Per scrivere il nuovo album uscito oggi, Furèsta, La Niña ha afferrato la tradizione della musica popolare napoletana e l’ha piegata come ferro rovente, per poi forgiarla a colpi di tamburelli e di varie altre forme di schiaffo morale e culturale. L’artista ci ha ricordato che la musica può nascere dal cuore e dalla mente, non solo dai like e dagli sbigliettamenti. Il fatto che le colonne portanti del disco siano misticismo tribale, sensualità terrena e ribellione viscerale l’ha aiutata non poco nel suo compito.
Graficamente, nel presentare il disco, La Niña ha ulteriormente esplicitato una sua caratteristica iconologica che si porta dietro dai tempi di Salomé, cioè il fatto che questa ragazza nata a San Giorgio a Cremano si possa configurare come una sorta di reincarnazione sonora e femminile di Caravaggio. Nella copertina dell’album ha posto la sua testa su un tamburello, come Caravaggio aveva messo quella di Medusa su uno scudo. Del resto, in ciascuno dei dieci nuovi brani ombra mistica e luce di strada si rincorrono e la devozione convive con la carne.
In altre parole, ascoltare con attenzione questa Niña è come entrare in una chiesa sconsacrata e scoprire che, al posto delle statue dei santi, nelle stesse nicchie, ci sono donne sudate, lingue taglienti, corpi che ballano attorno a pali ardenti, voci antiche che cantano sotto un cielo diversamente celeste. La sua musica distilla il meglio del folklore e il peggio del presente in un’Annunciazione fatta da una ballerina di tarantella con le “zuoccole” ai piedi.
In Furèsta ci sono pezzi come Guapparìa, che suonano come un’elegante coltellata, una critica sociale molto attuale nascosta in un canto popolare. La guapparia che teorizza è la fast fashion della dignità: tutti vogliono apparire, nessuno vuole sentire, in una parodia dell’estetica contemporanea sfottuta come se fosse un impacco di Auto-Tune sul dolore. C’è Oinè, in cui giardini rubati, lingue velenose e serpi profumate ci dimostrano che invidia e desiderio possono convivere sulla stessa lingua biforcuta. C’è anche un brano dolcissimo e infantile come Pica pica, che racconta come la vera bellezza non debba mai temere di poter essere rubata.
In un mondo musicale, e non solo, in cui molti preferiscono mostrare solo la superficie della pelle, perché tu hai deciso di cantare il sudore che c’è sotto?
Non direi che si è trattato di una scelta, piuttosto di un assecondare la mia natura in maniera totalmente libera. Da qui è venuto il titolo del disco: Furèsta, che sta per selvaticità, indomabilità. Nel seguire quell’istinto mi sono sentita molto, molto nuda. Sì, ho mostrato il sudore. Provavo talmente tanta urgenza di andare in profondità, negli abissi delle cose, che ho finito per fare pornografia della musica. Avevo voglia di mostrare gli strumenti, le loro corde, di far vedere il suono a chi non poteva essere in camera con me, mentre componevo il disco. Il mio problema con il web e con la diffusione della musica su supporti di qualunque tipo, anche analogici, è sempre stato non riuscire a restituire l’energia del live, l’emozione del suonare in camera con qualcuno, la sensazione della vibrazione del suono nello spazio. Per questo ho fatto uno specifico lavoro per mettere in mostra la musica il più possibile e per restituire appieno il lavoro di ricerca, di contemplazione del suono che c’è dietro il disco. È una cosa di cui avevo bisogno e che mi ha emozionato.
Cos’è che ti affascina tanto della continua commistione tra sacro e profano, tra strada e salotto, tra alto e basso, e tra tutti gli opposti ambivalenti che canti?
Ho sempre pensato che la mia natura come essere umano, come donna, sia in questo stare nel mezzo. Sono sempre stata nel mezzo di tutto, nella mia vita. Questo non vuol dire non scegliere una posizione, perché è una posizione ben precisa, quella al centro. Io sono schieratissima, ma come Aristotele, che diceva: «La virtù sta nel mezzo». Questa ricerca di equilibrio è l’unica cosa che mi ha sempre ispirato ad andare avanti, in quanto è una ricerca inestinguibile. L’equilibrio non esiste; quindi, più vado a fondo, più non troverò fine. Questa cosa mi fa sentire viva nella musica, come nella vita di tutti i giorni. Non pretendo, però, che il mio sia un vero e proprio disco di ricerca: il mio è un disco molto spontaneo che, però, musicalmente affonda le radici in cose sospese nel tempo e nello spazio.
E questo vale anche per un bilanciamento tra musica tradizionale ed elettronica?
