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La Rappresentante di Lista, disobbedienti

Il quinto album ‘Giorni felici’, il mestiere del musicista mainstream, il concetto di originalità, ma pure la moda ecclesiastica e il fascino discreto dei macellai viareggini. Abbiamo incontrato Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina: «Siamo così disobbedienti che cerchiamo di disobbedire anche a noi stessi»

Foto: Gabriele Giussani

Sulla nuova copertina di Rolling Stone, La Rappresentante di Lista appare nella livrea di cui sa ammantarsi chi, pur celando in sé tutti i colori dello spettro visivo, sa scegliere quando è il momento di essere policromo e quando è quello di sfoggiare il total black.

Il quinto album, Giorni felici presenta il tema della perdita dell’amore in una prodigiosa sfilza di variazioni e relative possibilità metaforiche. Tra cui: la reale perdita di un amore; la straordinaria capacità dei francesismi di esprimere la sensazione di stare uno schifo; il lieve ma pungente auto-cringe che si prova nel sentire una canzone, cui si aveva affidato l’interezza della propria anima, essere stonata presso un generico karaoke; e molte altre ancora.

In Giorni felici la proverbiale ironia della Rappresentante, un tempo equamente suddivisa tra testi e musica, si fa più delicata e sottocutanea; e, più che a liriche sferzanti, sembra ora affidata da una parte ai titoli dei pezzi e dell’album e dall’altra a ritmo e melodia, a sottolineare il consueto sguardo sfacciato e disincantato dietro parole più cupe e malinconiche. Come a mettere in mostra un buco nero titolandolo: “Tranquilli, ceci n’est pas il lato oscuro della Rappresentante”. Ma quel lato c’è ed è stato interessante scoprilo, accanto all’altro, splendente, che già conoscevamo.

Nell’intervista che segue, realizzata all’indomani dalla prima presentazione live, a Trento, di Giorni felici, abbiamo parlato con la Rappresentante di Lista di molte cose – tra cui la moda ecclesiastica e il fascino discreto dei macellai viareggini – ma, soprattutto, di Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina.

Com’è stata l’esperienza di consegnare la vostra nuova musica direttamente dal produttore al consumatore? O consumatore è una brutta parola e ne preferite un’altra?
Dario: Sto provando a cercare un sinonimo di consumatore. Ascoltatore mi sembra un po’ passivo. Invece consumatore può essere valido, se implica una reciprocità che, effettivamente, ieri è avvenuta. Noi e il pubblico ci siamo consumati a vicenda, come quando si consumano le scarpe durante un viaggio.
Veronica: Direi che questo tipo di consumo è nettamente preferibile a quello del capitalismo.
Dario: A Trento è stato bellissimo. Ci eravamo già stati per il Poplar Festival ed è stato un piacere tornarci. Questa puntata zero ci ha tenuto sulle spine per un po’ di questioni tecniche, ma ci ha regalato anche dei momenti emotivamente molto forti. Ci ha colpito soprattutto il fatto che pezzi del nostro repertorio, come Siamo ospiti, Resistere o Ciao ciao, abbiano risuonato perfettamente del nuovo mood che abbiamo cercato con Giorni felici.

La vostra definizione di queer pop configura una fluidità che non solo esula dai generi musicali e dal linguaggio preconfezionato, ma postula anche un’eccezionale varietà dei contesti in cui proporsi. Del mondo dello spettacolo italiano avete vissuto in prima persona praticamente tutto l’arco parlamentare. Quanto è importante per voi l’originalità?
Veronica: Non ho mai pensato che si possa davvero inventare qualcosa da zero. Mi è sempre sembrato che, soprattutto in musica, ci siano continue trasformazioni di una cosa dentro l’altra. Ma quando siamo davanti a una di queste trasformazioni, che tocchino concetti, motivi o situazioni, il nostro corpo e la nostra mente filtrano la realtà in modo così efficace che anche ciò che ci viene riproposto in modo identico al passato ci può apparire come nuovo. I temi a cui siamo più legati sono ancora gli stessi…
Dario: Sono i nostri nodi da sciogliere…
Veronica: La famiglia, le relazioni, l’amore, il mondo inteso come società e politica, il corpo.
Dario: Il genere, i cliché.
Veronica: Li riproponiamo sempre, eppure mi sento di poter dire: ogni volta in modo diverso.
Dario: C’è una specificità della nostra scrittura a cui tengo molto. Ogni volta che portiamo a casa un brano o un disco mi rendo conto che quello che abbiamo scritto è sempre (e solo) una “tensione verso”: le parole di Resistere o di Amare, l’irriverenza di Ciao Ciao erano e sono tutt’ora qualcosa verso la quale, come individui, tendiamo e mai qualcosa a cui siamo già arrivati.

