«Non avevo mai sentito il flamenco fino ai 13 anni», dice Rosalía. «Quando finalmente l’ho ascoltato, è stato il punto di svolta». Ci troviamo nel celebre hotel Four Seasons di Città del Messico e la cantante mi sta spiegando le sua radici musicali, quelle che l’hanno resa una delle artiste più interessanti del panorama pop attuale. Dopo esserci visti più volte nel 2020, oggi finalmente riusciremo a terminare la conversazione che avevamo iniziato nel bel mezzo della pandemia. Lei ha i capelli raccolti e indossa una t-shirt piuttosto larga, tanto che le fa da miniabito, con degli stivali al ginocchio di Rick Owens degni di un personaggio uscito direttamente da uno dei capitoli cinematografici di Mad Max.
Rosalía, 29 anni, per un’artista del suo calibro è incredibilmente amichevole e alla mano. Ci trasferiamo negli studi della Sony, nell’area industriale uptown, quelli dove il leggendario artista messicano José Alfredo Jiménez qualche decennio fa ha inciso alcuni dei suoi maggiori successi. Lì ascolteremo in anteprima Motomami, il nuovo concept album di Rosalía. Il progetto è stato sviluppato nell’arco di più di tre anni, ma quando uscirà nel 2022 mostrerà l’evoluzione del percorso creativo che ha portato all’emancipazione artistica della cantante.
Cresciuta nella periferia di Barcellona, Rosalía – all’anagrafe Rosalía Vila Tobella, nata vicino a Sant Cugat del Vallès – non si sentiva particolarmente attratta dal flamenco, sebbene la nonna la portasse a prendere lezioni di ballo mentre mamma era al lavoro. Si è avvicinata al genere solo negli anni dell’adolescenza, grazie ad artisti come Camarón de la Isla. «Sono sempre stata brava, sin da piccola, a cantare e ballare, non ricordo un solo istante della mia infanzia in cui non lo abbia fatto», dice. Verso i 16 anni si appassionò al flamenco e iniziò a prendere lezioni a livello professionale. «Non immaginavo che avrei potuto cantare il flamenco. Nel genere ci sono molte tipologie di voci differenti: Valderrama non è come Camarón».
Nel 2017 ha inciso l’album Los Ángeles con il produttore e chitarrista Raül Refree. Si tratta di un concept album flamenco che rende omaggio alle idee di dolore e morte, in cui si toccano con mano la potenza della sua voce e le sue qualità da soprano, con il supporto di melodie struggenti – come in pezzi del calibro di De Plata and Aunque Sea De Noche. Quell’anno, mentre registrava il secondo disco, ha ricevuto una nomination come Best New Artist ai Latin Grammy Awards. L’album l’ha lanciata verso nuove vette di successo mainstream nel mercato della musica in lingua spagnola (e non solo), oltre a farle guadagnare l’ammirazione anche di chi l’aveva criticata, in parte anche grazie a una dozzina di video prodotti dal team spagnolo Canada, che hanno rappresentato un forte elemento visuale ed estetico a supporto del suo lavoro.
Da quel momento si è concentrata su collaborazioni con altri artisti, che hanno prodotto hit come Antes de Morirme con C. Tangana, TKN con Travis Scott, Con Altura con El Guincho e J Balvin e infine Yo x Ti, Tu x Mi con Ozuna.
«Per crescere come musicista devi sentire un sacco di musica», dice mentre sistema tutto per l’ascolto. Mi dice che io sono il primissimo a sentire i pezzi nuovi, all’infuori del circolo dei suoi collaboratori più stretti. Un cavetto esce direttamente dal laptop e si collega al mixer a 72 piste. Mi offre un bicchiere di vino messicano e il disco parte.
Motomami è un capolavoro pieno di dissonanze, synth e organi distorti. È un lavoro innovativo, sperimentale, che mostra le radici e le capacità tecniche di Rosalía, lasciandoti con più domande che risposte. Sfida la musica commerciale così come la conosciamo. Coretti da canticchiare e ritmi ripetitivi? No. Nel disco si smonta la struttura tradizionale della pop music in lingua spagnola spostando il fulcro dall’accompagnamento ritmico alla melodia. I pattern di batteria ricordano quelli di Trent Reznor e porta la sperimentazione verso nuove vette, ed evoca i pochi fortunati che sono riusciti a sfuggire all’industria commerciale per dedicarsi alla vera arte.
