Quando gli parlo di nostalgia come sentimento prevalente nei loro brani, Gus Unger-Hamilton sembra quasi sorpreso. «È interessante come cosa, ma non la associo molto alla nostra musica, forse», risponde subito il tastierista e cantante degli Alt-J. Eppure tutta la conversazione che ho con lui è intrisa proprio di nostalgia. Parliamo di passato e futuro, ma lo facciamo con un tono che sembra sempre un po’ distaccato, anestetizzato, non per forza triste: solo nostalgico appunto, con una punta di malinconia British forse. Non ci sono grandi slanci emotivi neanche quando tocchiamo il tema dell’ultimo album della band formatasi a Leeds nel 2007, quando Gus, Joe Newman (chitarra/voce) e Thom Green (batteria) erano ancora studenti.
L’album si chiama The Dream e uscirà domani. È la quarta prova in studio per la band inglese, a circa dieci anni dal debutto. Un disco scritto e completato durante l’esplosione della pandemia di coronavirus, dopo una pausa lunga più di un anno. «Penso che il tempo dilatato cui siamo stati costretti abbia in realtà fatto bene al disco». Come si fa a scrivere un album senza rimanere influenzati da una cosa così totalizzante, è possibile? «Ci sono dei momenti in cui si sente chiaramente che ciò che stava succedendo si è affacciato anche nei brani. Ad esempio Get Better, che è stata scritta quasi in risposta diretta alla pandemia. Ma in generale penso che i nostri brani tendano ad esistere in un mondo d’immaginazione tutto loro».
Un mondo che è rimasto abbastanza coerente nel corso degli anni, a volte fin troppo. Il debutto del 2012, An Awesome Wave, rimane un momento topico per la musica degli anni ’10. Univa in modo armonico influenze di indie-folk, indietronica, elettronica, pop. Un classico moderno per un certo modo di intendere quel termine, indie, che in realtà nel giro di appena due o tre anni stava già implodendo su se stesso. Sopravvivere a quel cambio della guardia non è stato facile, le successive uscite non sono state accolte con lo stesso entusiasmo da pubblico e critica, ma loro non si sono poi granché scomposti. «Fin dai nostri primi giorni non ci siamo mai veramente preoccupati di essere parte di una scena, non eravamo amici con le altre band. Ancora oggi non ci facciamo caso, non consciamente almeno». I brani di The Dream riflettono effettivamente questo spirito. Sono pezzi pop, alcuni molto buoni, altri più deboli, alcuni arricchiti da intuizioni e suoni inaspettati. In generale è un album che si lascia ascoltare molto piacevolmente, sicuramente più solido rispetto alle ultime due uscite, Relaxer e il disco di remix Reduxer.
In una vecchia intervista, Joe affermava come gli Alt-J non avessero interesse a cercare lo stupore a tutti i costi, non avessero l’ansia di dover innovare a ogni tentativo. «Ci penso un sacco a questa cosa. Ricordo che lo dicevamo continuamente e mi interrogo se sia ancora vero, perché in realtà proviamo a innovare quando andiamo a registrare. Pensare a cose nuove. La cosa strana è che non lo pensiamo quando scriviamo, ma mentre registriamo in studio. In quel momento cerchiamo di fare cose inusuali, ma lo facciamo sulla base di canzoni che sono state scritte in modo molto naturale e onesto».
Innovare in base a se stessi, cercare di non ripetersi eccessivamente, sicuramente non rispetto allo scenario internazionale che va evidentemente in altre direzioni. Anche da qui la nostalgia: la chiave del successo degli Alt-J fu che facevano una musica fortemente retromaniaca ma che riusciva ad evocare l’ologramma lo-fi di un futuro inesistente, intrinsecamente retromaniaco anch’esso. Finito il momentum di un certo tipo di immaginario sonoro, oggi rimane una coda nostalgica ancor più forte. Oggi, rimanendo bene o male immutata, quella vena creativa si è trasformata nella capacità di scrivere dei buoni pezzi pop senza limiti di tempo e genere. Me lo dice lo stesso Gus: loro che si sono spesso appoggiati a scenari e immagini cinematografiche in questo caso hanno «sentito di avere la sicurezza necessaria per scrivere brani che non avessero bisogno di appoggiarsi a riferimenti culturali per sentirsi validati. Lo sono per conto loro».
Musicalmente si sente tanto blues, accenni di progressive psichedelico inglese. «Joe è estremamente influenzato da band come i Led Zeppelin, quel momento storico musicale in cui blues e progressive iniziavano anche un po’ a fondersi. E sicuramente in questo disco abbiamo consciamente ricercato un suono vintage. Abbiamo usato amplificatori e strumentazione degli anni ’60 per registrare tutto».
L’album è abbastanza lungo, e se Gus non manifesta inquietudine all’idea di scene e trend che cambiano, riflette invece sull’opportunità di registrare ancora dischi interi. «Il modo in cui è cambiata la fruizione della musica, di come ci si approcciano gli ascoltatori è sicuramente la riflessione che abbiamo fatto di più in questi anni. Il fatto che ormai gli album per intero non si ascoltino più e ci si è spostati in un mondo fatto di playlist, i social e tutto questo tipo di cose. Da una parte mi intristisce, dall’altra fin quando abbiamo la possibilità di scrivere album allora è la cosa più importante. Non sta a me decidere come le persone debbano impiegare il proprio tempo. Anche se è un peccato pensare che non si dedichi più quel tipo di attenzione a un disco, magari anche risentendolo più volte, liberi da distrazioni. Ma è la vita». Questo pragmatismo si riflette nel modo in cui lui stesso vive l’ascolto, oggi. «È ancora molto importante per me, lo sto facendo di meno ma in modo più profondo. La musica non è più una colonna sonora di qualunque cosa stia facendo, il che era quasi troppo. Ricavo dei momenti specifici per l’ascolto concentrato. Faccio meno ricerca sulle novità questo sicuramente».
Una novità che non gli è sfuggita sono i Wolf Alice, la band inglese capitanata dalla carismatica Ellie Rowsell. «C’è un brano nel disco nuovo che si chiama Losing My Mind. Volevo che suonasse come un pezzo dei Wolf Alice. Condividiamo lo stesso manager e li conosciamo da tanti anni, ci hanno anche aperto i concerti in tour ed Ellie ha anche cantato nell’album precedente. Volevamo questo gusto un po’ post punk che loro hanno. È stato bello sentirsi influenzati da una band che in un certo senso è cresciuta dietro di noi, che è emersa anche grazie a noi».
Quando lo stimolo in generale sull’ondata di nuovo post punk britannico («I Fontaines D.C. mi piacciono, gli Idles invece no, non sono mai riuscito a farmeli piacere») se magari loro o altri li stimolano musicalmente, torniamo a fare spallucce, a rifugiarci in questo ecosistema protetto e quasi ermetico formato dai tre. «Ad oggi la nostra più grande ispirazione penso sia rimasta la chimica che c’è fra di noi. Quella magia che si crea quando siamo in una stanza con degli strumenti e che siamo stati fortunati a trovare quando eravamo ancora studenti, abbiamo ancore le stesse sensazioni in pratica. Speriamo che non cambi mai».