Erano dieci anni che Lana Del Rey non si sentiva tanto entusiasta. Da tempo non trovava stimoli, qualunque cosa le sembrava una fatica. È andata avanti così per un bel po’ di tempo, ma è tutto cambiato tre mesi fa quand’è andata in un centro commerciale della Valley col fratello minore Charles e la figlia della sorella Caroline. Hanno passato una giornata serena e rilassata. Hanno passeggiato fra i negozi indossando le mascherine, coi tratti del viso celati. Mentre lasciavano il parcheggio a bordo delle loro auto, Charles le ha telefonato: «Non ti senti diversa?». Lana Del Rey ha dato una lettura emotiva e metafisica di quel che le era accaduto. «Che strano, anch’io mi sento diversa».
Non c’è alcuna logica dietro a un tale cambiamento. «È buffo», mi dice con voce sospirante stile vecchia Hollywood mentre è seduta all’aperto, su un divano, in un giardino di Los Angeles. «A volte preghi fino allo sfinimento affinché tu ti possa liberare da un peso e poi, senza motivo apparente, all’improvviso tutto si risolve da sé».
La cronica mancanza d’entusiasmo di Del Rey ha iniziato a manifestarsi dopo l’accoglienza negativa ricevuta da Born to Die, il suo album d’esordio del 2012. Che ha sì avuto un gran successo di pubblico e le ha regalato lo status di artista di culto, ma è stato criticato da giornalisti musicali e blogger. I detrattori le davano dell’incapace e della truffaldina, la descrivevano come una ragazzina ricca con un’identità artistica costruita a tavolino da una major e dal management. Né hanno aiutato a inquadrare artisticamente Del Rey le modifiche apportate al disco all’ultimo minuto, modifiche che l’hanno cambiato in modo radicale. «Pensavo: adesso è tutta un’altra cosa, le ballate suonano come pezzoni pop», ricorda Del Rey. «E così, invece di essere percepito come il lavoro di un’artista alternativa, riflessiva, dal piglio diaristico o che altro, è stato giudicato secondo altri canoni. Mica facile. Ricevere critiche così pesanti non aiuta ad andare avanti serenamente».
Le sue idee erano avanti rispetto ai tempi e hanno anticipato l’ondata alternative pop da cui sono emerse artiste giovani, strane e tristi come Lorde, Halsey, Sky Ferreira e la più grande popstar della generazione successiva, Billie Eilish.
Magari, pensa oggi Lana Del Rey, se del disco avessero scritto suoi coetanei (all’epoca aveva 27 anni) le cose sarebbero andate in un altro modo. Non che alcuni critici non abbiano riconosciuto le sue potenzialità. In un pezzo del Guardian (uno dei tanti basati sulla questione marginale dell’autenticità), un giornalista prendeva le sue difese scrivendo: «Penso che le importi molto dell’arte che crea. Non credo affatto che sia falsa». E poi: «Lana Del Rey può arrivare dove vuole. Un giorno sarà sulla copertina di Rolling Stone».
Nel corso dell’anno in cui è uscito l’album, Del Rey ha lasciato New York, dov’è cresciuta, per Los Angeles. Voleva stare lontana dai media e dalla gente che, per strada, le riversava addosso della negatività. Una serie di esperienze e incontri fatti tra i 25 e i 30 anni ha ulteriormente acuito in lei la sensazione che la gente avesse un’immagine distorta di lei. «Era come vivere in un mondo sottosopra», ricorda. A quel punto l’impulso che sta all’origine del suo lavoro non era più il desiderio di esprimere se stessa, come nell’esordio e in misura minore in Ultraviolence del 2014. «Dovevo cercare di sopravvivere, cercare di metterci un pizzico di glamour e spiegare come pensavo di superare le situazioni di cui cantavo». Nel caso di Ultraviolence, si trattava dell’essere l’altra, ma anche di isolamento e perdita. Ha poi parlato di codipendenza, di passività nelle relazioni, di fama e dei rapporti complicati con gli uomini, con la madre e con l’America.
