È da poco passata mezzanotte quando SZA sparisce dalla sua casa di Los Angeles per recuperare le sue campane tibetane. Tra meno di tre ore arriverà un’auto per portarla in aeroporto, dove alle 6 del mattino prenderà un volo per le Hawaii, ma non è preoccupata dai bagagli. «Non porterò niente, solo qualche t-shirt», dice sorridendo. Kauai, dove andrà per sei giorni a scrivere a casa di Rick Rubin, «è un luogo di guarigione. È perfetto per me».
SZA, 29 anni, torna nella stanza e sistema sette campane in ordine di dimensione – dalla più piccola, che ricorda una tazza per i cereali, alla più grande, quasi una coppa da insalata – posizionandole con cura su piccole basi circolari. Le usa in studio, sta registrando suoni a bassa frequenza per alcune nuove canzoni: le campane si sentono appena, dice, ma creano «un ronzio interiore che mi dà una bella sensazione». Di recente se n’è rotta una, e SZA ha pianto come se avesse perso una persona cara. Non è riuscita a liberarsi dei cocci, così li ha raccolti in una maglietta e li ha seppelliti sotto un albero in giardino.
«Ogni campana è intonata con un diverso chakra del corpo», dice indicandole una dopo l’altra. «Questa è un re basso. Questa un si alto, il piano astrale del chakra della corona». Le spiega tutte, una dopo l’altra. I materiali di ogni campana ne determinano le proprietà curative, dice. La morganite, per esempio, è per l’amore e la dolcezza. Seduta a gambe incrociate sul pavimento, inizia a suonare le campane con una piccola mazzuola. «Scegli la nota che ti viene in mente, in modo naturale, e immagina che venga fuori dal tuo corpo», dice premendo le mani sul torace. «Devi spingerla fuori». Una nota esce dalle labbra, il suono è limpido e pieno.
Mentre i mobili della stanza iniziano a vibrare, SZA si unisce alle campane come un duetto, cantando singole note influenzate da come si sente sul momento. I suoni iniziano a mischiarsi, nascono e muoiono contemporaneamente. Passano così cinque minuti, SZA è seduta a gambe incrociate, il suo è uno one-woman-show nel bel mezzo della notte. Quando si sente giù di morale, dice mentre suona, sceglie una parola e la canta intensamente. “I’m blessed, I’m well, I’m well”, canta all’improvviso intonata con le campane. Si ferma per un momento, poi sospira. «Funziona, mi sento già 10 volte meglio».
Cresciuta nella provincia di Maplewood, New Jersey, Solána Imani Rowe sentiva di avere un grosso peso sulle spalle. Al liceo, ricorda, «volevo essere amata e spassarmela, ma a quanto pare non mi era concesso». Ha saltato il ballo studentesco per andare a South Beach con la madre e qualche amico, e una notte si è ritrovata a far festa nel privé di un club a pochi passi da Lil Wayne e Diddy. Il viaggio, dice, «ha aperto una porta. Pensavo: fanculo, tanto non ho amico, non c’è niente per cui valga la pena restare, tanto vale andarmene e cercare altro».
È andata al college per studiare biologia marina, poi ha collezionato qualche lavoretto mentre iniziava a registrare musica. Nel 2012, quando gli artisti potevano ancora costruirsi un seguito con qualche singolo su SoundCloud, ha iniziato a farsi notare online con canzoni come Aftermath, con un testo esilarante (“I am not human / I am made of bacon, fairy tales, pixie dust, I don’t feel”) che ha attirato l’attenzione dei primi fan.
Tra questi c’era anche lo scrittore Ta-Nehisi Coates, che ha appuntato un altro verso di Aftermath (“You don’t have to kidnap / I’d like to be kidnapped”) in un quaderno che usava mentre scriveva il romanzo The Water Dancer. «I suoi testi sono inconfondibili: è una donna nera incredibilmente umana, a volte si sente insicura del suo corpo, altre si sente sexy, altre ancora cade nell’oscurità», dice Coates. «È quel che fanno gli artisti. Una volta che trovano una loro specificità possono toccare l’aspetto umano delle cose».
Anche Terrence “Punch” Henderson, co-presidente di Top Dawg Entertainment, l’ha notata, trasformandola nel 2013 nella prima donna nel roster dell’etichetta. Ctrl, l’album di debutto uscito nel 2017, l’ha resa una star. Lo è diventata perché ha messo in musica il monologo interiore di una donna, alternando sfuriate pubbliche a insicurezze che di solito restano nascoste (“Let me tell you a secret / I’ve been secretly banging your homeboy”, canta all’inizio della hit Supermodel, per poi aggiungere, “Wish I was comfortable just with myself”). Rispetto ai testi dei millennial, Ctrl è su un altro livello: suona come il flusso di coscienza di una giovane adulta, un mix di ansie, storie d’amore fallite, riferimenti alla cultura pop assorbiti crescendo su internet.
