A distanza di più di vent’anni dall’ultimo album in studio e a quaranta dall’esordio psichedelico Burning Blue Soul, i The The del londinese Matt Johnson sono tornati con il live The Comeback Special che documenta l’atteso ritorno sul palco del 2018. Realizzato anche come film-concerto, contiene la registrazione dello show tenuto alla Royal Albert Hall il 5 giugno 2018, filmato dal regista e collaboratore di lunga data Tim Pope. L’evento nel celebre palazzo vittoriano di South Kensington è stato una delle tre tappe sold out nella capitale inglese del tour che ha visto i The The calcare di nuovo le scene dopo 16 anni.
«Non è che avessi grandi aspettative, sono sincero» ci racconta Matt Johnson, classe 1961, dall’altro capo dello smartphone. «Mancavo da troppo tempo e le cose nel mondo e nell’industria discografica nel frattempo sono cambiate. Il calore del pubblico e tutti quei biglietti venduti, non solo in Inghilterra, mi hanno fatto un gran piacere».
In parte è un déjà vu. Tim Pope, curatore dei video dei The The dall’album Infected, aveva già realizzato nel 1991 una VHS di culto intitolata The The versus The World che riprendeva la band nel corso di tre serate del luglio 1989 proprio nella prestigiosa Royal Albert Hall. Era il tempo del successo di dischi come Infected e Mind Bomb e della line-up dei The The più celebrata, composta oltre che da Johnson da Johnny Marr (fondatore degli Smiths), David Palmer (ex ABC), James Eller e D. C. Collard.
Fu proprio in quel periodo che un lutto devastante si abbatté sul frontman. «Quando è morto Eugene, mio fratello più giovane, ci trovavamo nel bel mezzo di quel tour fra il 1989 e il 1990. Abbiamo dovuto fermare tutto per tre mesi. Ero sconvolto. Aveva solo 24 anni. Fu davvero un fulmine a ciel sereno». Destino feroce, se si considera che i The The erano al loro debutto dal vivo, con un tour mondiale di 100 date sold out.
Fin dal 1979, l’artista forse più complicato, irregolare ed eccentrico del panorama inglese (qualcuno lo soprannominò l’Howard Hughes del rock) ha pubblicato, fra continue pause di riflessioni e lavori inediti, dischi geniali e sardonici, a cavallo fra art blues, elettronica, dance, wave e funk-soul.
In bilico fra melodie e sperimentazioni, Johnson ha plasmato una musica cubista, urbana, claustrofobica ma al tempo stesso romantica e profondamente umana. Combinando una messe di strumenti, dall’armonica alle marimbe elettroniche, con un timbro baritonale inconfondibile, ricco di venature sensuali, distorto da microfoni ed effetti, teatrale e grottesco, era passato dalla 4AD di Ivo-Watts alla Some Bizzare di Stevo Pearce (che battezzò anche Depeche Mode e Soft Cell) distribuita dalla Epic che poi acquistò il suo intero catalogo. Sconfitti i demoni del dubbio, dell’auto-sabotaggio e della procrastinazione, Johnson si era deciso a presentare il suo progetto davanti a un pubblico dal vivo, prima della morte del fratello.
In un’intervista di qualche anno fa concessa al Guardian, rispondendo alla domanda che in molti si facevano nell’ambiente, “dov’è finito Matt Johnson?”, il musicista spiegò che furono quegli eventi, assieme a una dolorosa separazione amorosa e a una malattia cronica, a spingerlo in un suo personale limbo, lontano dall’industria discografica.
Prima di fare quella scelta e trasferirsi a New York per coltivare progetti collaterali di matrice anarcoide e anticapitalista (Fifty First State Press, Radio Cinéola) e colonne sonore (la maggior parte delle quali per i lavori del fratello Gerard), ha prodotto Dusk, il disco più maturo, poi una raccolta di cover di Hank Williams e l’intrigante semi-industrial NakedSelf, pubblicato dalla Nothing Records, vanity label di Trent Reznor. L’ultima volta dal vivo, a eccezione di una comparsata al Meltdown Festival 2002 curato da David Bowie, fu per promuovere quel disco.