Del Rey spiega come ha ritrovato la voglia di vivere e si chiede se il modo in cui oggi s’affrontano i traumi e i problemi di salute mentale abbia contribuito a questa evoluzione. «Ora è quasi impossibile sbagliare, a meno che non tu non sia Kanye che tira in ballo il nazismo. Oggi si possono dire apertamente cose tipo: quando avevo 10 anni ho visto cadere un albero e da allora non sono più riuscita ad andare a piedi fino al negozio. Chiunque ha una storia del genere da raccontare, una storia universalmente condivisibile. Un ruolo l’ha giocato il cambiamento nella cultura, e io non me n’ero neanche accorta».
È un’ottima cosa, anche perché Del Rey stava cominciando a chiedersi se la fase positiva non sarebbe mai arrivata. Ora finalmente sorride: dopo 11 anni, ha ritrovato l’entusiasmo.
Incontrare Lana Del Rey di persona è strano, considerando l’iconografia fortissima che la circonda. Non è in bianco e nero e nemmeno in tonalità seppia, né indossa uno dei suoi abiti bianchi da star. Tutt’altro. Si ha la sensazione di avere di fronte una persona sobria, come un David Lynch o una Joan Didion o una Patti Smith: un’artista che ha creato un proprio mondo, ha documentato il mondo o ha davvero vissuto nel mondo. Del Rey ha fatto tutte e tre le cose insieme e in modo decisamente creativo.
È metà pomeriggio, mancano pochi giorni a San Valentino. Sono nel giardino di una casa di West Hollywood che sembra fatta di pietra, vetro e luce. Del Rey è esattamente come vorrebbe vederla un fan ossessionato dalle foto scattate dai paparazzi. Quando esce dalla porta del patio per cominciare l’intervista, indossa una maglietta bianca con scollo a V, una felpa marrone col cappuccio e pantaloni da yoga. Non si è truccata, a parte un filo di kajal e le extension alle ciglia. I lunghi capelli castani sono sciolti, come quelli di una bella mamma casalinga in un momento di pausa. Traffica con una sigaretta elettronica, con le chiavi del furgone, con una tazza di Starbucks e con un iPhone che ha spaccato mentre veniva qui. In poche parole, è il genio più normale che possiate incontrare.
Ha una gestualità da star anni ’50 trasportata in un mondo fatto di Brandy Melville, Sephora e Instagram. Dà risposte sfuggenti che sembrano avvitarsi e allontanarsi come fumo, il che rende ancora più evidente il fatto che non sappiamo granché sul suo conto. È divertente e diretta come potrebbe esserlo la vostra migliore amica dall’animo creativo se diventasse famosa. Come quando ha twittato ad Azealia Banks, la rapper che ha attaccato briga con lei: «Sai dove abito, vieni quando vuoi». O quando, col suo fidanzato dell’epoca, ha fatto una diretta Instagram da un Denny’s mentre lui forniva aggiornamenti sulle elezioni presidenziali a lei e ai suoi fan. O, se vogliamo credere alle voci che girano, quando ha fatto piazzare un cartellone pubblicitario per promuovere il suo nuovo album nella città natale di un ex e solo lì. La sua informalità contrasta nettamente con l’immagine che emerge dai servizi fotografici e dai video musicali (quella della casalinga bruna e ordinata che è anche star del cinema). In definitiva, è una cantautrice e, dopo l’uscita dell’ambizioso album folk-pop Norman Fucking Rockwell! (2019), è considerata una delle migliori.
Anche la quotidianità di Del Rey è così: semplice ed essenziale. Ne è testimone Jack Antonoff, amico e produttore di alcuni dei suoi lavori più recenti. «Capita che Lana sia nel suo furgone, in una stazione di servizio a Los Angeles: le vengono in mente dei testi, li scrive, mi chiama su FaceTime, va a trovare un’amica, poi va in un’altra stazione di servizio, si ferma nel parcheggio dentro al furgone a pensare. Non è una che recita. Succede spesso che la gente non colga questo suo aspetto, perché oggigiorno molti interpretano dei personaggi. Lei no, è solo un’anima irrequieta». Come ha detto in un’intervista rilasciata a Billboard qualche anno fa, quando la musa le fa visita, si mette a scrivere; ma quando la lascia in pace, è da Starbucks a sparare cazzate con le amiche.