Anche il dialogo tra passato e presente mi affascina, perché mi dà un senso di eternità, di circolarità. Per me è importante che la mia musica sia databile nell’oggi. Ma è altrettanto importante che contempli quell’eternità di cui godono alcune opere nate dal popolo, dalla tradizione popolare. Opere colte e non, teatrali e non, dalle tammurriate all’opera buffa napoletana. Tutte esprimono esigenze umane che si ripetono. E questo somigliarsi degli uomini nel tempo è una cosa che è avvolta nel mistero, ma per me ha un senso, come tante altre cose inspiegabili.
Da dove sei partita?
Proprio dalle tammurriate nelle campagne campane. Dico campane perché anche la musica che Roberto De Simone ha indagato, traslato e portato nel suo teatro, nasce nelle campagne e solo dopo arriva in città: non nasceva urbana, si è urbanizzata dopo. Per questo per me è stato così importante risalire alle radici di certi canoni del linguaggio che molti danno per scontato che appartengano alla città di Napoli. Ma non è così, non è vero. Napoli non è niente, Napoli è un quadrato. Attorno ad essa c’era la cultura della Campania Felix tutta intorno, che custodisce misteri e misticismo, a cui hanno i grandi del passato hanno attinto nelle proprie opere.

Foto: Gesualdo Lanza
Ascoltando Furèsta abbiamo vagato indisturbati, per qualche giorno, in questa tua foresta nera di suoni. Per cercare un minimo di districarci, ti chiediamo che musica ascoltava la bambina che sarebbe diventata te.
Mio padre, direi per fortuna, era un collezionista di vinili e un ascoltatore molto atipico e incoerente. Sono cresciuta tra il jazz puro di Miles Davis e John Coltrane e il prog dei Gentle Giant, tra il folk irlandese dei Jethro Tull e il country americanissimo, anche un po’ patinato, di Béla Fleck. Per non parlare di Aretha Franklin e i Beatles. Questi dischi erano suonati 24 ore su 24 e io sono cresciuta cantando questo marasma di suoni globali, finché non hanno fatto la loro comparsa nella mia mente, sedimentandosi, le Villanelle della Nuova Compagnia di Canto Popolare e, ovviamente, La Gatta Cenerentola di De Simone. Ma non bisogna dimenticare che ero una bambina degli anni ’90. Quindi, Britney Spears.
E chi fece più breccia nei tuoi gusti?
Sono cresciuta con tutti questi stimoli, anche molto contrastanti. Ma non mi sono mai innamorata di niente di tutto ciò. Neanche delle cose più alte. Ho sempre vissuto la musica più come qualcosa che mi piaceva fare e non ascoltare. Perché, chiaramente, anima ribelle, anima furèsta, non accettavo quello che mio padre o la televisione mi facevano ascoltare.
Quando sfiori l’infanzia nei pezzi di questo album, e un paio di volte la tocchi decisamente, fa la sua comparsa una tenera malinconia, ma anche una corsa dentro la vita. Chiena ‘e scippe è reale nostalgia di un vissuto è un romanzo di formazione che voluto abbozzare? Da dove viene la luce negli occhi di quella bambina che scappa con le mani piene?
Questo è una risposta che ho difficoltà a darti. Io non lo so se quella bambina fosse felice o se sono io a volermi dirmi che lo era. Chiena ‘e scippe è il mio pezzo preferito dell’album, ma riesco a cantarlo solo con molta difficoltà.
Al di là della discografia comparata, che infanzia hai avuto?
La mia memoria dell’infanzia è anche molto burrascosa e offuscata. Credo che non saprò mai se questo ricordo di gioia, che hai colto, fosse reale. Mi sto interrogando, sto cercando di capire se quella bambina che realmente inseguiva i gatti e li amava, di fatto, fosse felice o sono semplicemente felice, adesso, nel pensare a una spensieratezza che, forse, non ho mai avuto. Gli animali erano la mia fonte di gioia, questo lo ricordo. Io, i gatti e gli uccelli: passavo le ore a rincorrerli, le ore. E questa immagine mi dà comunque gioia e speranza. Magari non ero la bambina più felice del mondo, però il contatto con la natura e con quelle bestiole l’ho avuto.
C’è stato qualcuno in particolare che ti abbia insegnato, per citarti, che “senza amore non si canta”?
No, me lo sono insegnato io da sola. L’ho deciso io che sarebbe stato così.
Come è successo che a un certo punto hai capito che la tua voce, quella con cui tu spontaneamente ricantavi tutto quello che ascoltavi, non era solo una voce ma era proprio la tua voce? Cioè quando hai cominciato a pensare di poter fare della musica un mestiere?