Il livello di sperimentazione lirica, ritmica e sonora di Motomami è paragonabile a lavori del calibro di Ill Communication dei Beastie Boys e Play di Moby, album nati dalla volontà di decostruire e mettere in discussione gli schemi. Rosalía riesce a essere dolce, calda e innovativa come Lorde in Pure Heroine, oppure ruvida e cattiva come i Nine Inch Nails in The Downward Spiral. Spinge la voce in saturazione e ci gioca, portandola al limite senza la minima esitazione, decostruendola per dar vita a campionamenti e suoni che si intrecciano col ritmo – se così vogliamo chiamare quel pattern percussivo, sincopato e asincrono che si sviluppa in ogni brano. Ripensa le strutture, creando musica che può sembrare disarmonica e asimmetrica, ma proprio questa è una delle peculiarità più esaltanti del disco.
I generi musicali sono una cosa del passato: qui c’è spazio per la qualunque. Ogni elemento è stato assemblato con cura artigianale per creare lo scheletro di ciò che la musica moderna dovrebbe essere: arte, gusto, dembow, champeta, flamenco, bachata, hip hop, melodie al piano.
Quando il disco finisce Rosalía scoppia in lacrime. Ha appena messo a nudo la sua vulnerabilità. Dopo tre anni di ricerca, sente di avere portato a compimento il disco più importante della sua carriera. Riascoltarlo pezzo dopo pezzo le riporta alla mente ogni singola discussione e session col suo team. Per la prima volta sembra rendersi conto della grandezza di questo suo lavoro: è un autoritratto completo.
Negli ultimi anni si è fatta strada in un’industria spietata. E ci sono ancora molte domande in sospeso: perché non smettiamo di pensare alla musica in termini di formati e generi ormai superati? È giusto che la musica commerciale spagnola resti ingabbiata in un unico stampo? Qualche risposta sembra averla. Ma intanto Motomami pare un treno che arriva dal futuro e si dirige verso di noi a tutta velocità, senza freni. E Rosalía è il motore che lo muove.
Cosa hai imparato incidendo Los Ángeles ed El Mal Querer? Cosa ti hanno lasciato quelle esperienze?
Onestamente non sento di essere cambiata granché da allora. Mi diverto facendo musica in un modo diverso. Mi ci approccio con altre regole. Mentre lavoravo a Los Ángeles la mia ricerca era incentrata molto sul flamenco; era qualcosa di più classico e volevo provare a creare un omaggio, ma da un mio punto di vista personale. E alla fine è andata così, no? El Mal Querer è l’espressione del momento in cui l’ho fatto. Non avrebbe avuto alcun senso rifare qualcosa di simile, anche solo piccole cose. Non mi piace guardarmi indietro, se capisci cosa voglio dire.
Certo, è ciò che ti ha portata dove sei ora.
Al 100%. E per questo sono molto grata per tutto ciò che quei progetti mi hanno dato, però quando lavoro a qualcosa di nuovo cerco di andare oltre. Credo che quei progetti mi abbiano aiutata a capire come si fa un disco. Per dire, Los Ángeles, mi ha fatto capire come usare la voce in un certo modo, ho imparato molto da Refree. Poi con Pablo (alias El Guincho, produttore di El Mar Querer, ndr) ho appreso tanto sul songwriting: El Mar Querer include molto flamenco tradizionale, ma c’è anche un grosso lavoro di scrittura. Stando al suo fianco ho assorbito moltissimo. In questo nuovo disco abbiamo fatto tutto partendo da zero. Non è per niente tradizionale. C’è anche un certo senso dello humor e c’è dell’ironia. È differente. Volevo usare codici diversi e sperimentare altre modalità di fare un album.
L’ultima volta che abbiamo parlato mi avevi detto che il disco era quasi pronto. Perché ci è voluto così tanto per terminarlo?
È una cosa che devo sentire io, quando è davvero pronto. Probabilmente allora ti ho detto così perché, in cuor mio, volevo convincermi che fosse finito; in realtà so benissimo che un disco è terminato solo quando lo ascolto e riesco a distaccarmene. All’epoca, mesi fa, continuavo a tornare sui miei passi per sistemare cose e riregistrare linee vocali. Credo di avere inciso un migliaio di tracce di voce, alcune buona alla prima, ma non molte.