La normalità mistica di Lana Del Rey è amplificata dal fatto che a un certo punto, nel 2021, ha deciso di sottrarsi a quella che la psicanalista Clarissa Pinkola Estés chiama overculture e ha annunciato che avrebbe lasciato Instagram per concentrarsi sui suoi progetti. Ha continuato a utilizzare un account privato, dove posta per i due milioni di fan che sono riusciti a connettersi nella breve finestra temporale in cui è stato pubblico e liberamente accessibile. È stata la sensitiva Tessa Dipietro, con cui si vede ogni giovedì, a spiegare a Del Rey il concetto di overculture, che indica la cultura egemone in cui cerchiamo di navigare senza però esserne inglobati, perdendo le nostre specificità. «Stavo dicendo a Tessa che sentivo di non avere un luogo dove andare, sia fisicamente che psicologicamente», racconta Del Rey. «Se sei un cantante e le opinioni della gente sul tuo lavoro sono mutevoli, a un certo punto cominci a pensare di avere qualcosa da imparare da quel che dicono di te. Allo stesso tempo, non sono una che si entusiasma per i giudizi positivi altrui, ad eccezione di quelli di poche persone. Per me era importante tagliare fuori ogni influenza della cultura esterna con cui non mi sentivo in sintonia. Ho sempre saputo che avrei fatto anche altro, oltre a cantare. Per capire meglio quale sarebbe stato il mio percorso, dovevo seguire l’istinto».
Allontanandosi da essa, è riuscita a vedere la cultura in modo più chiaro. I suoi album sono lo specchio di tutto ciò e sono diventati sempre più ironici e analitici. Nel frattempo, il suo sound diventava al 100% Lana: classico e glamour, con quella voce caratteristica teatrale e ariosa. In Antonoff ha trovato una spalla in parte fuori dagli schemi come lei. «Jack ed io siamo molto simili, nel senso che siamo al corrente di tante cose che accadono in ambito culturale, ma non abbiamo la minima idea di come le conosciamo. Non leggiamo tanto, né sentiamo molto parlare di questa roba, ma in qualche modo siamo consapevoli di quel che accade in ambito culturale». Succede che lei e Antonoff si mettano a discutere in studio di come sopravvivere ai trend che si susseguono nella tecnologia, nell’autopromozione, nella musica, nella società. «Se anche se mi trovassi in un posto sperduto, avrei comunque il polso di quel che succede».
C’è un afflato spirituale in quel che dice Del Rey. Non appena si siede, scherziamo sull’astrologia e ripensando a quando ha twittato la sua ora di nascita e tutti, compresa lei, hanno capito che il suo segno zodiacale è Cancro e non Gemelli. «Un volta avevo 1000 dollari da spendere e mi sono comprata un bellissimo medaglione dei Gemelli che ora non significa più nulla per me», dice battendo le mani. È talmente colpita dalla sua sensitiva di fiducia che, ogni volta che qualcuno le dice che deve essere orgogliosa della musica che fa, lei pensa: «Dovreste vedere cosa riescono a combinare certe persone nel giro del wellness, soprattutto a Los Angeles, che è la Mecca per queste cose». Cantare è un talento, ma le facoltà psichiche sono per lei una magia. «Quando incontro qualcuno con quel dono, ho la conferma del fatto che c’è molto di più, oltre a ciò che sappiamo».
L’attrazione nei confronti del sovrannaturale ha avuto inizio quand’era piccola, durante gli anni dell’infanzia a Lake Placid, New York. «Mi divertivo a fare sport e a conoscere nuovi amici, ma mi colpiva il fatto che in tv e nei discorsi degli adulti non si provasse mai a capire da dove arrivavamo e il motivo per cui eravamo qui. Questa cosa mi ha turbato profondamente fin da quando avevo quattro anni. Con le mie domande esoteriche ho dato del filo da torcere ai miei. È una cosa verso cui si è predisposti in modo naturale». Frequentare una scuola elementare cattolica non ha fatto altro che incoraggiare questa ricerca di risposte, così come il corso di filosofia che ha frequentato all’età di 15 anni. A metà degli anni 2000, si è iscritta alla Fordham University, nel Bronx, per conseguire una laurea in filosofia con specializzazione in metafisica. «Ho cercato di rispondere a quante più domande possibili in quattro anni. Mi hanno insegnato che la filosofia è uno studio incentrato sulle domande, non sulle risposte. Non c’erano risposte, il che ha quasi peggiorato le cose».
