Nel video del loro ultimo singolo, War, il cantante dei Sum 41 Deryck Whibley brucia fra i rottami quelli che sono i simboli del suo passato: una chitarra, un paio di All Star, uno skateboard e soprattutto una bottiglia d’alcol.
Una sorta di nuovo inizio, al netto di tutte le vicissitudini che la band ha affrontato negli ultimi anni. Cambi di formazione – Steve Jocz ha lasciato la band nel 2013, Dave Baksh è tornato nel 2015 – problemi di salute, pause più o meno forzate. Fino al 2016, quando finalmente le cose sono tornate come dovevano essere, con la pubblicazione del nuovo disco, con un nuovo tour, e soprattutto con delle nuove motivazioni.
In occasione dei 3 concerti italiani della band dell’Ontario – 28 gennaio a Padova, 29 a Milano e 31 a Roma – abbiamo incontrato proprio Deryck per farci raccontare qualcosa sul nuovo disco, 13 Voices, e su come si trova la voglia di ricominciare.
Da Screaming Bloody Murder è passato qualche anno. Quando avete capito che era il momento giusto per tornare sulle scene?
Non sono cose che si decidono, è stata più che altro una sensazione. Dopo la pubblicazione di Bloody Murder siamo stati in tour per 3 anni, eravamo molto impegnati, non abbiamo avuto modo di lavorare a nuovo materiale. Poi, alla fine del tour, c’è stato un periodo che che possiaamo chiamare “di vacanza”. Ma è stato molto diverso da una vacanza…
E com’è stato?
Avevo iniziato ad andare a tantissimi party, troppi. E di conseguenza a bere. Avevo smesso di prendermi cura di me stesso, e sono stato male, molto male. Mi hanno ricoverato per circa un mese, e successivamente ho iniziato un periodo di rehab. Proprio allora mi è tornata la voglia di scrivere canzoni e ho capito che dovevo tornare a fare musica, anche per superare quel periodo orribile.
La musica ti ha aiutato ad esorcizzare quello che ti era successo?
Certamente. È stata la ragione per cui mi sono impegnato a stare meglio, a ripulirmi e a tornare sul palco. È la mia vita.
Hai scritto tutti i brani del disco, si può dire che 13 Voices sia una sorta di diario…
Penso che tutti i nostri dischi lo siano. All Killer No Filler raccontava chi eravamo da teenager. Scrivo e ho sempre scritto di quello che vedo, che vivo. Ovviamente questo disco è più maturo, la mia vita agli esordi era fatta solo di scuola e skate.
E il pubblico com’è cambiato in questi 16 anni?
Ai nostri concerti continuiamo a vedere ragazzini che saltano ovunque. Abbiamo continuato a fare le nostre cose, senza pensare troppo a quello che succedeva intorno. La cosa bellissima è che, quando saliamo sul palco, la sensazione è sempre la stessa. E anche quello che ci troviamo davanti.
All Killer No Filler è stato appena ripubblicato, in vinile. Come mai questa decisione? Una sorta di anniversario da celebrare?
In realtà no, non abbiamo deciso niente a riguardo. È stata una scelta dell’etichetta, un altro modo di guadagnare con le nostre canzoni! Però, in fondo, non è stata una cattiva idea. Sono contento che si parli ancora di quell’album.
Quel disco è uscito nel 2001, anno particolarmente tragico per l’America. Il vostro ritorno coincide con un altro periodo non proprio facilissimo. Cosa ne pensi di Donald Trump? Cosa succederà nei prossimi 4 anni?
Credo che Trump sarà in grado di farci rimpiangere anche un Presidente pessimo come George W. Bush. Non so cosa succederà, ed è questo che mi preoccupa. Ha tirato fuori i sentimenti peggiori dalle persone, dalla nostra nazione. Li ha fatti emergere in superficie. È una davvero cosa pericolosa. Se ne frega dell’ambiente, dei diritti umani, di tutto. Sembra che nessuno gli stia a cuore. Non è un repubblicano o un conservatore: è Donald Trump. E pensa solo a se stesso.
Si dice che quando la situazione politica fa schifo gli artisti tirano fuori il meglio. Siete già al lavoro su cose nuove?
Sì, scrivo molto e non sto mai senza chitarra. Dopo questo periodo di pausa, siamo più motivati che mai.