La domanda è pertinente perché per vari anni, almeno fino a cinque o sei anni fa, la musica me l’hanno buttata addosso. Ero una ragazzina di talento, figlia di musicisti e devo dire che, non tanto i miei, quanto alcuni amici che gravitavano loro attorno e che appartenevano al mondo dell’arte – i Planet Funk erano molto vicini a mio padre – vedevano questo talento e cercavano di farmi fare musica. Ma io non ero pronta. Mi sono trovata a fare un canzone, ma non capivo perché lo stessi facendo. Alla fine, dopo che mi hanno messo addosso questo vestito, ho cominciato a modificarlo sartorialmente. Pensavo che non avessero tutti i torti, che fosse bello fare musica, però non sapevo davvero come si facesse. Non avevo capito chi fossi. Dopo anni e anni di ricerche, alla fine ho capito. C’è stato un giorno di cinque anni fa in cui mi sono ho detta: «Cazzo, tu sei una persona che ha sempre mollato tutto nella vita. L’unica costante è che non hai mai smesso di fare musica. Ma non è che questo è l’amore della tua vita?». È stato un momento di risveglio della coscienza, e mi sono resa conto che quella costante mi avrebbe salvata.
Qual è stato il primo passo?
La ricerca di una voce. La mia voce, devo confessare, non mi piaceva. Motivo per cui ho cannato tutti i progetti discografici che avevo fatto uscire fino ad allora. Ho fatto take down di certe cose di cui mi ero pentita: mi facevano schifo. Il problema era sempre la voce. Musicalmente mi sentivo fica, brava, avevo una bella direzione, però non mi piaceva la voce. Fino a quando, nel 2017, non scrivo una poesia con una parte in napoletano, per puro caso. Comincio a cantarla e la mia voce muta. Sento una voce che mi emoziona per la prima volta. Era la lingua che plasmava il senso. Ho cominciato a fare cose difficili, scale complicate: non capivo da dove venivano, melismi, scale arabeggianti. Come riuscissi a fare quelle cose per me rimane, tutt’ora, un mistero. Anche oggi canto cose difficili senza capire come ho fatto a comporle. Non so perché ho queste skills per cui non ho mai studiato, che non ho mai sistematizzato. Evidentemente in questo c’è qualcosa di inspiegabile, di mistico, che non mi è dato sapere.
In questo ultimo viaggio musicale ti sei mossa da sola o ti sei avvicinata ad altre persone?
Il disco è nato con la volontà di aprirmi. Innanzitutto è stato creato a quattro mani, con Alfredo Maddaluno, che è anche l’art director della Niña. Abbiamo scritto e prodotto tutto insieme. Anche se è un disco che ha anche una natura femminile molto forte, è stato un uomo ad esserne il fondamentale sostegno, e sono felice di essere testimone di questa coesione così naturale e forte. Inoltre è un disco ad impianto corale, con una band allargata, tant’è che in tour siamo in sei. È un tour che per fortuna sarà molto fitto e non solo italiano. Avevo voglia di farmi influenzare da altri musicisti, da virtuosi dello strumento, che potessero dare valore aggiunto a quello che la mia mente ha scritto, prodotto ed editato per un disco molto, molto difficile da suonare. Ci sono voluti tre mesi di prove. Accanto a questi maestri ci sono voci femminili in grado di restituire un senso di coralità. Avevo bisogno di spersonalizzare un po’ La Niña, di ridurne l’ego e di presentare al pubblico qualcosa che non fosse una pop star. Mi angoscia l’idea che la mia musica abbia una faccia sola: va bene che ci sia uno sguardo, ma quello sguardo deve essere evocativo di altri mondi, di più persone. È stato liberatorio non essere più il pezzo di carne Carola Moccia, perché vorrei che la gente non si affezionasse alla persona, ma alla musica.

Foto: Gesualdo Lanza
Attualizzando un’immagine antichissima, in Guapparìa usi la lingua come una spada. Che ferita vuoi infliggere? Come vuoi incidere sulla realtà?
Voglio far sentire in colpa le persone che marciano sul dolore altrui. So per certo che creativi, politici, e perfino alcuni miei amici, si sono sentiti molto colpiti dalle cose che ho detto in questa canzone. È troppo forte la tentazione di marciare sui problemi e di renderli fashionable, glamour. Invece non è cool criticare, non è cool raccontare la cruda realtà. È troppo più cool fare slogan di effetto che ammicchino a un problema senza fare un cazzo per risolverlo e senza neanche cercare dei colpevoli. Lì nel pezzo, invece, ci sono. In Italia veniamo da un trentennio che ha azzerato la capacità critica della persone. Chiaramente la maggior parte di esse sono vittime che non sanno perché vengono fotografate, perché vengono intervistate, perché hanno un successo dilagante. Ignorano che il loro successo si basa sull’essere derisi da altri. Non hanno la capacità critica di analizzare la realtà, perché siamo in un momento di crisi globale della cultura. Quindi per me è stato fondamentale inscenare una sorta di funerale, per loro, ma senza palesarlo, perché anche quello sarebbe stato glamour e non volevo che lo fosse. Non volevo far vedere i morti sui motorini, non volevo far vedere il lungomare, non volevo far vedere niente di tutto ciò. Anzi il mio obiettivo era non far vedere la mia città neanche per un istante. Volevo far respirare la cultura attuale con il suono e raccontare la rabbia e i disagi di un Sud del mondo da sempre mortificato e che da sempre ha cantato così. Non sono la prima, sono l’ultima, sono niente. Ho soltanto provato a rimettere in scena una vibrazione, un’urgenza, una sofferenza che esiste da tempo immemorabile. Perché la povertà è sexy, il disagio è sexy, a nessuno piacciono le persone felici. Per questo Guapparia apre il disco ed è il primo pezzo che ho fatto uscire: è un manifesto.