Molte ragazze cresciute con l’idea che vi sia un disegno divino che veglia su di loro crescono con l’unico scopo di trovare un amore totalizzante, una relazione appassionata che offra una via di fuga da un’esistenza grigia e dalle dinamiche familiari incasinate in cui sono cresciute. Del Rey si è presentata come una di queste donne, con la sua prima dichiarazione artistica: “Dicono che il mondo sia stato costruito per due / Vale la pena vivere solo se qualcuno ti ama”.
Quel primo singolo, Video Games, ha conquistato gli ascoltatori con il suo ripetuto richiamo alla resa totale: “Sei tu, sei tu, è tutto per te”. Di quel sentimento, Del Rey si limita a dire: «Avevo vissuto la maggior parte della mia vita in una città di 600 abitanti, il percorso da seguire mi sembrava quello: scuola, biennio universitario, scuola professionale… e poi il matrimonio».
I fan di Lana Del Rey si trovano al centro di un ipotetico diagramma di Venn che rappresenta l’intersezione tra l’insieme delle persone che narrano il proprio dolore per riuscire a sopravvivere e l’insieme delle persone che mettono un uomo al centro della propria vita e ne incoraggiano l’auto-mitologizzazione. Tra i più colpiti dal debutto della dark star dell’Americana sono ragazze e gay. La sua musica, all’inizio, sintetizzava le preoccupazioni che mi hanno attanagliata tra la fine dell’adolescenza e i vent’anni: la ricerca di denaro e di attenzioni da parte degli uomini, la maniera in cui il sesso (o la sua negazione) diveniva un’arma e come io lo detestavo e lo desideravo allo stesso tempo, il progetto d’amore ossessivo che poteva essere distrutto in un niente da un idiota che giocava ai videogame. Nell’epoca dell’empowerment femminile degli anni ’10, Del Rey ha incarnato il piacere e il divertimento di essere donna, ma anche l’umiliazione che derivava dall’illusione che l’amore romantico risolva qualunque problema materiale o emotivo.
Quando le parlo dei fan adoranti ai tempi di Born to Die, Del Rey tira un respiro: «Io pensavo che fosse un disco per i ragazzi. Curioso come le cose siano andate esattamente al contrario. Mi sono ritrovata in mezzo alla mia gente: le ragazze». Spalanca gli occhi. «Adoro le ragazze. Sto dalla loro parte, anche se avevo scritto Born to Die per i ragazzi». Ride: è tutto molto ironico. «Voglio dire, se lo senti suona un po’ così», dice lanciandosi in una sorta di imitazione di sé stessa: «Sceglimi! Ascoltami!».
Da Ultraviolence in poi, la critica sia maschile che femminile l’ha accusata di romanticizzare le relazioni abusive. Ma, nel frattempo, donne come la stessa Del Rey e le sue fan vivevano rapporti dolorosi o tossici. «L’unica cosa che non mi sono mai fatta mancare sono le relazioni conflittuali», spiega Del Rey. «Non è che, se diventi una cantante, quando esci con degli uomini questi si sentono in dovere di essere gentili perché altrimenti la cosa si verrebbe a sapere. Non funziona così. Restano sempre sé stessi. E credo che questo sia il motivo per cui alcune delle mie cose sembrano divisive, perché o hai vissuto dinamiche familiari e relazioni interpersonali conflittuali o non l’hai fatto. E se non le hai vissute, finisci per usare parole come quelle ho sentito, tipo “finge d’essere fragile” o “glorifica la sottomissione”. E se si trattasse anche di cercare di vedere la luce alla fine del tunnel?». Del Rey non è una che traspone questo tipo di storie in un contesto musicale deprimente o respingente dal punto di vista visivo. «Stai scrivendo di ciò che è successo, ma nello stesso tempo stai anche cercando di alleggerire il carico, magari con qualche melodia».
