Gennaio 2016. C’è una panchina in cima a Primrose Hill che si affaccia sullo skyline di Londra. Se vi è capitato di passarci in una serata invernale, potreste averlo visto seduto lì. Un tipo smilzo – berretto di lana, cappotto e pantaloni da jogging, le mani sprofondate nelle tasche. Harry Styles aveva parecchie cose che gli frullavano in testa. Per cinque anni è stato l’idolo più amato degli One Direction, ma ora gli si para davanti un futuro incerto. La band si è presa una pausa a tempo indeterminato. Il rumore bianco dell’adulazione è stato rimpiazzato dal rumore sommesso della città. La fama di Harry Styles con gli One D rasentava la follia. Una volta sì è accostato sulla Highway 101 per vomitare, e i fan hanno trasformato quel posto in un luogo di culto! Si dice che il vomito sia stato persino venduto su eBay, tipo i pezzi del Muro di Berlino. Paul McCartney lo ha intervistato. Poi c’è stata la fanfiction non autorizzata, con una versione più sexy e punk di “Harry Styles”. Miliardi di lettori seguono le sue avventure virtuali. Eppure all’apice del successo, Styles ha fatto un passo indietro. Tutto ha avuto inizio su quella panchina. Ma com’è la versione di Harry Styles solista? «Sincera», dice, a un anno di distanza, mentre attraversa Los Angeles su una Land Rover nera. Ha vissuto qui a intermittenza negli ultimi anni, tornando sempre a Londra. Lo stereo della macchina pompa un mix di country e rock classico semisconosciuto. «Non volevo scrivere delle storie», dice. «Volevo scrivere le mie storie, cose che erano successe a me. E prima di tutto volevo essere sincero. Non lo ero mai stato, fino ad allora». Brucia tutti i semafori, mentre parla sovraeccitato della band che ha riunito intorno a sé sotto l’egida del produttore Jeff Bhasker (Rolling Stones, Kanye West, Uptown Funk). Ha un sacco di aneddoti sui due mesi passati a registrare a Geejam, uno studio-compound vicino a Port Antonio, nella Giamaica più remota.
Arriviamo in un diner affollato e Styles ha in mano un taccuino nero pieno di appunti dal suo nuovo album: ha l’aria di uno studente che cerca un posto tranquillo dove studiare. È qui per fare una cosa che si è risparmiato per buona parte della sua carriera giovanile: una lunga intervista faccia a faccia. Oggi non ha scampo, ma è attentissimo alle sue parole e scruta in silenzio la tovaglia prima di rispondere.
In uno studio di Londra, verso la fine del 2014, Styles ha accarezzato l’idea di una pausa dagli One Direction. «Non volevo logorare i nostri fan», spiega. «Qualcuno poco lungimirante potrebbe dire: “Continuiamo ad andare in tour, e chissene importa”. Ma tenevamo troppo alla band per fregarcene».
Dopo una lunga discussione, hanno deciso all’unanimità di prendersi una pausa, che è stata annunciata nell’agosto del 2015 (Zayn Malik aveva lasciato gli One Direction all’improvviso alcuni mesi prima). Per i fan è stato un trauma, ma sono stati coccolati con una serie di finaloni a sorpresa, tra cui un tour durato tutto il mese di ottobre. Styles resta un sostenitore degli One D: «Non escludo niente per il futuro. La band mi ha cambiato la vita, mi ha dato tutto».
Però sentiva il richiamo della carriera da solista. «Ogni decisione della mia vita da quando ho 16 anni è stata presa in democrazia. Ho sentito che era arrivato il momento di fare una scelta per il futuro. Forse non dovevo più contare sugli altri». Per essere uno dei ventitreenni più famosi al mondo, Styles è ancora piuttosto sconosciuto. Dietro l’esuberanza da palco, c’è più folklore che realtà. Gli piace che sia così. «Prendi un artista come Prince», dice, «in ogni momento tutti quanti volevano sapere qualcosa in più su di lui. Ma è il mistero che rende magiche le persone. Insomma, che cazzo, non lo voglio sapere che cosa mangia a colazione Prince». Styles fa una pausa assaporando l’idea dell’ignoto. Osserva il mio registratorino portatile come fosse un ospite indesiderato. «Non si tratta solo di mantenere vivo il mistero. A me piace separare la mia vita personale dal lavoro. Non mi serve per allungare la carriera, come se volessi fare il personaggio misterioso, perché non lo sono. Quando torno a casa, mi sento la stessa persona di quando andavo a scuola. Non riesci a preservare questa cosa, se ti esponi completamente».