Foto: Gabriele Giussani; Styling: Lorenzo Oddo; Total Look: Gucci; Hair & Make Up: Valentina Raimondi

Questo vale anche e soprattutto per i live.
Dario: Ad esempio ieri, durante il concerto, abbiamo fatto Resistere in acustico e il pubblico l’ha cantata insieme a noi. Al momento di “No armi, no guerra, no violenza” il coro ci ha travolto e abbiamo cominciato a improvvisare, facendo durare la canzone molto più del previsto e dotandola di un nuovo significato.
Veronica: Siamo così disobbedienti che cerchiamo di disobbedire anche a noi stessi.

C’è mai stato un contesto in cui la vostra originalità è parsa fuori luogo?
Veronica: Non penso che ci siano modi di vivere la musica – e il palcoscenico – giusti e meno giusti. Certo, ci sono stati dei contenitori in cui mi sono sentita un pesce fuor d’acqua. Ma in quei casi non era tanto questione di sentirmi diversa, quanto di scoprire che gli altri erano tutti uguali.
Dario: Per caso nella domanda ti riferivi a Sanremo?

Tutt’altro! Credo che a Sanremo siate stati perfettamente nella parte.
Dario: In effetti a volte mi sono sentito più fuori posto in occasione di manifestazioni musicali ben più piccole, dove il nostro modo di teatralizzare la musica era meno assimilabile rispetto a quanto può fare, paradossalmente, una grande kermesse.

Una delle costanti di Giorni felici sono testi cavernosi e irresistibili ritmi uptempo.
Dario: In questo disco più che mai i testi sono inscindibili dalla melodia e dal modo in cui le parole sono enunciate, quasi come avviene nell’opera lirica. Questo è frutto di una precisa volontà di ricerca sonora, fatta anche grazie al lavoro di tutta la band. Quando, quest’estate, abbiamo fatto l’esperimento di recitarne solo i testi, a un festival di teatro contemporaneo, il disco mostrava, in effetti, tutto un altro tipo di energia.

Veronica Lucchesi. Foto: Gabriele Giussani; Styling: Lorenzo Oddo; Total Look: Gucci; Hair & Make Up: Valentina Raimondi

Perché questa scelta? Volevate sperimentare nuove forme espressive oppure inaugurare un nuovo atteggiamento nei confronti della vita?
Dario: Questo disco rappresenta una nostra disposizione d’animo rispetto ai tempi che, come umanità, stiamo vivendo. Mi viene in mente un modo di dire in palermitano: “Se n’è iu u babbìu”. Non è più il tempo di scherzare, di camuffare le cose, di fare giri di parole, di addolcire la pillola. È il momento di avere il coraggio di veicolare anche lo spaventoso, come vogliamo dire col palloncino che compare nella copertina del disco.
Veronica: Ciao ciao l’avevamo fatta. Inseguire ancora una modalità che potresti aver già realizzato nel migliore dei modi può risultare controproducente. È più interessante andare altrove. Ci sono delle fasi della vita di un musicista in cui tende a esprimersi in modo poetico, magari perché innamorato; e altre in cui è semplicemente incazzato, e si deve vedere. Se stai male è bene raccontare che stai male, perché qualcun altro potrebbe vivere la stessa cosa e solo così ci si può ritrovare.