Dopo l’ingresso nell’etichetta, SZA ha conquistato nove nomination ai Grammy, suonato sul palco principale del Coachella e scritto e cantato in canzoni di superstar come Beyoncé e Post Malone. All the Stars, la collaborazione del 2018 con Kendrick Lamar per la colonna sonora di Black Panther, ha totalizzato oltre 700 milioni di stream su Spotify. Tuttavia, SZA continua a provare un senso di colpa, come se dovesse fare di più. Si considera timida e strana, e ancora oggi non è a suo agio sul palco. «Sono sempre scioccata da fatto che ci sia del pubblico», confessa.
Sono passati quasi tre anni dall’uscita di Ctrl, e la sua fan base è diventata impaziente. Quando scrive qualunque cosa su Twitter, di questi tempi, la risposta si trasforma sempre in un coro di richieste sul suo prossimo progetto discografico (“Amore, voglio nuova musica non notizie sulle scoregge dei dinosauri”, per citare un esempio recente) e ogni anticipazione che ha pubblicato è stata accuratamente catalogata. Anche SZA, quando l’abbiamo incontrata per la prima volta a gennaio, mi ha chiesto: «Quest’intervista sarà sull’album?».
Quando arrivo nella sua casa, un bilocale in stile Tudor, alle 10 di sera di martedì sera, SZA ha appena finito di cucinare la cena per sé e un paio di amici. Sembra pronta per andare a dormire: indossa pantaloni della tuta grigi e una vecchia canotta verde della Champion. E invece saltella sul tappeto bianco con la sicurezza dell’ex ginnasta, quale è, poi rolla lentamente una canna.
Il suo modo di scrivere, giocoso e ricco di associazioni libere, torna anche nelle conversazioni, e sembra quasi che non aspetti altro che un’occasione per spiegarsi. Il 2019, dice, «è stato un cazzo di anno assurdo», pieno di dolore e introspezione. Ha appena iniziato a elaborarlo, sia con la meditazione che, a volte, con la musica.
A proposito di musica: «Quest’anno uscirà qualcosa, è sicuro», dice. «Un album? È una parola forte». Il rumor secondo cui pubblicherà una trilogia di LP per poi ritirarsi, spiega, non ha alcun senso.
«Posso continuare a fare musica per sempre. È quello che sono», dice. «Anche se iniziassi a fare delle cazzo di sculture, o a studiare entomologia, continuerei a pubblicare musica. Sto ancora imparando a conoscermi. Se continuassi a ripetermi finireste per odiarmi. E non voglio che succeda».
Tuttavia, è consapevole dell’attesa e della pressione dei fan. «Ho pubblicato solo collaborazioni», dice. «La gente non sa chi sono, vero? Pensano io sia interessata alle robe da superstar. La gente è stanca di quella roba, lo so. Vogliono vedere me. Glielo devo. Ed è quello che farò».
Al momento cerca l’ispirazione nel jazz (Miles Davis, John Coltrane) e da una playlist eclettica che ha costruito «partendo dall’infanzia» e che alterna i Beach Boys, Ella Fitzgerald e il gruppo neo-soul australiano Hiatus Kaiyote. «Non me ne frega un cazzo della coerenza», aggiunge. «Se suoni naturale, la tua roba sarà coerente. Fine».
«È molto versatile», dice Henderson di TDE. «Può fare alternative rock, r&b tradizionale, hip hop, country. Può mescolare tutte queste cose insieme, un po’ com’è successo in Ctrl – e questa è la cosa più divertente. Adesso si apre un capitolo nuovo, non ha paura di provare cose diverse».
Di recente è entrata in studio con Timbaland («Ha suonato un sacco di beat con influenze jazz e brasiliane, e sono andata fuori di testa»), dove ha fatto una session illuminante con Sia (hanno scritto delle canzoni insieme, e SZA dice che la cantante di Chandelier ha «tirato fuori il meglio di me»). A ottobre, poi, ha ricevuto una telefonata da un uomo con un accento molto particolare, che le chiedeva di suonare in un festival internazionale. Dopo un po’, ha smesso di giocare e le ha detto: «Sono Stevie». «Io ho risposto: “Stevie chi?”. E lui: “Stevie Wonder”».
Stevie Wonder le ha chiesto di salire sul palco con lui durante il suo festival, il Taste of Soul, che si sarebbe tenuto a Los Angeles il giorno successivo. SZA è partita subito e ha pagato il volo a suo padre, così che potesse vederla. Scherza dicendo che era la prima volta che si svegliava per un soundcheck alle 9 del mattino. Prima di suonare, lei e Wonder hanno passato un paio d’ore insieme nella sua roulotte, suonando il piano e improvvisando. Mi fa sentire qualche registrazione di quel momento e dice che ne ha tratto cinque potenziali beat. «Non so dove andrò a finire», dice ridendo. «È stato spaventoso, perché lui è in cima alla mia lista».