A parte la tensione interna per vincere le tue sfide, hai mai percepito qualche pressione dall’esterno, dal tuo team, dall’etichetta o dai fan?
Sai, ho percepito un po’ atmosfera tipo “stiamo andando fuori di testa” attorno a me, in generale, e un po’ la sensazione di non muovermi abbastanza rapidamente. Lavoravo coi miei ritmi, quelli per me necessari per fare questo tipo di cose. Negli ultimi tre anni ho deciso di concentrare le mie energie sul tentativo di dare a questo disco un feeling di rischio ed eccitazione. Quando c’è l’industria di mezzo sembra tutto omologato, perché dietro girano un sacco di soldi. A volte i prodotti non sono freschi o non si sviluppano come avrebbero dovuto. Ho provato a dimenticarmi del lato business. Puoi dire ciò che vuoi di questo disco, ma non che non siano rischio ed emozione – almeno io la penso così e spero sia così.
È anche un album coraggioso.
Ecco, questo è uno degli aggettivi più belli che si possa sentire. Lo apprezzo molto, perché sento di avere preso dei bei rischi. Ne sono convinta.
Il disco ha anche un elemento extra, la pandemia. Ti ha aiutata o è stata d’ostacolo?
In tutto questo progetto c’è una sorta di sensazione d’isolamento.
Quando ti riferisci all’isolamento, intendi che eri davvero da sola?
Sì, ho passato molto tempo da sola. Spesso mi sono trovata in difficoltà e mi sono sentita sull’orlo del precipizio. A livello creativo era come sfiorare l’abisso. Per gli altri dischi ho sempre avuto compagnia, anche quando ero io alla guida perché avevo la visione chiara di dove andare a parare. In questo caso, più che mai, ho sentito sulle mie spalle tutto il peso e la responsabilità del progetto. In passato avevo avuto sensazioni sensibili, ma questa volta è stato diverso. Ho lavorato con produttori diversi, con gente diversa. Mi è piaciuto, ma ho dovuto combattere per farlo. Per i dischi precedenti non avevo mai avuto questa percezione e tutto fluiva senza intoppi. A volte sono stata sola, molto. Ma ho avuto anche compagnia e devo dire che sono grata a tutte le persone che hanno collaborato con me. Questo è il motivo per cui non vedo l’isolamento o il tempo passato da sola come cose negative. Mi hanno aiutata a crescere come autrice e produttrice.
Tutti i concept album hanno fin da subito obiettivi molto chiari. Quali erano i tuoi per questo disco?
Credo si tratti di una dichiarazione di intenti. A livello concettuale e di testi. Penso sia il disco più personale e intimo che io abbia fatto. Mi sono sempre considerata una che racconta storie. E Motomami è la storia più personale che io abbia mai sviluppato. Nella mia testa, Motomami ha senso come concept che narra di una figura femminile che cresce. Ecco com’è, è una specie di autoritratto di un’artista che si descrive nel contesto del mondo moderno.
Che impatto ha il femminismo sul tuo lavoro oggi?
È sempre stato molto importante. Per esempio collaborare con Tokischa, Rita Indiana, Caroline Shaw, tutte donne che hanno partecipato al progetto. Il titolo del disco è un nome femminile, anche se “moto” è una cosa e “mami” un’altra. Per me c’è un dualismo, proprio come nel suo suono. Il disco ha una struttura binaria, basata su due tipi di energia contrapposti. Quindi se mi chiedi del femminismo, ti dico che è implicito nell’intenzione, è molto radicale e molto presente in alcune canzoni, meno in altre. Perché, alla fine, è il viaggio emotivo di alti e bassi che un artista affronta. Lì dentro c’è molta della mia vita quotidiana ed è per questo che le rivendicazioni delle donne e della femminilità sono implicite.
Molti artisti hanno avuto successo, in vari generi, perpetuando idee macho e misogine. Che ne pensi?
Sarei molto felice se questo disco fornisse una sorta di contrappeso a tutto ciò. Non mi è capitato spesso di trovare figure femminili che scrivano in modo crudo, specialmente nel campo della musica spagnola folk e non. È una cosa più comune nella musica anglofona. In questo disco certe canzoni sono risposte ad alcuni degli elementi che hai citato, visti da un’altra prospettiva.
