«Mi piacerebbe sapere perché sembra sempre che tocco i tasti sbagliati», dice M.I.A.. «Tutti sanno che toccare quei tasti è sbagliato, se lo fai vieni punita». È una mattina di luglio, il 18 per la precisione, e M.I.A. sta bevendo un caffè a Hyde Park, Londra, con indosso un vestito felpa verde e un paio di occhiali da sole con le lenti verdi coordinate. Oggi M.I.A. (vero nome Mathangi Arulpragasam, detta Maya) compie 41 anni, ma dice che non le è mai importato granché dei compleanni. Invece, le importa capire perché fa sempre danni. Negli ultimi anni è riuscita a far incazzare la NFL (che le ha fatto causa per 16.6 milioni di dollari per aver fatto il dito medio durante la sua esibizione insieme a Madonna all’halftime show del Superbowl 2012. Il caso è stato chiuso con un accordo economico rimasto segreto, ndr) e il Dipartimento di Stato americano, che le ha negato il visto per rientrare negli Stati Uniti.
Nata a Londra da genitori originari dello Sri Lanka, Maya ha un figlio di 7 anni, Ikhyd, avuto dall’imprenditore e ambientalista americano Benjamin Bronfman, ma le negano comunque il visto, forse perché in passato è stata segnalata come sostenitrice delle Tigri Tamil, un gruppo separatista dello Sri Lanka che gli Stati Uniti considerano un’organizzazione terrorista. Lei ha sempre negato il suo appoggio alle Tigri, anche se ha sostenuto apertamente la minoranza Tamil. «Non mi dicono mai no e neanche sì», dice a proposito del suo visto, «continuano solo a dirmi che stanno esaminando il mio caso». Lo scorso aprile M.I.A. è stata bersagliata dalle critiche a causa di alcune dichiarazioni che sono state interpretate come dispregiative nei confronti del movimento Black Lives Matter e, cosa ancora più grave, nei confronti di Beyoncé. «In America l’unica questione di cui sembra che si possa parlare è Black Lives Matter», ha detto all’Evening Standard, «perché Beyoncé o Kendrick Lamar non dicono Muslim Lives Matter, o Syrian Lives Matter?».
In seguito ha chiarito la sua posizione in un tweet: “Non era una critica rivolta a Beyoncé, ma al fatto che oggi nel 2016 si può dire A, ma non si può dire B”. A causa delle polemiche, però, M.I.A. ha perso il posto da headliner al prossimo Afropunk Festival di Londra.
Rompere il ghiaccio
Adesso M.I.A. dice che l’unica cosa che vuole fare è pubblicare il suo nuovo album in pace, intitolato AIM, e poi ritirarsi. «Sono stanca, voglio crescere mio figlio». Se veramente sarà il suo ultimo album, sarà una bella svolta: AIM è più leggero, meno apertamente politico e più arioso di quello per cui è conosciuta: «È il mio album più positivo, non c’è nessuno degli argomenti caldi del momento: niente razzismo, niente politica, niente questione gender. Sarà un viaggio interessante per me, un messaggio di amore», dice con un sorrisetto, «sto facendo di tutto per non sembrare Madonna». Blaqstarr, suo amico e produttore, dice che M.I.A. ha un lato dolce che il pubblico non ha molte occasioni di vedere: «Viene considerata una specie di Nikita, ma sotto l’armatura c’è il desiderio di essere una figura materna». A quanto pare Maya ha anche fatto pace con il suo ex fidanzato e collaboratore Diplo, con cui si è scambiata spesso frecciate attraverso i giornali. Dopo averlo definito «maniaco del controllo» e aver detto che «lui non vede l’ora di diventare il miglior amico di Taylor Swift», l’anno scorso ha postato una foto in cui lo abbraccia. Diplo ha anche remixato un pezzo di AIM. Ma nonostante tutto questo, M.I.A. sa che prima o poi ne combinerà un’altra: «Finirei nei casini anche se ti dicessi che voglio stare in questo parco, piantare una tenda e vivere come una yogi per 30 anni. Finisco sempre nel cazzo di occhio del ciclone, e non so perché. Sto cercando di gestirlo. Perché? Perché? Dovrei cambiare la mia vita per trovare la risposta».
All’inizio della sua carriera il suo atteggiamento ribelle era probabilmente la sua arma migliore: «Era il periodo dell’”Asse del male” e bla bla bla. Sono diventata famosa perché non avevo paura». M.I.A ha esordito nel 2005 con Arular, un disco con un sound hip-hop globale e una sensibilità in grado di creare un punto di contatto tra le lotte quotidiane dei giovani di Compton e quelle dei popoli oppressi nei paesi in via di sviluppo. Dal punto di vista creativo i suoi discendenti diretti sono pop star sovversive come Grimes o Santigold, ma si può dire che abbia anche contribuito a far emergere l’attuale attivismo nel mondo del pop aprendo la strada a tutti, dal femminismo impenitente e sfacciato di Nicki Minaj a Formation di Beyoncè.