Se hai unicamente esperienza di relazioni abusive, ti tocca apprendere alcune lezioni sui rapporti, per potere passare a rapporti più sani. Forse è per questo che le canzoni di Del Rey mostrano una sicurezza di sé e un’ironia sempre maggiore nei confronti di questo tipo di relazioni (“Maledetto, uomo bambino”, dice, facendoci praticamente l’occhiolino in apertura di Norman Fucking Rockwell!). Spesso questi insegnamenti vengono impartiti da persone specifiche, spiega Del Rey, riferendosi a una relazione avuta con un uomo in particolare: «La lezione è stata davvero scioccante e fa ancora male. Ma mi sono resa conto che solo quella persona, con quel particolare aspetto, quello status e quell’indole apparentemente allegra, tanto che quasi mi faceva sembrare negativa, solo quel tipo di persona avrebbe potuto mettermi in ginocchio nella maniera che mi serviva per capire cosa mancava alla mia vita, che mi consentisse di ripartire per essere me stessa».
In una poesia tratta dalla sua prima raccolta Violet Bent Backwards Over the Grass, descrive un viaggio disperato per partecipare a una riunione degli alcolisti anonimi, quando sa di dover troncare la brutta relazione che intrattiene con un uomo. Racconta la sua storia e piange insieme alle altre donne e agli adolescenti in riabilitazione. Del Rey conclude Thanks to the Locals con questi versi: “Non ho un bel distico per il finale di questa poesia / Niente di particolarmente eloquente da dire / Se non che sono stata coraggiosa / E sarebbe stato più facile restare”.
È una storia autobiografica al 100% ed è buffo come nessuno sappia che lei e quest’uomo hanno avuto una relazione altalenante per anni, perché non sono mai stati fotografati insieme. «Stare con la persona più divertente e brillante nella stanza può diventare un massacro», dice a proposito di quella storia. E ride aggiungendo che «ora sono più tipo da: stammi alla larga». Guarda la piscina che occupa gran parte del cortile e pensa questa persona. «Tutti vogliono te…».
Ed è buffo, dice, perché verrebbe da pensare che tutti vogliano lei, che è una cantante, e prestino attenzione a lei, non al suo partner. «Probabilmente è per questo che sono attratta dalle persone di quel genere, perché in quei frangenti tutto ruota intorno a loro, non a me. E mi piace, perché non devo preoccuparmi di ciò che pensa la gente».
La conversazione si sposta sui problemi che la nostra generazione ha nel mantenere una relazione stabile. Forse non è dovuto a com’è cambiata la percezione di matrimonio e fedeltà, ma all’auto-consapevolezza e a come cambiamo, il che rende più arduo incontrare persone e stare insieme per più di… «un anno», dice terminando la mia frase. «Non ho mai capito, prima, il detto “il tempismo è tutto”, ma ora sì». Le dico che finirebbe per torturarsi chiedendosi se sarebbe ancora insieme a lui, se il tempismo fosse stato migliore. «Questo è il problema. Negli ultimi due mesi ho letteralmente evitato di pensarci perché mi turberebbe».
Metafisica e romanticismo si intrecciano nella sua mente. Del Rey tira in ballo una relazione recente, avuta con una persona con un sacco di problemi personali, e descrive il modo misterioso in cui il semplice domandarsi se troncare o continuare un rapporto può provocare un cambiamento. «Me ne stavo sdraiata sul prato ed ero soddisfatta di me, perché avevo deciso di impegnarmi anche se le cose non erano perfette. “Tu lo ami”, pensavo, “e basta”. Quando avevo deciso di impegnarmi, lui è tornato a casa e ha detto: “Non si può andare avanti così”. Tessa dice che, in un rapporto, quando chi era un po’ indeciso cerca di investire tutto nella relazione, se la persona non è quella giusta l’universo ha un modo tutto suo di sistemare le cose».
Quando le chiedo perché l’argomento principale del suo lavoro è l’amore romantico, la risposta diventa ovvia, quasi ci stessimo ripetendo. «Ognuno trova se stesso a modo suo. Alcuni si trovano grazie al lavoro, altri ai viaggi. Io imparo me stessa stando con le persone, e quindi sono monogama e stare con qualcuno diventa per me importante». Adesso, però, la vita e la scrittura sono più orientate al quotidiano, «non reagendo alle circostanze né cercando di essere più proattiva possibile, ma lasciando che le cose facciano il loro corso».
