Va bene che le pagelle dei giornalisti al primo ascolto erano parecchie entusiaste, e del resto pure la critica da tempo apprezza La Rappresentante di Lista: ma a cosa serve tutto questo quando all’Ariston vai in pasto alla demoscopica, con davanti milioni di spettatori distratti, pronti a memare su di te? E invece: in questo Sanremo “indie” in cui vince il compromesso e i favoriti restano sempre i soliti, di Veronica Lucchesi (voce) e Dario Mangiaracina (chitarra) rappresentano dei pochi, veri outsider che non hanno compiuto mezzo passo indietro. Alternativi come sempre, ricercati nei suoni, queer per «normalizzare la diversità», cerebrali nei testi. E, oltretutto, stavolta pure capiti dagli spettatori.
Certo, qualcuno si è incazzato, ma è la minoranza di un pubblico pronto, e che fa (purtroppo) ancora parte del gioco. «Sì, abbiamo saputo che dei gruppi ultracattolici hanno chiesto la messa in onda delle nostre esibizioni in seconda serata», sorridono i due in conferenza stampa. «Non possiamo dire che la cosa ci lasci indifferenti, ci spiace. La diversità fa paura perché costringe a mettersi in discussione, a rinunciare alle certezze. La nostra musica la esalta, e che qualcuno si spaventi sentendo parlare di cambiamenti di questo tipo non è che ci stupisca. Noi andiamo avanti». Anche perché Amare, che è un inno all’aprire ai sentimenti vestito da art pop stratificato à la Florence and the Machine (merito della regia di Dardust, che ha conciliato il trip-hop della casa con orchestra e archi killer), va benone in radio come su Spotify e al Festival stesso. «E il timore di essere fraintesi, in un certo senso, ci piace», ammette Dario. Del resto, per Veronica «quando ti vedono milioni di persone, hai una responsabilità nei messaggio che dai». Però «siamo contenti che in tanti sposino le nostre battaglie, che molti giovanissimi ci stiano scrivendo di averci scoperto proprio adesso. Si sta creando una comunità intorno alla nostra musica».
Che, dicevamo, non è certo semplice né disimpegnata. Prendiamo My Mamma: il loro disco di Sanremo in copertina ha l’origine-del-mondo (leggi: una vagina), mentre le canzoni sono piene di messaggi sociali, politici, femministi. Questione di identità, conferma Dario, citandone il pezzo-manifesto Resistere, perché «da quando siamo coscienti del nostro essere, per noi, si tratta solo di “resistere” agli ostacoli che la società pone, dall’ostilità nei confronti della femminilità di Veronica a questo periodo buio in cui siamo incastrati fra un Dpcm e un altro». E allora, semmai, resta da capire perché un gruppo potenzialmente così, almeno in parte, ostico stia piacendo tanto al pubblico.
La verità è che sul palco dell’Ariston, probabilmente, a La Rappresentante di Lista non manca niente. Anzi: è la loro prova di personalità. Vuoi l’interpretazione magnetica, e Veronica (che, ci dice, studia sciabola: un’arma «elegante, potente e che richiede equilibrio» in cui si rivede) con la sua voce puntualissima, emotiva e al tempo stesso muscolare te la garantisce. Cerchi i colpi di teatro, e loro – che si sono formati proprio lì – ti garantiscono il colpo di scena, riempiono il palco. Aspetti la cover, e arriva un’impennata come Splendido splendente con ospite la stessa Rettore («Donna vulcanica e soprattutto di teatro, attenta agli sguardi e alla mimica proprio come noi»), con un tiro sensuale e originale eppure tecnicamente ineccepibile, che l’orchestra ha issato fino al nono posto. Il resto, lo fa un’estetica gender fluid curatissima, con performance piene di dettagli che vanno dal colore «acceso, vivissimo» dei loro abiti firmati Pierpaolo Piccioli (Valentino) ai peli delle ascelle di lei, dipinti di fucsia e che più di qualcuna sta emulando. Dario, in sintesi: «Direi che ogni segnale che abbiamo messo nelle nostre esibizioni sia stato recepito dalla gente». Non è poco.
Un pensiero, quindi, come di rito all’Eurovision: «siamo pronti», ammette Veronica, «sarebbe bello portare su quel palco non dico la qualità, ma almeno la cura che mettiamo noi nella musica». E l’ultimo, ovviamente, ai lavoratori dello spettacolo. «Non c’è ancora nessun piano di ripartenza e la cosa ci uccide», racconta Dario. «Ma è giusto che Sanremo dia un messaggio. Per questo, ho apprezzato le sedie vuote e la scelta della regia di inquadrarle la prima sera: perché i teatri in cui siamo cresciuti al momento sono senza pubblico, altro che palloncini». Figuriamoci se La Rappresentante di Lista poteva tirarsi fuori da questa, di battaglia.