«Non sono il tipo di persona che fa miliardi di dollari parlando dell’oppressione e basta» dice, «Piuttosto sono quella che rompe il ghiaccio. Gli altri mi vengono dietro e monetizzano». Nel 2007 M.I.A ha registrato il suo secondo album Kala essenzialmente in fuga: il progetto era lavorare con Timbaland negli Stati Uniti, poi i suoi problemi con il visto l’hanno costretta a registrare con altri produttori in giro per il mondo, dall’Angola all’Australia. Dal caos è arrivata una hit a sorpresa, Paper Planes (scritta con Diplo) un attacco nei confronti degli occidentali terrorizzati dalle ondate migratorie che è arrivato al numero quattro nella classifica Hot 100, è stata scelta da Danny Boyle per la colonna sonora di The Millionaire ed è anche stata usata nel trailer della commedia Strafumati con Seth Rogen e James Franco.
M.A.M.M.A.
Nello stesso periodo si lascia con Diplo, incontra Bronfman (figlio di un ex amministratore delegato della Warner Music Group ed erede dell’impresa di famiglia Seagram Co) viene nominata agli Oscar, va in tour con Bjork e scrive pezzi per Christina Aguilera. Nel 2009 è incinta di nove mesi di suo figlio Ikhyd ma si esibisce lo stesso ai Grammy insieme a Jay Z, T.I., Lil Wayne e Kanye West. Sembra destinata a diventare una superstar, o come dice lei «Una super-mega-multinazionale. Avevo davanti una platea di gente che mi diceva sempre: “Sarai la fottuta icona del nuovo millennio. Accettalo”». Invece M.I.A. decide di toccare i tasti sbagliati. Prima comincia a parlare di teorie cospirazioniste, per esempio di come Internet sia diventato uno strumento controllato del governo per spiare i cittadini, poi dice a un giornalista che Google e Facebook sono stati creati dalla CIA e che il presidente Obama dovrebbe restituire il Nobel per la pace. Quando il New York Times pubblica un articolo che la dipinge (probabilmente in modo ingiusto) come un’ipocrita che dice di rappresentare i poveri ma sta insieme al figlio di un milionario, lei reagisce twittando il numero di telefono del giornalista e pubblicando le registrazioni integrali dell’intervista.
Il suo album successivo, Maya del 2010 è splendido ed abrasivo, pieno di beat industrial e rumori electro-punk. Il primo singolo Born Free viene lanciato con un video in cui un ragazzino con i capelli rossi dall’aria angelica viene ucciso con un colpo di pistola alla testa. «A volte non so nemmeno cosa sto dicendo» spiega M.I.A «Le parole mi vengono fuori da sole e non so come fermarle». L’unica cosa che ha sempre in mente è la guerra civile nello Sri Lanka, finita in modo brutale. La sua famiglia appartiene alla minoranza Tamil, suo padre faceva inizialmente parte di un gruppo separatista poi ha fatto il mediatore tra il governo e le Tigri del Tamil. «La mia famiglia ha scatenato una guerra che dura da 35 fottuti anni» dice M.I.A, che non ha quasi mai incontrato suo padre, «Ero infelice per come era finita per i Tamil, ma a nessuno importava e nessuno mi aiutava».
Maya arriva al n.9 in classifica, poi sparisce rapidamente. Stavolta non ci sono hit a sorpresa: «Mi hanno detto: “Se stessi zitta, potresti essere Rihanna”. Io ho risposto: “Devo essere onesta con me stessa, mi chiamo fuori dai giochi” E così ho fatto». Incontro ancora M.I.A il giorno dopo a colazione. È quasi mezzogiorno e lei è a pezzi. Forse non aveva voglia di festeggiare il suo compleanno, ma i suoi amici sì e l’hanno portata in un ristorante peruviano dove hanno bevuto innumerevoli cocktail “latte di tigre”. «Ecco come si chiama, stronze!» urla ricordandosi il nome del drink e agitando una mano con le unghie dipinte di arancione fosforescente (evidentemente una parte di lei pensa di essere ancora nel bar).