The Comeback Special sembra voler esorcizzare quell’epoca d’oro, brillante ma al tempo stesso funesta, e il lento e criptico ritiro dalle scene. Il titolo richiama il famoso spettacolo televisivo di Elvis Presley nel 1968. «Ho sempre amato quegli show di Elvis, l’atteggiamento sornione di chi alza le aspettative, giocandoci su, per alleggerire la tensione. Era anche un modo per mettere pressione a se stesso, ai suoi musicisti e al pubblico in modo scherzoso e ironico».
Della formazione storica sono presenti DC Collard alle tastiere e James Eller al basso, oltre al batterista Earl Harvin e al chitarrista Barrie Cadogan aka Little Barrie. Il sound del live, rispetto a quello del tour ’89/90, è più definito, potente e diretto, slegato dagli influssi anni ’80, ma anche meno originale. A stupire davvero, invece, oltre a una viscerale introspezione poetica, è l’indiscutibile attualità dei temi pubblici, nel bene e nel male, elaborati dai The The nel corso degli anni.
A chi, fra i loro conoscitori, non è venuta in mente Infected durante quest’era pandemica, anche se la title track parlava dell’Aids? E a proposito del dramma ambientale che stiamo vivendo, quale inno migliore di Lonely Planet? Sull’assurdità delle guerre di religione, Armageddon Days (Are Here Again) era una presa di posizione inequivocabile valida tuttora.
«Penso che i miei pezzi più politici come The Beat(en) Generation, Global Eyes, Heartland, Armageddon Days (Are Here Again) o Sweet Bird of Truth siano ancora attuali. Ma anche un brano più emotivo come This Is The Day, che scrissi quando avevo solo 21 anni, mi sembra composto ieri. Ero un giovane vecchio, si vede, perché quando la canto ora la sento molto più “mia”. Parla di famiglia e ricordi».
Il ritorno di Matt Johnson è scaturito ancora una volta dal romanzo familiare. Nel 2006 è morto un altro suo fratello, Andy Dog Johnson, autore di molte copertine dei The The con i suoi disegni immaginifici e bizzarri. «La sua fine prematura è stata la scintilla per ritornare sul palco».
I quattro fratelli (Matt, Eugene, Andy e Gerard) erano cresciuti nel frastuono alcolico e violento del leggendario pub Two Puddings, del padre Eddie in coppia con la moglie Shirley, noto per le risse (il posto era noto anche come Butcher’s Shop per via degli schizzi di sangue che avevano imbrattato qua e là le piastrelle color crema), poliziotti vendicativi e loschi figuri ma anche per esser frequentato dai campioni d’Inghilterra del ’66, scrittori, musicisti e celebrità televisive.
Eddie Johnson, il fratello Kenny, poi promoter affermato, e Shirley hanno ospitato anche uno dei primi club per concerti, il Devil’s Kitchen, dove sono passati fugacemente i protagonisti del blues revival e quelli della futura British invasion (Howlin’ Wolf, Muddy Waters, John Lee Hooker, Who, Kinks, Small Faces, Animals).
Morto a 86 anni mentre i The The suonavano in Danimarca, Eddie era un mezzo hooligan e in gioventù aveva preso anche una coltellata. Forse quel pizzico di temerarietà ed eccentricità che si riflette nella sua opera e nella sua persona Matt l’ha preso dal padre e da quell’ambiente stravagante.
Johnny Marr, nella sua autobiografia Set the Boy Free ha scritto: «Spiritualmente e mentalmente, Matt è una delle persone più coraggiose che abbia conosciuto». Di sicuro, con la sua musica multiforme e incandescente, è stato uno degli artisti inglesi più interessanti degli anni ’80-90. Lo testimonia anche il prestigio dei collaboratori che hanno contribuito al suo lavoro, da Marc Almond a Sinéad O’Connor, da David Johansen a Neneh Cherry.
La domanda è: a quando un nuovo disco? «Il prossimo album poteva già essere nei negozi ma fra Covid, Brexit e le difficoltà a viaggiare a causa della pandemia è stato impossibile ultimarlo. Comunque è in dirittura di arrivo, anche se non nei tempi che avevo previsto». Magnifica notizia per i fan che da vent’anni sperano in una continuazione della saga e che, nel pieno della pandemia hanno temuto per la sorte di Matt Johnson a causa di una brutta infezione alla gola.