Se vi siete domandati perché Del Rey abbia pubblicato due dischi nel 2021, la risposta è che uno era un album nato in reazione a certi eventi. Sulla copertina di Chemtrails over the Country Club c’è una foto in bianco e nero di un gruppo di donne, tra cui Del Rey, sedute attorno a un tavolo, presumibilmente in uno di quei club. Qualcuno ha insinuato che la cantante abbia piazzato qualche donna di colore nell’artwork del suo album per via del clima politico (il movimento Black Lives Matter). Del Rey ha deciso di scrivere e pubblicare altra musica per reagire alle accuse di appropriazione culturale e a quelle secondo cui avrebbe glamourizzato gli abusi domestici. «Mi sono detta: proviamo a scrivere un album che spieghi perché potrei potenzialmente identificarmi con certi comportamenti», racconta. «Quindi Blue Banisters era un album esplicativo, difensivo, ed è per questo che non l’ho promosso, ma proprio zero. Volevo che non lo ascoltasse nessuno. Desideravo che esistesse nel caso in cui qualcuno fosse in cerca di informazioni».
La musica di Del Rey era un tempo più fredda e distante. Era come se cantasse, malinconica, alle nostre spalle. Ora, invece, si rivolge alla camera e sfonda la quarta parete per parlarci direttamente. Il suo nuovo album, Did You Know That There’s a Tunnel Under Ocean Blvd, evoca un atteggiamento giocoso, libero e onesto nei confronti della realtà. I brani scorrono in una specie di trance jazzistica; canzoni classiche al pianoforte e pezzi acustici si fondono con suggestioni hip hop, pop, gospel e corali. I testi colloquiali viaggiano alla stessa velocità di una poesia di uno scrittore Beat: senza soluzione di continuità, si rivolgono a un amico parlando di cultura, danno aggiornamenti sul quotidiano di Del Rey, seminano appunti su relazioni fumose. Ma le canzoni spesso, come nota Antonoff, sono accompagnate da una «voce divina, una specie di gioia o speranza».
Antonoff produce vari brani. «Ti dà una strana botta non sapere come dovresti sentirti», dice Antonoff del secondo singolo A&W, un brano in cui l’horror folk incontra l’internet rap. «È la sensazione che aleggia su tutto l’album: puoi analizzare il pezzo per capire se ci sono accenni gospel o c’è l’808 o parla di cose andate a male. Ma in studio ci interessava trovare ciò che in quel momento era più scioccante».
Il tunnel sotto Ocean Boulevard esiste davvero. A Long Beach, c’è il Jergins Tunnel, è abbandonato, ma brilla ancora se illumini il suo pavimento fatto di piastrelle bianche, tinta sabbia e caramello e mosaici beige. La gente ci cammina sopra e non sa che è lì sotto. È stato chiuso al pubblico alla fine degli anni ’60, un tempo era un sottopasso che permetteva ai turisti di accedere alla spiaggia. I venditori di zucchero filato e di souvenir piazzavano i loro banchi lungo quelle pareti. Metaforicamente, Del Rey dice di Did You Know That There’s a Tunnel Under Ocean Blvd: «Come sarebbe rimanere chiusi lì dentro, con tutte quelle belle cose, senza che nessuno possa entrare, eccetto forse la tua famiglia?».
È un interrogativo che rivela come la sua sensibilità riguardo a come viene percepita e compresa si sia ammorbidita, pur restando sempre motivo di preoccupazione. «È una domanda che mi sono posta, perché è una cosa molto plausibile che potrebbe accadere con la musica, con il modo in cui le persone percepiscono la mia musica. Arriverà mai, realisticamente, il momento in cui tutto il mio lavoro farà di me un luogo chiuso al punto che solo la mia famiglia avrebbe accesso a quel tunnel metaforico?».