E lo fai deliberatamente?
La creatività ha sempre un aspetto irrazionale. È lì, succede. E poi c’è una parte conscia. Convivono. Comunque non credo che il problema di cui parlavi sia confinato all’ambito del reggaeton. È il riflesso della società intera. Se nella musica succedono certe cose, è perché sta accadendo qualcosa nella società, nel mondo reale.
Che alimenta queste cose…
Esatto. Quindi faremmo bene a domandarci cosa sta succedendo e cosa possiamo fare a questo proposito.
Prendi sul serio la cosa quando certi artisti che puoi considerare colleghi adottano quegli stereotipi?
Non troppo sul serio, perché a volte di mezzo c’è dello humor. La musica può essere anche fiction e non deve per forza essere politicamente corretta. La penso così. Non giudico un artista o un amico se non parlano in un modo che mi mette a mio agio. Al limite dico loro qualcosa, ma non giudico il loro lavoro, perché parto dal presupposto che la musica può essere fiction, come un film. E nessuno giudica un film quando mostra cose poco belle.
Cosa pensi di tutte le collaborazioni che hai fatto negli ultimi anni? Ci sono pezzi che hai pubblicato e che pensi non avrebbero una collocazione in un album come questo?
Mi sento come una bambina in un parco giochi. Ci sono tante opzioni e io me le godo, perché davvero è stato tutto divertimento allo stato puro. Dopo El Mal Querer ho avuto la possibilità di andare in studio con alcuni artisti che ammiro e con cui mi trovo bene. Ma sai, non è stata una cosa premeditata. Ho imparato moltissimo lavorando con altri musicisti, produttori, artisti ed è una cosa che non ho potuto fare mentre ero a Barcellona, a studiare.
Quindi non è stata una mossa strategica, come qualcuno potrebbe pensare.
Assolutamente no. È andata tipo: “Ok, siamo in studio, questa roba è buona. Mi piace, la voglio condividere”. Anche se preferisco pensare in termini di progetti articolati. Credo davvero che sia quello l’ambito in cui mi diverto e do di più. Penso a un disco come a un progetto e preferisco fare degli album interi piuttosto che dei singoli. Però ha senso anche fare qualche collaborazione.
Quali sono i riferimenti ideali di questo nuovo disco?
Ho ascoltato molto Héctor Lavoe, Nina Simone, Patti Smith, Bach, del dembow, la bachata classica e, come ho già accennato, parecchio reggaeton. Vivienne Westwood mi piace tanto, mi ispira, lo fa anche Michèle Lamy, così come Pedro Almodóvar. Ho guardato anche i film di Tarkovsky.
Sono riferimenti che cambiano nel tempo?
Sì. Ho guardato parecchi documentari su artisti, perché in questo album c’è una componente autobiografica, molti riferimenti alla mia vita di tutti i giorni. Ma c’è anche un ritratto dell’artista o della figura dell’artista e di come si rapporta col mondo esterno, con il pubblico e con la realtà a cui è esposta. Ci sono molti riferimenti di questo genere. Ero anche molto curiosa non solo di come mi sentivo, ma di come gli altri lo facevano. Vedere il documentario su Nina Simone mi ha dato una direzione. Leggere un libro sulla vita di Chavela [Vargas] e ascoltare le sue incisioni mi ha aiutata. È tutto lì dentro. Devo molto a questi modelli.
Come e in che maniera la tua carriera è stata influenzata dal reggaeton?
Ivy [Queen], per esempio, è stata un grande punto di riferimento per me, soprattutto per il suo atteggiamento: farsi chiamare La Caballota è una cosa molto potente. È un’artista irriverente per come fa e ha fatto le sue cose. Il reggaeton è sempre stato parte della mia vita a partire dai miei 11 anni e l’ho sentito per la prima volta a una fiera, dove ballai sulle note di Don Omar coi miei cugini. È stata una cosa molto naturale per me, come il flamenco. Ai tempi in cui studiavo ascoltavo Arcángel o Daddy Yankee andando a scuola. Fa parte del mio vissuto, della musica che ho sempre sentito, è un approccio che mi viene naturale.
