciali.

Quando può un luogo influenzare la musica che vi produci? Ti sentivi connesso a quelle città oppure prevaleva in te la sensazione di superarle, viaggiandoci attraverso, mentre scrivevi e componevi?
A lungo ho pensato che il luogo in cui lavoravo, di per sé, non potesse avere una grandissima influenza sulla mia musica. Ma poi ho capito che non potevo affermarlo con certezza, per gli stessi motivi che, del resto, ti portano a non conoscere mai da dove realmente venga la musica.

Questo vale anche quando, per un periodo, scrivi sempre nello stesso luogo?
L’ispirazione è un processo molto strano. A volte puoi stare alla chitarra per un giorno intero senza tirarne fuori niente. Altre volte tre canzoni nascono in una sola mattina. Per citare Leonard Cohen per la milionesima volta: se sapessi da dove vengono le buone canzoni, ci andrei più spesso.

C’è, però, una città di cui senti maggiormente il peso?
Trasferirmi a New York è stato un passo determinante. Per la prima volta ho sentito che un posto mi permeava in modo evidente. C’è qualcosa di New York che tutti quelli che ci sono stati avvertono. È una città spietata, che non sembra interessarsi a te, solo finché non comincia a entrarti dentro. La sua influenza allora diventa innegabile. Mentre non saprei dire esattamente come e quanto altre città mi abbiano influenzato, ho la certezza assoluta che solo New York mi abbia costretto a porre in dubbio chi fossi.

A che conclusioni sei arrivato in quella che racconti come un’odierna Babylon?
New York è così esigente che diversi musicisti che conosco, dopo averci lavorato, hanno deciso di lasciarla, proprio perché chiedeva troppo. Non volevano farsi scuotere ogni giorno dalla testa ai piedi da quell’onda anomala di città: preferivano dei luoghi di lavoro più neutrali, in cui disporre più liberamente del proprio tempo. Io, invece, di New York amo il fatto che puoi lasciarle fare una parte del tuo lavoro. Sono una persona piuttosto introversa e ho bisogno di una città che, appena accenno a fare un passo fuori dalla porta, mi afferra e non mi lascia più, finché non rincaso.

Foto: Kimberley Ross

Sei finito a vivere nel quartiere che preferivi?
Vivo nell’East Village. Sono troppo giovane per sapere come fosse davvero negli anni ’80, all’apice del suo splendore. Ma molte persone che, invece, c’erano, mi confermano che sia uno dei quartieri della città in cui quell’epoca è meglio preservata. Nonostante sia, com’è noto, carissimo; sia per l’estetica che, almeno in parte, per l’anima, l’East Village fa ancora tanto vecchia New York.

Ci fa piacere sentirti parlare così, perché si parla spesso di un nuovo ciclo di decadenza culturale a New York.
Chi lo fa parla di un aspetto superficiale e non dell’anima di quel luogo, che resta viva anche se, di certo, non è intoccabile: puoi ferirla, potresti anche ucciderla. Ma se quell’anima non fosse ancora viva sono certo che tanti artisti e creativi non lotterebbero strenuamente per viverci, soprattutto a quelle condizioni improbabili o impossibili.

Del resto, guardiamoci intorno: anche la depressione di una città come Roma può essere fonte di ispirazione, se non altro per le sfide che impone.
Questo è vero al 100%. Per esempio a New York, nel bene o nel male, puoi toccare con mano le conseguenze dell’apogeo della società capitalistica. E lei non fa niente per nascondertelo.

Ascoltando il nuovo disco è evidente come la tua musica sia in grado di catturare emozioni che le sole parole non possono esprimere del tutto. Ci siano esperienze che possono essere fatte solo attraverso i suoni?
Questo è il motivo per cui faccio musica. È una forma di comunicazione in cui idee e concetti, che possono anche essere molto concreti, trovano una forma astratta. Sono convinto che, senza questa astrazione, le emozioni, le storie e le persone non potrebbero essere rappresentate nella loro essenza: sarebbero bidimensionali. La profondità della musica espande tutte queste cose e, al tempo stesso, le preserva, perché anche altri possano conoscerle. Per questo la musica è importante storicamente. Non a caso la prima cosa che pensiamo quando pensiamo a un decennio della storia recente è la musica corrispondente.

In Babylon descrivi un simbolo universale di caos e decadenza e, insieme, la possibilità della connessione tra mondi differenti. Produrre musica è per te un’esperienza solitaria o creazione condivisa?
Penso che sia sentirsi soli nella partecipazione a qualcosa di collettivo. Certo, il concetto di città babilonica è precedente a New York: è un vulcano sociale che potrebbe essere sul punto di eruttare ovunque. Non avrebbe senso fare l’esperienza di posti così senza farsi coinvolgere dagli altri, cercando di separarsi completamente dal contesto. Ma sono i miei occhi che osservano tutto questo, e sono occhi diversi da tutti gli altri, non solo perché nella specifica Babilonia newyorkese sono un outsider, ma perché tutti gli occhi sono diversi.

Foto: Kimberley Ross

Il tuo lavoro e gli stessi strumenti che suoni sembrano unire culture, storie e tradizioni differenti. In un mondo che spesso enfatizza la divisione, pensi che l’arte abbia il potere di dissolvere i confini o semplicemente espone i modi in cui siamo già connessi?
Ideologicamente tendo alla seconda opzione. La bellezza dell’umanità, da quando commerciamo, da quando viaggiamo, da quando migriamo, risiede nel modo in cui le sue parti si influenzano tra loro. In particolar modo, poi, nella musica, tutti i confini che ci poniamo o ci vengono posti sono fittizi. È vero che esistono delle differenze culturali ma, più in alto di tutte queste possibili differenze, c’è una dimensione universale che è in grado sia di evidenziarle che di annullarle.

Se potessi suonare una tua canzone a un personaggio del passato, anche remoto, quale canzone sarebbe e a chi la dedicheresti?
Mi domando chi potrebbe essere interessato… Forse, semplicemente, mio nonno (il cantante e attore egiziano Muharram Fouad, nda). Mi piacerebbe tanto che fosse ancora qui. È stato l’unico nella mia famiglia ad avere avuto una vita simile alla mia. La musica era la sua vita, aveva cominciato da giovanissimo. La canzone sarebbe semplicemente Babylon, dal nuovo album. Può sembrare una risposta scontata ma quella canzone e la dimensione che evoca, per me, hanno un significato anche molto personale e familiare. Chissà se, ascoltandola, esclamerebbe: «È questa la mia progenie?».

Altre notizie su:  tamino