La postura beffarda messa a punto in un pezzo come Ciao ciao vi rendeva più accessibili al pubblico o vi poneva alla giusta distanza?
Veronica: Può sembrare paradossale ma, secondo me, fare musica mettendo in campo le proprie gioie e paure più intime, e affrontare questo mestiere in maniera sincera, facendosi attraversare da ciò che ci succede, può salvaguardarti da un mondo come quello dell’industria musicale, che può risucchiarti completamente, facendoti smarrire, togliendoti il tempo per fare una vita normale, al di là della musica.

Foto: Gabriele Giussani; Styling: Lorenzo Oddo; Total Look: Gucci; Hair & Make Up: Valentina Raimondi

Sulla scena musicale chi ha molto successo spesso usa l’alibi della quantità per giustificare la mancanza di qualità, e chi non ne ha abbastanza tende a fare l’esatto contrario. Se si inseguono solo i numeri è chiaro a cosa si sta rinunciando. Voi a cosa avete rinunciato per mantenere l’equilibrio che sembrate aver trovato?
Dario: Intanto sono contento che, sulla lunga distanza, possa apparire equilibrato un percorso che in realtà è un groviglio gigantesco di domande, indecisioni, errori, insoddisfazioni, ripensamenti, rabbie. Credo che, a un certo punto di questo percorso, ci siamo resi conto di non avere reali alternative rispetto a quello che facciamo. O siamo soddisfatti della Rappresentante di Lista oppure smettiamo. Quante volte ho pensato di tirare fuori dal cassetto la laurea in medicina (cosa che non mi dispiacerebbe, magari a sessant’anni).
Veronica: Invece di andare in pensione.
Dario: Parlavamo di equilibrio. Per fortuna noi siamo in due. Questa dualità – userò un brutto termine – ci permette di controllarci a vicenda. Con Veronica abbiamo un accordo: continuiamo a fare questa cosa solo se continua ad avere senso come proposta artistica.
Veronica: Ma anche umana!
Dario: Tempo fa era in voga il concetto di “buona pratica”. Ecco, per me la Rappresentante di Lista è una buona pratica. Dietro c’è lavoro, c’è stress, ma è una famiglia in cui stiamo bene e siamo felici. Non per questo, sia chiaro, dobbiamo fare sempre festa. Cantare un pezzo come Giorni felici o Ho smesso di uscire è come quando vai a vedere certe pièce a teatro: nel migliore dei casi te ne torni a casa con un buco dietro lo sterno. Per noi stare sulla scena è totalizzante: ieri, dopo il concerto, ero distrutto. Non stiamo lì a berci le birrette. Anche se spesso le beviamo comunque.
Veronica: Alla ricerca di quello che hai chiamato equilibrio mi sento guidata da due paure. Da una parte quella rappresentata dalle illusioni che il mondo della musica può regalare. Dall’altra quella che il tanto tempo passato a lavorare possa allontanarmi dalla persona che racconto nelle canzoni, privandomi delle esperienze che mi ci hanno condotto.
Dario: Va detto, a questo punto, che il mestiere del musicista mainstream è un lavoro di merda. Lo sfruttamento degli artisti nei tour è una roba incredibile. Anche se lo definirei auto-sfruttamento. In definitiva, la cosa a cui si rinuncia quando si cerca un equilibrio, nel mondo dell’industria musicale, sono i soldi. Sembra banale ma invece è tutto lì.

La Rappresentante ha già fatto rinunce di questo tipo?
Veronica: Sì, per esempio a proposte di fare certi programmi televisivi o altre forme di marchetta. Sono rinunce che si possono fare e si fanno.

Dario Mangiaracina. Foto: Gabriele Giussani; Styling: Lorenzo Oddo; Total Look: Gucci; Hair & Make Up: Valentina Raimondi

È notevole che due tra i musicisti più eclettici ed eccentrici del panorama musicale italiano abbiano studiato, rispettivamente, giurisprudenza e medicina. Segno che, come dicevano alcuni genitori d’altri tempi, la famosa forma mentis classica ti aiuta veramente ad affrontare qualsiasi mestiere. Ma prima ancora di scoprire la passione per il diritto o l’anatomia, e prima di abbracciare il teatro e la musica, cosa sognavate di fare da piccoli?
Veronica: La macellaia.
Dario: Io il Papa.
Veronica: Devo però puntualizzare che ho fatto solo un anno di giurisprudenza per poi iscrivermi a lettere. Da giurisprudenza sono dovuta scappare.