Prima di uscire ieri, mi racconta: «È successa una cosa veramente bella». Mi mostra sull’iPhone la foto di un enorme volatile che è entrato in casa sua dalla finestra. «Volevo ordinare delle uova, ma non voglio mangiare niente che provenga da un uccello, mi sembra una mancanza di rispetto» dice solennemente. Ordina un toast all’avocado e insalata di frutta, si mette comoda sulla sedia e sorride: «Ho parlato via Face Time con mio figlio». Ikhyd è a New York con il padre (lei e Brofman hanno la custodia condivisa). M.I.A gli ha fatto vedere l’uccello che volava in casa: «Lui mi ha detto: “Dovresti cucinarlo!”» ride piena di orgoglio, «”Che aspetti, mamma? Mangialo”» Non si sa bene quando ha rotto con Bronfman, ma alla fine del 2010 è andata a Londra e non è più tornata in America. «Avevo un figlio e avevo bisogno di mia madre». La separazione è stata consensuale. Nel 2013 Bronfman ha ottenuto un ingiunzione restrittiva che le impedisce di portare il bambino con lei in Inghilterra, cosa che sappiamo perché lei lo ha twittato. Essere la madre di un bambino privilegiato è strano per M.I.A che a sei mesi si è trasferita in Sri Lanka da Londra ed è cresciuta assistendo ad orrori di ogni tipo, tra cui vedere i soldati picchiare sua madre incinta. Il suo primo istinto è stato quello di rendere più forte suo figlio ricreando alcune delle situazioni della sua infanzia: «Gli ho dato da mangiare pane e burro per una settimana, e lui mi ha detto: “Mamma, non dovresti mangiare così, sei una popstar”». Suo figlio appartiene al mondo in un modo che lei non conosce. Anche in Sri Lanka, teoricamente la sua patria, mi dice di non essersi mai sentita «Normale». A causa dell’attività politica del padre era costantemente in pericolo: «La mia famiglia era perseguitata. Da quando sono nata è come se qualcuno mi ripetesse: “Stai attenta, qualcuno ti ucciderà”».
mi porta in giro a East London, «quando avevo 15 anni, tutte queste persone le avrebbero ammazzate», mi dice indicando i nuovi abitanti del quartiere, artistoidi e bianchi
Nessun Dramma
Quando ha compiuto dieci anni, lei e i suoi fratelli sono tornati in Inghilterra con la madre. Vivevano in una casa popolare di South London dove essendo una delle poche persone di origine indiana veniva insultata per strada o semplicemente trattata come se fosse invisibile: «Non è nemmeno razzismo, è ancora peggio. È come se non ci fossi». Mi porta a fare un giro a East London, dove da ragazzina frequentava i rave party e le gang di Bengalesi. «Quando avevo quindici anni, tutte queste persone sarebbero state uccise qui» mi dice indicando i nuovi abitanti artistoidi e prevalentemente bianchi di questo quartiere gentrificato di recente. M.I.A ha imparato da ragazza a trasformare la sua condizione di outsider in un punto di forza: «Io e mia sorella frequentavamo la comunità Giamaicana, i Pakistani e gli Indiani. Quando ho iniziato a fare musica mi sono ispirata a loro. Ho pensato: “Sono persone che hanno avuto un ruolo importante nella mia storia”».
Da quando è tornata a Londra ha cercato di mantenere un basso profilo. Non viene quasi mai riconosciuta in giro, anche se, mi racconta, i compagni di scuola di Ikhyd si aspettano da lei atteggiamenti da popstar: «Fanno commenti su come mi vesto, e si lamentano se non mi comporto da come una di loro». Il suo nuovo album AIM, dice, è: «Come se fossero dodici cover del pezzo spiritual Kumbaya». Il fuoco del passato ha lasciato il posto ad uno spirito di conciliazione, anche in un pezzo personale come Ola No Visa in cui canta: “Sono una combattente e un’amante / E non sto cercando di fare scenate”. «Ho predicato molto odio nelle canzoni, ma non posso sostenere l’odio anche nella mia vita, perché non è la verità». Soprattutto non vuole dare ragione a chi la vuole dipingere come un’immigrata pericolosa: «I rifugiati sono ancora persone senza un volto, senza una voce, sono sul gradino più basso».
M.I.A non ha ancora deciso cosa farà dopo l’uscita di AIM. La settimana dopo il nostro incontro è volata in Grecia per lavorare con i rifugiati e ha detto di voler riprendere a fare la regista di documentari, cosa che ha studiato al college. Le piacerebbe riuscire a dare un’ultima stoccata all’America, se riuscisse a tornarci: «Ma quando mi daranno finalmente il visto» dice scherzando ma non troppo, «Trump sarà diventato presidente». In ogni caso, qualunque cosa succeda per lei va bene. Mentre giriamo per East London passiamo vicino al centro giovanile della Christ Church di Spitafields, dove passava il tempo da ragazzina. Mi racconta che un giorno uno degli operatori l’ha presa da parte: «Mi ha detto: “Te ne devi andare da qui se non vuoi finire in una casa popolare con sei figli prima di compiere 21 anni”». La sua risposta? «Mi sembra fantastico, chi non vorrebbe una cosa del genere? L’alternativa è essere già morta».
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