Quando torno a casa, mi sento la stessa persona di quando andavo a scuola
Ci spostiamo verso lo studio di Jeff Bhasker, a Beachwood Canyon. Styles fa di corsa gli scalini verso lo studio. Dentro c’è la band ad aspettare. Styles apre il taccuino e si dirige al piano. Vuole finire un pezzo che aveva già cominciato. Naturalmente la band ha delle dinamiche consolidate da confraternita, tipo i Beatles in Help!, ma in una versione diretta da Judd Apatow. Per tutti Styles è “H”. Intorno alla stanza tremolano candele al profumo di melograno. Entra Bhasker, con i capelli lunghi da guru, una camicia coloratissima, i calzini rossi e i sandali. All’inizio – insieme alla compagna Lykke Li – era alle prese con il figlio appena nato e aveva affidato Styles ai suoi due produttori di fiducia: Alex Salibian e Tyler Johnson, assieme a Ryan Nasci (ingegnere del suono e bassista). Il pezzo finale del puzzle sarebbe stato Mitch Rowland, chitarrista di Styles, che lavorava in pizzeria fino a due settimane prima dell’inizio delle prove. «Essere circondato da musicisti ha avuto un impatto enorme su di me», dice Styles. «Non potevi passare uno strumento senza prima metterti a suonarlo».
Styles inizia a cantare dei versi appena scritti, si tratta di un nuovo pezzo chiamato I Don’t Want to Be the One You’re Waiting On. Ha la voce calda, pulita e confidenziale, non dissimile da un primo Rod Stewart. Il pezzo si chiude in fretta e la band è pronta ad ascoltare una registrazione dell’album.
«Va bene se alzo il volume?», chiede Bhasker. È una domanda retorica. Nasci spara Sign of The Times – il primo singolo – a livelli sismici. La canzone è scritta dal punto di vista di una madre che ha avuto un parto complicato. Le viene detto: “Il bambino sta bene, ma tu non ce la farai”. La madre ha cinque minuti per dire al figlio: “Vai, e sii forte”. Il pezzo è stato un punto di svolta sia per l’artista che per la band. «Harry ha preso in mano la situazione con quel brano, e ha continuato con il resto del disco», dice Bhasker. «Mi sarebbe piaciuto che l’album si chiamasse Sign of the Times», dichiara Styles. «Non so», dice Bhasker, «già sentito». Discutono per un po’. Nasci mette su qualcos’altro. I pezzi variano dal rock (Kiwi) a un intricato pop psichedelico (Meet Me in the Hallway), fino a pezzi iper-confidenziali (Ever Since New York, una riflessione disperata sul senso di perdita e di nostalgia). I testi sono pieni di dettagli e riferimenti: segreti bisbigliati fra amici, fallimentari dichiarazioni d’amore, piscine vuote; tutto materiale per aizzare i fan a scovare il mistero che si annida dietro ai fatti.
«Certo che sono nervoso», ammette Styles, giocherellando con le chiavi. «È una cosa che non ho mai fatto, né ho idea di che diavolo sto facendo. Sono felice di aver trovato questa band e questi musicisti che mi permettono di essere vulnerabile. Ho ancora tanto da imparare… ma è la mia lezione preferita».
L’album si smarca dal pop danzereccio che viaggia in radio. «Un sacco delle mie influenze e delle cose che mi piacciono sono vecchie», commenta, «non volevo si dicesse: “Sta cercando di ricreare gli anni ’60, ’70, ’80 o ’90″. È stata scritta della musica fantastica in passato, ma non significa che rivivrei quei tempi. Volevo trovare un suono mio. E ho continuato a insistere».
«È diverso da quello che ti aspetteresti», dice Bhasker. «Mi sono reso conto che, ai tempi degli One Direction, Harry era una specie di Harry digitalizzato. Quasi un personaggio. Non credo siano in molti a conoscere tutte le sfaccettature che ci sono in questo disco. “Questo è Harry Styles?”, si chiede la gente quando lo faccio sentire».
Harry sa bene che il suo pubblico è formato in gran parte da ragazzine giovanissime, spesso adolescenti. Quando gli viene chiesto se ha trascorso notti ansiogene con la preoccupazione di doversi mostrare credibile a un pubblico più adulto, Styles si scalda: «Come si fa a dire che una ragazzina a cui piace la musica pop – è il diminutivo di popolare, giusto? – ha meno gusto di un hipster trentenne? La musica è in costante cambiamento. Non ci sono paletti. Le ragazzine amavano i Beatles. Volete dirmi che non è roba seria? Che le ragazzine non ne capiscono? Sono il nostro futuro. I nostri futuri dottori, avvocati, madri, presidenti, sono loro che faranno andare avanti il mondo. Le fan adolescenti non mentono. Se ti amano, per te ci sono sempre. Non se la tirano. Gli piaci, e te lo dicono. Una cosa pazzesca».