Veronica, perché volevi fare la macellaia?
Veronica: Credo perché molto affascinata da un macellaio dal quale mi servivo, con mia nonna, nel quartiere Marco Polo di Viareggio. Uno di quelli con la tendina a strisce di plastica che fanno un piacevolissimo rumore. La macelleria era tutta bianca, in forte contrasto con la carne, bella rossa. Non pensavo neppure al fatto che quei pezzi di carne provenissero da animali. Il macellaio non solo era simpaticissimo ma maneggiava con tanta destrezza i suoi strumenti affilatissimi che mi faceva sballare.

C’è una componente cromatica anche nell’antica predilezione di Dario per la carriera ecclesiastica?
Dario: Ovviamente era solo una questione di moda. Sono sempre stato una fashion victim. Le scarpette rosse sotto l’abito bianco erano per me irresistibili.

Cosa ha rappresentato la musica per voi, da adolescenti?
Dario: Per me la musica è arrivata a scuola. Ho iniziato a suonare la chitarra perché non potevo portare il pianoforte in giro per le classi. La mia attività preferita era suonare De André e Guccini durante le occupazioni. Da lì la scoperta del punk-rock, con la formazione di una cover band di musica, Oi!
Veronica: Un giorno devi raccontarlo in un podcast! Io ho iniziato a cantare da più piccolina. La mia famiglia ha sempre avuto dei bar sulla passeggiata di Viareggio, praticamente sempre aperti. Ero una grande performer sul tavolino di mio nonno. Inventavo spettacolini per le feste di famiglia, ispirandomi agli stecchetti delle soubrette che vedevo in televisione e condendo il tutto con travisamenti di canzoni di cui non avevo capito il testo. Sono stata prima la mascotte delle mie cugine più grandi e poi la leader dei cugini più piccoli.

L’amore per la musica si è assopito mentre, crescendo, facevate delle scelte di vita diverse rispetto a quelle tipiche di una pop star?
Veronica: Ricordo che a un certo punto della mia esistenza da liceale lo struggimento d’amore ha preso il sopravvento su tutto, anche sulla musica. La dimensione artistica sopravviveva in tentativi di opere d’arte fatte di chiodi arrugginiti, sangue e grovigli d’anima.
Dario: Inizialmente è stato il teatro ad allontanarmi dalla musica. Ho cominciato a farlo a sedici o diciassette anni. Quando fai teatro la musica diventa un passatempo e i musicisti ti sembrano degli artisti di seconda categoria.
Veronica: Il teatro è l’arte seria!
Dario: E sacra…

Foto: Gabriele Giussani; Styling: Lorenzo Oddo; Total Look: Gucci; Hair & Make Up: Valentina Raimondi

Qual è stato, più avanti, il lato più sorprendente della vostra personalità che la musica vi ha permesso di scoprire?
Dario: La musica ha la capacità di essere universale. Come linguaggio, associato o meno alle parole, potenzialmente non ha limiti. Io ho sempre fatto teatro di ricerca, una forma di spettacolo che ti porta a essere felice se ti vengono a vedere trenta persone per serata. L’emozione di interagire, attraverso la musica, con migliaia di persone alla volta, non è stato un salto solo numerico.
Veronica: Al di là del mestiere che ho poi intrapreso, la musica per me è sempre stata un’occasione di connessione con persone con cui era difficile instaurare un dialogo. Penso alla musica che mi ha legato a mio padre, agli argomenti di conversazione che mi conducevano a lui e solo a lui, attraverso le canzoni che mi aveva fatto scoprire. E lo stesso può avvenire non solo con persone, ma con parti di me. Come la volta in cui, mentre stavo facendo le prove per un film, mi è capitato di ascoltare Stranizza d’amuri di Battiato e iniziare a piangere a dirotto per una canzone che avevo ascoltato già mille volte ma che solo in quel momento aveva trovato, per me, il suo significato. Quando cambi tu cambia anche il mondo intorno a te.