Il disco è una scatola di tesori dedicata alla famiglia e Del Rey lo definisce un «album di nomi». Cita il padre, la sorella, il fratello, la figlia di Caroline e i cari che la circondano per «tenerli vicine anche nella musica». Alcuni passaggi e versi sono presi direttamente dalle conversazioni con le amiche, come in Fishtail, dove parla dell’uomo con cui era uscita un’amica: il tizio le aveva promesso che sarebbe andato da lei per farle le trecce ai capelli, ma non l’ha mai fatto. «Se la mia musica vale qualcosa come dicono è perché nelle canzoni e nel processo di scrittura c’entrano altre persone. Tante altre persone», dice sorridendo.
Nella title track e nel primo singolo, Del Rey chiede: “Quando arriverà il mio turno?”. Si riferisce a quando verrà il suo turno di fare qualcosa per se stessa, ma la domanda circa quando e se diventerà madre (e se arriveranno anche il matrimonio e l’amore) torna più volte nell’album. A proposito del desiderio di maternità, cita il passaggio di La campana di vetro di Sylvia Plath in cui la protagonista descrive con la metafora di un albero carico di frutti le scelte di vita che una donna deve compiere: matrimonio, figli, carriera e così via. Plath scrive: “Li volevo tutti, ma sceglierne uno significava perdere tutti gli altri e, mentre stavo seduta lì, incapace di decidere, i fichi cominciarono a raggrinzirsi e a diventare neri e, uno dopo l’altro, caddero a terra ai miei piedi”. «È un albero di fichi», dice Del Rey. «Ce ne sono così tanti che, se non ne scelgo uno, appassiranno tutti quanti e non ne rimarrà nemmeno uno».
Nell’album ci sono interrogativi su quello che si sa e non si sa a proposito dell’amore. In una riflessione (Paris, Texas) che non sfigurerebbe in un remake di Amélie, Del Rey viaggia verso l’Alabama e non sente più il bisogno di pensare alla relazione che sta andando a rotoli che ha lasciato a casa: “Quando sai, sai / Più sai, più è tempo di andare”. Più avanti, nella deliziosa Margaret, una specie di commedia sentimentale, apprendiamo che quello della “persona giusta” non è un mito. La canzone è stata scritta per la fidanzata di Antonoff, Margaret Qualley, con l’idea di creare un brano da suonare, ipoteticamente, al loro matrimonio. “Quindi se non lo sai, non arrenderti / Perché non sai mai cosa potrebbe portare il nuovo giorno”, dice Del Rey a chi non è sicuro come Antonoff e Qualley. E per chi ancora è in ricerca della persona giusta, c’è sempre quell’amore devoto che aleggia nei 77 minuti del disco sotto forma di Dio, insegnamenti biblici e uno spiritualismo caldo e malinconico.
Sempre nell’ottica di coinvolgere le persone care che la circondano, l’ex fidanzato di Del Rey, il cameraman e direttore della fotografia Mike Hermosa, figura fra i produttori dell’album. Se non fosse stato per lui, il disco non esisterebbe. Hermosa, tutte le domeniche, suonava la chitarra e Del Rey ha iniziato a registrarlo di nascosto. Una volta ha cominciato a cantare mentre lui suonava e ne è uscita fuori Did You Know. «La musica è come un uccellino sulla mia spalla», dice lei. «Anche quando cerco un po’ di tregua, c’è sempre qualcuno che suona un motivetto e io penso: “Cazzo, ecco che ci risiamo”».
Da quel momento, ogni domenica libera hanno registrato una canzone col telefono di lei. Nell’album ce ne sono cinque. «Quando ci siamo lasciati, gli ho detto: prima o poi dovremo parlare del fatto che metà di questo album è tua». Fortunatamente, Hermosa ha ascoltato il disco e l’ha chiamata per dirle che gli era piaciuto molto. «È entusiasta. Deve esserlo: è sulla copertina dell’album che svapa. È fregato!».