La tua musica spazia in tutti i tipi di sonorità ed emozioni. Canzoni come De Plata o Linda, per esempio, sono agli antipodi. Come si conciliano?
A 13 anni comprai un mixtape con pezzi reggaeton e a casa ci ballavo perché mi piaceva. Ho sempre avuto una gran passione per la musica caraibica. L’ho sempre amata. Per cui Linda, per me, rappresenta la gioia. De Plata è il dolore. Sono quasi ai poli opposti. Si potrebbe pensare che sia come dici tu, ma in realtà è tutto uguale. Nella vita c’è il dolore, ma anche la felicità, allo stesso modo. Per me, quindi, è tutto uguale, anche se sono in gioco energie diverse e codici diversi.
In fondo si tratta di descrivere un’emozione.
Sì e anche un’energia. Se c’è l’energia – e ogni ascoltatore decide se c’è o meno – allora l’approccio, il tema o l’intenzione non hanno più importanza.
De Plata è un brano così forte che potrebbe averlo scritto Ennio Morricone.
È anche un flamenco tradizionale.
Canzoni del genere ti fanno quasi dimenticare che si tratta di flamenco. Sono solo pezzi con melodie bellissime. A questo proposito, pensi che oggi Los Ángeles avrebbe un riscontro diverso?
Non ho idea, solo Dio lo sa. Ma se adesso mi venisse data l’opportunità di fare il mio prossimo album come Los Ángeles, lo farei al 100%. Ma quel disco in particolare aveva senso in quel contesto; nasceva in un momento irripetibile della mia vita in cui mi stavo concentrando sullo studio del flamenco e ho incontrato Refree. Quando cose del genere accadono, è perché è destino.
E poi è diverso quando non hai nulla da perdere. Adesso lavoro con la mia famiglia, il mio team si è allargato molto negli ultimi anni. Fare musica senza vincoli o responsabilità non è come quando hai una grossa squadra alle tue spalle.
All’inizio dei lavori per questo disco pensavo: sono confusa, non riesco a pensare con lucidità, non vedo e non sento le cose con chiarezza. C’era un enorme pozzo in cui succedevano le cose e mi ci è voluto del tempo per mettere insieme i pezzi del puzzle. Ma quel contesto così caotico ha avuto un lato positivo: mi ha aiutato a mettermi in carreggiata e a definire il percorso.
Ho sempre ascoltato to Lil’ Kim e Tupac. E per me non fa nessuna differenza fare un pezzo in cui rappo. Uso la voce in modi diversi, perché è uno strumento, sarebbe assurdo usarla in una sola maniera. In questo album trovi molte influenze diverse, alla fine; è come una grande tavolozza di opportunità, di colori e qua e là ci sono delle pennellate. Ha senso, perché è ciò che lo rende un viaggio.
È così che funziona la vita.
Sì, ci sono alti e bassi. Ci sono momenti in cui, in un certo senso, devi conciliare i generi tra loro. A volte ci esprimiamo in termini di arte buona o cattiva, musica buona o cattiva, ma non la vedo così. Quest’album è stato ispirato da molti generi e io celebro questa cosa. Alla fine, desidero che la mia carriera sia come una lettera d’amore per la musica che amo e questo disco ne è una parte.
Non vuole essere un manifesto per il flamenco, perché non era tua intenzione.
Il fatto è che reggere un manifesto, sarebbe pesante, no?
Certo, ma hai mai sentito la pressione del pensiero «sono un’artista spagnola e faccio musica folk spagnola»?
No, e idem per la cosa del manifesto. Sono concetti troppo pesanti. Mi limiterebbero a livello creativo e qualsiasi cosa che sia tabù o soggetta a limiti ti inibisce creativamente. È qualcosa che va contro il processo. Non sono interessata. So che il mio obiettivo è conquistare sempre più libertà come artista: farmi portabandiera di un genere avrebbe un effetto del tutto opposto.
Come hai gestito le aspettative che ci sono attorno a quest’album? Perché tu hai ambizioni personali e artistiche, il tuo team ne ha altre che sicuramente ti avrà spiegato, la tua etichetta discografica pure…
Beh, ci sono due canzoni sul tema. In Delirio de Grandeza canto: “La ambición, delirio de grandeza” (“Ambizione, delirio di onnipotenza”). [Justo] Betancur l’ha detto e io ho pensato che fosse una buona idea scriverci sopra una canzone, che parlasse della fama, perché desidero che tutto ciò che mi circonda abbia un impatto sulla mia musica e sul mio sound. E allora lasciamo che sia così, qualunque cosa Dio voglia.