Quando racconta la mattinata con Wonder, SZA si illumina, e più ne parla più è chiaro perché: quel momento è stato l’unico sprazzo di luce in un periodo fatto di perdite personali, peggiorato dalla fame insaziabile di nuova musica che sembra aver contagiato i suoi fan. Prima ha perso l’amico e collaboratore Mac Miller, morto di overdose accidentale nell’autunno del 2018. Poi, all’inizio del 2019, la salute della nonna materna Norma è peggiorata irreparabilmente.
Per questo, SZA ha passato gran parte dell’ultimo anno in viaggio tra Los Angeles e il New Jersey, dove Norma era ricoverata, una routine in cui era difficile trovare spazio per andare in studio. Sembrava che tutto fosse saltato per aria. «Ero in aeroporto, pronta a partire per incontrare mia nonna che era attaccata a un tubo», dice, «e i fan mi dicevano: “ehi, ma che stai facendo? Possiamo farci una foto?».
Arrivata in New Jersey, ha aiutato gli infermieri a cambiare i pannolini della nonna e i sacchetti da colostomia, e ha cercato allo stesso tempo di aiutare sua madre. «Mia nonna era la mia migliore amica», dice. «Sono stati i cinque mesi più lunghi di tutta la mia vita». A maggio, quando Norma è peggiorata sul serio, SZA si è esibita a Saturday Night Live con DJ Khaled, e la cosa l’ha fatta sentire immensamente in colpa.
Ripercorrendo tutto questo periodo direttamente dal pavimento del suo salotto, SZA inizia a piangere – prima in silenzio, poi con lenti singhiozzi. «Non volevo fare musica», dice. «Non volevo. Stavo cercando di non uccidermi e di non smettere, fine. Perché è stato davvero difficile, e mi sentivo molto sola».
Norma è morta a giugno, aveva 90 anni. Cinque mesi dopo, a novembre, è successa la stessa cosa alla zia materna di SZA, questa volta senza alcun preavviso. «Ho seppellito troppa gente nella mia vita, qualcuno direbbe che ci sono abituata, ma anch’io ho un limite. Ecco, la morte di mia nonna ha superato quel limite. È stato così strano non avere nessun…», la sua voce si spezza, «Non so, nessun controllo sulle cose».
Per iniziare quello che definisce «un viaggio fuori da questa depressione del cazzo», SZA si è concentrata sull’esercizio e sul benessere fisico. Si è obbligata ad andare in palestra ogni giorno per fare pilates; ha iniziato a meditare e a usare le campane tibetane (a dicembre le ha suonate in pubblico per la prima volta, in una cappella di Rancho Palos Verdes in California). Dice che tutte queste cose l’hanno aiutata, un po’ per volta.
«Per sentirti meglio devi fare delle scelte. Devi farlo. Devi», dice tra le lacrime, battendosi il pugno sul petto. «Se non lo fai, muori. Ho deciso di scegliere per me stessa, cazzo, e ho iniziato a farlo davvero. Non sto solo cercando di scrivere musica di cui mi importi qualcosa, sto cercando di lavorare con persone che tengono a me. Tutto qui. Sto cercando di fare qualcosa che abbia un significato, che mi appassioni, che mi ricordi che valgo qualcosa, che ho talento e che sono una brava ragazza. Roba semplice». Fa una pausa e raccoglie i pensieri. «Ecco cosa cazzo sto facendo».
Una settimana dopo, SZA è tornata a Los Angeles, fresca dopo il produttivo viaggio a Kauai. È rimasta lì un giorno in più, ha costruito una “gabbia di cristallo” per il suo microfono e ha lavorato dalle 3 del pomeriggio alle 4 del mattino ogni giorno, scrivendo quattro nuove canzoni, tra cui un pezzo che definisce «una roba trap scritta dalla prospettiva di Joni Mitchell». Ha nuotato nell’oceano e sotto le stelle, e ha visto una tartaruga di mare passarle accanto. «La seconda notte sono scoppiata a piangere», dice. «C’erano così tante stelle e ho pensato: “Oh, dio, dove sono, per davvero? Cos’è questo pianeta?».
Dopo una sola notte a casa prenderà un altro aereo, questa volta per Miami, per lavorare con Pharrell, che ha idolatrato per anni. «L’ho stalkerato per tutta la vita», dice. Le loro strade si sono incontrate per la prima volta quando era una giovane stagista nella sua azienda di vestiti, Billionaire Boys Club. Un giorno, doveva portare dei vestiti sul set di un video dei N.E.R.D., e l’hanno fatta posare per le telecamere. Un decennio dopo, scrive musica nel loro studio.
Ultimamente sta cercando di crescere in maniera graduale, non di avere tutto subito e nello stesso momento. «Il punto è registrare ogni giorno, con l’idea che stiamo scolpendo questa cosa invisibile che un giorno si rivelerà da sola», dice.
Alle Hawaii, aggiunge, «ogni giorno portava idee ed esperimenti, è un modo di lavorare che mi ha portato a fare roba che non avevo mai sentito prima. Di solito, quando sento qualcosa che non avevo mai sentito prima, arriva da un altro artista. È eccitante quando arriva da dentro di me».