Sembra così definito un bestiario di demoni di riferimento, ma chi sono possibilmente i tuoi angeli? Chi metteresti su un altarino postmoderno?
Sicuramente come filosofo Blaise Pascal, che mi ha insegnato una prospettiva mistico-religiosa, una fragilità, una contraddizione anche nella scrittura che mi rappresenta molto e che mi ha insegnato a vacillare. Poi, sempre in ambito di scrittura, però stavolta totalmente immersi nel mistico, direi María Zambrano, l’allieva di Ortega, la cui lettura mi ha cambiato la prospettiva sull’uso del linguaggio. Ogni volta che penso a lei ricordo che la lingua è anche onomatopeica, che non devo pensare solo al significato delle parole, ma anche a quello che possono evocare. Per il teatro, sarà banale, ma non posso non nominare De Simone per la sua ricerca etnomusicologica sulle tradizioni della nostra terra. Tutti conoscono La Gatta Cenerentola, ma lui ha attinto a cose che vanno molto al di là di quell’opera. Ha documentato la musica nelle campagne per anni e anni e ne ha lasciato segni nelle sue opere, mostrandoci come la cultura più elevata possa non essere necessariamente pesante, ridondante, accademica, ma essere anche in grado di riportare all’attenzione cose che hanno dei significati importanti per tutti. E finirei con Pasolini.
È un bel pantheon.
È un pantheon da cui mi sento fortemente protetta e ispirata.

In un altro brano del nuovo disco, ’O Ballo d’ ’e ’mpennate, c’è il trionfo di quell’arte tipicamente partenopea di trasformare il quotidiano in mitologia. Una coda alzata, animalesca, ha improvvisamente il peso di un manifesto post-femminista. Quella è una danza politica o è una rivolta coreografica? Nel tuo mondo, la femminilità è più un altare o una trincea?
Io penso che siano entrambe le cose. È altare non per scelta nostra. Per motivi, secondo me, che rientrano ancora nella categoria delle cose inspiegabili, la donna è archetipica. Rappresenta tante cose che sono indissolubili dal suo potere sensuale. Non se ne esce, è inutile. L’altare sta lì e la donna ci viene messa sopra, perché è musa, musa da sempre. La natura ha posto le basi per questa verità. Ma la femminilità non può non essere anche una trincea. Riuscire ad essere liberamente donne è sicuramente una conquista. Non è una cosa data, non è una garanzia, ma qualcosa per cui si combatte nelle azioni quotidiane. È una continua lotta. E questa è una cosa che ogni donna, nessuna esclusa, sperimenta sulla propria pelle. Per questo direi che ’O ballo d’ ’e ’mpennate è un’opera mistica, surreale, in cui le donne hanno la forza dei cavalli. È un modo di raccontare una potenza desiderata, ma che non sempre si raggiunge, perché molto spesso le donne sono vittime.
Anche nel nuovo album, che pure a tratti è intimo, infantile (pensiamo a Pica, pica), è comunque molto presente un horror vacui. È traboccante di immagini, di concetti, e anche quando non c’è tanta luce, ancora una volta caravaggescamente, lo spazio è riempito dal chiaroscuro. Non l’avresti intitolato Furèsta, sennò. Ma che ruolo ha il silenzio in questo album e nella tua musica, se ne ha uno?
La ricerca della Zambrano di cui vi parlavo prima si basa proprio sul silenzio, da cui nasce la contemplazione. Per scrivere questo album ho dovuto prendermi una lunga pausa dalla composizione e dall’ascolto di musica, per ricalibrarmi davanti alle necessità che avevo nei confronti di questa espressione artistica. Mi sono chiesta cosa volessi ottenere dalla musica e, per darmi una risposta, ho dovuto restare a lungo in silenzio, riordinando i pensieri. Per me le pause, anche nei concerti, sono fondamentali, perché non voglio eseguire le canzoni come se fossero delle opere chiuse. Voglio che un concerto sia un flusso. Ma un flusso continuo di parole sarebbe assordante e non ne rimarrebbe nulla. Il silenzio è fondamentale per far sedimentare i significati.