Non ho iniziato la mia carriera incidendo delle hit. Se ne ho qualcuna è grazie alle persone che mi hanno aiutata. Cercherò di continuare a lavorare in questo modo, a progetti, facendo musica in cui credo. E se mi ritroverò con una grande canzone, bene così! Darò un party, mi divertirò come una pazza, sarò esaltata, festeggerò e sarò grata per questo!
Dal punto di vista dei testi, che temi hai voluto toccare nel disco? Quanto sono importanti l’amore e le pene d’amore?
Cambiamento, sesso, delusioni d’amore, celebrazioni, spiritualità. Anche cose ordinarie e il rispetto per se stessi. Si parla di tutte queste cose; sono analizzate e condivise tutte alla stessa maniera. Una delusione d’amore può essere un punto da cui iniziare a scrivere, ma è solo una cosa. Non voglio restare invischiata lì, a meno che non decida di scrivere un album dedicato tutto a questo tema. El Mal Querer è in parte così, ma non credo che un disco intero sulla delusione d’amore sia poi così interessante. Mi piace pensarmi come un’affabulatrice, posso parlare di tante cose diverse ed è una bella sfida per me. È molto più interessante vedere qualcuno che racconta storie di tanti posti diversi. La delusione d’amore è solo una delle varie cose, non migliore, né peggiore delle altre.
Cosa pensi del livello di piatta omogeneità di molta musica spagnola oggigiorno? E parlo della musica mainstream, perché ovviamente l’America Latina è un posto di grandi diversità. Come hai cercato di affrancati? La tua è una ribellione?
(Ride) Capisco. Io faccio musica da ascoltare, non so se mi spiego. Mi piacciono Oneohtrix Point Never, Arca, Frank Ocean. Pe fare un altro esempio, mi piacciono anche Wisin y Yandel. Cerco di trovare il modo di fare coesistere tante cose, di unirle, di riconciliare le energie che mi piacciono. Non mi piace quando qualcosa suona troppo scolastico e roba che ho già sentito un milione di volte. Non è stimolante. Mi piace se succede qualcosa nel testo, anche se la musica magari mi è familiare, ma mi piace anche se tutto mi suona familiare eppure non ho mai sentito una melodia simile o una produzione di un certo tipo. L’album di Popcaan, per esempio, è molto pop. Ma le sue melodie, il suo fraseggio e tutto il resto suonano freschissimi, è una cosa speciale.
Forse questo è il punto: fare cose “vere” è la caratteristica del pop. Voglio dire: i Rolling Stones che suonavano rock’n’roll 60 anni fa erano pop.
Sì, esatto. Dopo tutto la caratteristica migliore del pop è l’essere accessibile e inclusivo. Kanye possiede qualcosa che gli fa guadagnare il favore della gente. Il mio approccio in studio è sperimentale, sempre. Come posso fare un pezzo di bachata senza chitarra? Come potrei rendere questa linea vocale più satura che mai? E come posso fare in modo che questa voce sia fragilissima, come fosse sussurrata al tuo orecchio? Devi mettere tutto insieme e fare attenzione ai piccoli dettagli, affinché tutti quei generi possano coesistere in una canzone.
È questo che intendo per sperimentazione. Mi viene naturale. Ma al contempo un altro mio obiettivo è creare musica accessibile e inclusiva, perché non faccio musica solo per me stessa, non faccio musica solo per essere felice e non la faccio solo perché mi completa. Non faccio musica solo perché so di essere nata per scrivere canzoni. È per tutti, è da condividere. Sarebbe egoista da parte mia fare musica che soddisfa solo me. E allora penso: «Come posso fare in modo di restare fedele al mio processo creativo e fare qualcosa che piaccia anche alla gente?». Deve incontrare il gusto degli altri e non sempre è facile. Non sai mai se accadrà o meno. L’importante è che ci sia almeno l’intenzione di farlo.
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US ed è apparso originariamente sul primo numero dell’edizione di Rolling Stone in lingua spagnola.