Vi capita mai di avere un momento di blocco creativo?
Veronica: Devo dire che non ho mai percepito un blocco creativo.
Dario: Neanche io.

Dev’essere per questo che siete così originali.
Dario: Diciamo che, per come siamo fatti, non proviamo lo stress di alcuni amici cantautori che ci raccontano che hanno 150 canzoni pronte. Non abbiamo mai scritto più di due canzoni più di quelle che abbiamo pubblicato. Non abbiamo una produzione esasperata.
Veronica: Se guardi la questione dal punto di vista della pura creatività, forse il blocco creativo non esiste. Magari la tua creatività non andrà a finire sempre nelle canzoni, ma chissà quante altre vie puoi trovare per essere creativo: la preparazione di un piatto, fantasticare dopo la visione di un film…
Dario: Ogni volta che abbiamo deciso di incanalare le nostre esperienze dentro un disco, lo abbiamo fatto. È anche una questione di metodo: affronti i problemi, aggiri gli ostacoli, al limite racconti il blocco creativo…

Foto: Gabriele Giussani; Styling: Lorenzo Oddo; Total Look: Gucci; Hair & Make Up: Valentina Raimondi

C’è mai stata una critica ricevuta che vi ha davvero aiutato a migliorare?
Dario:
Veronica:

Non vi critica nessuno?
Veronica: Potrei parlare soprattutto delle critiche che ci facciamo tra noi.

E che critiche sono?
Dario: Solitamente Veronica mi sprona a non esagerare, a non “affannarla”. Sono un po’ vulcanico di temperamento, sia nella parte creativa che in quella “auto-manageriale” del nostro mestiere. Questo vale anche per l’espressività corporea: spesso mi dice di non muovermi troppo sul palco.
Veronica: Vabbè, dai, quello non è un problema…

E una critica da Dario a Veronica?
Veronica:

Dario non si permette?
Veronica: Forse il fatto che, una volta imparato a dire di no, poi lo dico troppo spesso. Ma non sono completamente d’accordo con questo suo punto di vista. Sono d’accordo però nella misura in cui questa mia attitudine, nella dimensione della Rappresentante, mi porta a pensare più a me stessa che a noi due insieme.
Dario: Da bambini diciamo spesso di no, e poi lo disimpariamo. Non so bene quando succeda, da un punto di vista evolutivo. Però da grandi è molto più difficile dire di no. Essere compiacenti può essere profondamente limitante e doloroso.

Ah, quindi stai già ritrattando. C’è un sogno artistico che ancora non avete realizzato e che potreste realizzare insieme?
Veronica: Un mio pallino sarebbe lavorare insieme con il produttore di Amy Winehouse, Mark Ronson.
Dario: Prima o poi vorrei scrivere un film con Veronica, portando al cinema qualche storia che abbiamo già affrontato nelle nostre canzoni.

Un musicarello della Rappresentante di Lista?
Dario: Considera più un La La Land.

E un sogno personale che vorreste realizzare individualmente?
Veronica: Mi piacerebbe andare a vivere almeno per un po’ a Okinawa. A quanto pare lì c’è una comunità molto longeva, di cui vorrei carpire i segreti.
Dario: Per conto mio vorrei pubblicare un disco di canzoni in siciliano. Alcune sarebbero tratte dai componimenti del poeta palermitano Franco Scaldati; altre dalle traduzioni fatte da Giuseppe Massa, sempre in siciliano, dei testi del drammaturgo francese Bernard-Marie Koltès. Mi piace molto quando la lingua siciliana si sposa con qualcosa che non ha a che fare col folk. Prima o poi mi ci lancerò.

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Foto: Gabriele Giussani
Art Direction: Alex Calcatelli per LeftLoft
RS producer: Maria Rosaria Cautilli
Project Manager: Eric Fiorentino
Styling: Lorenzo Oddo
Total Look: Gucci
Hair & Make Up: Valentina Raimondi
Stylist Assistant: Paolo Sbaraglia
Hair & Make Up Assistant: Silvia Dambrosio

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