Did You know That There’s a Tunnel Under Ocean Blvd sembra diverso dalle cose precedenti di Lana Del Rey, ma pare anche un collage di tutto quello che ha fatto fino a ora (si chiude persino con la versione originale inedita, sporca e pesante, di Venice Bitch) e indica il punto in cui la cantautrice si trova dopo nove album in studio. «Lana non ha confini», dice Antonoff. «Nel suo lavoro è arrivata a un tale punto, che poi è il mio preferito per lavorare, in cui non può avventurarsi in alcun posto che non sia la cazzo di natura artistica più selvaggia. Andare a caccia di ascolti radiofonici? Sarebbe una stupidaggine. Correre dietro alle mode? Che sciocchezza. Le tendenze le ha create lei. È una posizione liberatoria, se l’accetti. Non ti resta che essere una leader». E così lei, con quell’uccellino sulla spalla, ha creato quello che, a suo dire, è l’album più facile che abbia mai realizzato.
Sapete cosa sono i telomeri? Sono quelle strane porzioni di DNA a forma di mano che con l’età tendono a deteriorarsi. Gli studiosi pensano che, nel giro di un decennio, saremo in grado di preservarli. Durante la lavorazione di Did You Know, Del Rey ha continuato la sua ricerca sui telomeri e sul concetto di cancellazione della morte, chiedendosi se lei e la sua famiglia staranno bene e se saranno ancora qui fra dieci anni. Una cosa tanto bizzarra, ovviamente, attira una come Del Rey. «Perché non prefissarsi lo scopo dell’autoconservazione? Rimaniamo nei paraggi e vediamo cosa succede», dice con tono incoraggiante, notando la mia espressione preoccupata. «È una buona cosa. Mio padre ha sempre detto che sarebbe successo e che lo stava aspettando. È molto aggiornato sulle scoperte scientifiche degli ultimi dieci anni e non solo. Continuo a vedere che se ne parla: ci sono stati due articoli nelle ultime due settimane». Perché non vivere per sempre?
Ora Lana Del Rey è elettrizzata e, con la grazia d’un bulldozer, parte per la tangente. «Non importa cosa succederà d’ora in poi: ho già imparato tutto, posso dirlo, ho appreso tutto quel che serve, non ho bisogno di provare nient’altro. Sono felice d’aver superato tutti quei momenti turbolenti che a volte ho creato io stessa e altri che mi sono stati causati da altri. Sono fortunata che il mio cuore non sia sparso a pezzi per il mondo, con frammenti nelle mani di persone a cui non appartiene, e che sia ancora abbastanza lucida da non lasciare che la mia cocciutaggine combini casini tutto il tempo».
E, aggiunge con un ghigno che le illumina il viso, «posso ancora gustarmi il fatto di essere sulla copertina di Rolling Stone. Scherzi?! Me la godo. La prima volta che sono stata sulla copertina del Rolling Stone americano non riuscivo a crederci, ma la cosa più incredibile è che 11 anni dopo sono sulla copertina del Rolling Stone britannico. Non me lo sarei mai aspettato. Non riesco nemmeno a rendermene conto. È pazzesco». Più tardi, attraversa le porte del patio per entrare in cucina e dire: «Sono sulla copertina di Rolling Stone!». È una sorpresa che fa gioire i presenti.
L’intervista nel patio è sostanzialmente finita. Siamo passate alla fase in cui Lana Del Rey mi dà consigli sul suo argomento preferito: gli uomini. Ci chiniamo sul suo iPhone per vedere una foto che ha scattato a una vecchia copia di Canti dell’innocenza e dell’esperienza di William Blake che ha ritrovato rovistando tra le sue cose. Anni fa, ha annotato sulla copertina: “Che bel concetto: avere le idee chiare su ciò che non farai. Vorrei stare con qualcuno che non cede alle pressioni, capace di accendere la passione, qualcuno il cui sguardo mi ricordi perché amo la vita, una persona con una naturalezza che mi ricordi la mia e anche che bisogna godersi la bellezza”.
Ci sediamo in giardino e lei mi rivolge uno sguardo da sorella maggiore che impartisce una lezione. Poi mi dice, con delicatezza e in modo talmente distaccato da sembrare schiva: «Quante idee che c’erano, lì dentro».
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Crediti:
Foto: Chuck Grant
Styling: Joseph Kocharian
Hair: Sheridan Ward
Make-up: Etienne Ortega
Art Director: Alex Hambis
Art Editor: Laurène Pineau-Taylor
Fashion Assistant: Aaron Pandher
Producer: Brendan Garrett
Da Rolling Stone UK.