Styles si dirige verso un ristorante tranquillo a Laurel Canyon, un tempo frequentatissimo dai suoi cantautori di culto degli anni ’70. Non è un gran bevitore, magari un po’ di tequila con ghiaccio o un bicchiere di vino con gli amici dopo un concerto, ma durante l’ultimo tour non c’era tempo nemmeno per quello. Una volta John Lennon ha raccontato a Rolling Stone che il dietro le quinte dei concerti dei Beatles sembrava il Satyricon di Fellini. Styles dice che i tour degli One D ricordavano più «un film di Wes Anderson. Ciak! Stop! Cambio location. Ciak! Cambio location. Concerto. Ciak! Stop! A nanna».
Mentre cerca un tavolo, Styles parla della sua presenza – o assenza – sui social. Lui e il suo cellulare hanno un rapporto altalenante e maturo: passano un sacco di tempo separati. Non si googla e controlla Twitter di rado. Qualche anno fa, quando è stato rivelato dove si trovasse la sua casa di Londra, si è incazzato tantissimo. Il suo amico James Corden gli ha regalato una citazione del Primo ministro britannico Benjamin Disraeli: “Non lamentarti mai, non spiegarti mai”.
Tiro fuori qualcuna delle sparate al vetriolo di Zayn Malik riferite alla stampa in recenti interviste. Eccone una. “(Gli One Direction) sono roba che non ascolterei mai. Se fossi a una cena romantica con una ragazza, metterei qualcosa di fico, avete presente? Io voglio fare musica fica. Non mi pare di chiedere molto”. Styles si mette comodo sulla sedia. «Penso sia un peccato che se la viva così», dice, iper-diplomatico, «ma gli auguro di fare sempre quello che gli piace». Ha in testa gli occhiali da sole diventati celebri grazie a Kurt Cobain, ma le analogie tra i due finiscono qui. Styles, nato due mesi prima che Cobain lasciasse il mondo, non si sente legato a nessun genere o periodo particolare. In macchina può mettere a palla tanto il country di Keith Whitley come il blues-and-soul esoterico di Shuggie Otis. Ha persino regalato una torta alla carota a Stevie Nicks in occasione di un concerto dei Fleetwood Mac. («Ho pure fatto scrivere sopra il suo nome. Le è piaciuto tantissimo»). Una cosa è chiara: Styles non ha intenzione di recitare il ruolo dell’artista tormentato. «La gente tende a fantasticare sui posti in cui non può andare» dice. «È per questo che quando qualcuno va fuori di testa sembra una cosa affascinante, tipo Van Gogh che si taglia un orecchio. Senti il bisogno di questo lato oscuro, di provare il dolore degli altri, ma allo stesso tempo vuoi rifugiarti nella tua vita sicura. Io non posso dire di essere così. Sono stato molto fortunato. Ho avuto una famiglia fantastica e un sacco di amore. Non c’è niente di peggio di un uomo tormentato inautentico: “mi hanno tolto la paghetta e mi sono dato all’eroina”. Non funziona così».
Sai a chi somigli? River Phoenix. Se non fosse morto, avrei detto che eri tu
Styles si aggira nel Country Store lì vicino. È un posto che conosce bene. Spulciando tra gli scaffali, mi chiede se ho mai assaggiato il pudding di riso inglese. Trova una lattina dall’aria vintage. Prende un tubo di caramelle Rowntree (“dal 1881”) e un barattolo di sottaceti Branston. «Ci sono solo due negozi a Los Angeles che hanno snack inglesi». Porta il bottino alla cassa. Nel modo più deferente e discreto possibile, il giovane cassiere fa la sua domanda: «Ma forse… non è che… per caso sei… Harry Styles?». «Sì». «Posso farmi un selfie?».
Styles lo accontenta e si sporge sulla cassa. Clic. Usciamo nella nostra serata a Laurel Canyon. «Ehi», grida un tizio brizzolato da una panchina fuori dal negozio. «Sai a chi somigli?».
Styles si volta, aspettandosi la solita scena, ma questo particolare animale notturno è in un trip differente. «River Phoenix», dice il tipo, un po’ triste. «Ne hai mai sentito parlare? Se non fosse morto, avrei detto che eri tu. Un ragazzo pieno di talento». «Sì, assolutamente», conferma Styles, che per diversi aspetti è l’opposto generazionale di Phoenix. Rimangono in silenzio per un attimo, prima che Styles ritorni alla macchina. Mi passa la busta piena di snack inglesi. «È per te», dice. «C’è dentro la mia gioventù…».